La pastorale come professione

in Settimana News

Rainer Bucher è professore di teologia pastorale presso la Facoltà cattolica di teologia dell’università di Graz e membro della redazione della rivista Feinschwarz. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: …wenn nichts bleibt wie es war. Zur prekären Zukunft der katholischen Kirche, Echter Verlag 2012 (…quando niente rimane com’era. Sul precario futuro della Chiesa cattolica). L’originale in tedesco di questo contributo è stato pubblicato sulla rivista online Feinschwarz. Si ringrazia la redazione e l’autore per il permesso di traduzione e di pubblicazione suSettimanaNews.

Quando, negli anni ’60 del XX secolo, il milieu cattolico, dominato clericalmente, andava erodendosi in maniera quasi spettacolare, le ricche Chiese dell’area linguistica tedesca poterono reagire con una strategia sorprendente, ossia con un’espansione professionale. L’offerta del personale ecclesiastico venne massivamente ampliata e, prima di tutto, professionalizzata.

I collaboratori e le collaboratrici pastorali potevano accedere ad una formazione specializzata, regolata e di qualità. Furono delineati per loro specifici ambiti pastorali e la possibilità di ottenere le competenze necessarie per agire in essi.

Espansione professionale

La maggior parte di queste persone, che avevano ricevuto una formazione accademica, vennero anche assunti e impiegati nella pastorale. Settori essenziali del personale ecclesiastico (come nella Caritas, nell’educazione, nella formazione permanente, nella pastorale degli adulti, ma anche nell’insegnamento della religione) sono persone professionalmente formate e pagate, che svolgono la loro professione nella Chiesa (per la maggior parte si tratta di cosiddetti “laici”).

Tale processo di professionalizzazione ha creato alla base della pastorale una struttura di personale non clericale in concorrenza accanto a molti altri ambiti nei quali rimaneva decisiva l’appartenenza alla gerarchia presbiterale. Ma, in tal modo, i preti vennero posti, a loro volta, sotto pressione per una professionalizzazione del loro ministero, generando così una tensione non facile da risolvere rispetto all’immagine classica post-tridentina del prete, plasmata su una base teologico-ministeriale e sacramentale – ossia esattamente un’immagine non caratterizzata in maniera funzionale e professionale.

Un deficit di pensiero pastorale

Questo processo di professionalizzazione e differenziazione ha seguito, a suo tempo, le linee generali di una differenziazione di ambiti sociali di attività che, in epoche precedenti, erano integrati fra di loro. Dietro a esso non vi stava alcuna concezione pastorale complessiva che, in maniera significativa, andasse oltre i modelli di reazione alle sfide poste da nuove condizioni – così come essi vengono messi a disposizione dalle società moderne.

Tale deficit concettuale segna ulteriormente la Chiesa in una stagione di prevedibile scarsità di risorse. Infatti, davanti alle priorità su cui si deve decidere oggi le ambivalenze del processo di professionalizzazione della pastorale si palesano chiaramente. Ma questo non sarebbe ancora il problema serio per la Chiesa. Esso consiste, piuttosto, nel fatto che si ha difficoltà nell’approcciare in maniera proficua queste ambivalenze più o meno inevitabili.

Ambivalenze della professionalizzazione della pastorale

Si ha una consapevolezza relativamente chiara dell’ambivalenza personale. Un agire esplicitamente cristiano che viene pagato, imparato ed esercitato professionalmente, sembra essere di secondo livello rispetto a un agire cristiano non retribuito, spontaneo, che viene esercitato al di là dei modelli di ruolo a partire da ragioni del tutto personali. Il guadagno di efficacia e la crescita di adeguatezza significate normalmente dalla professionalizzazione vengono pagate, così ritiene qualcuno, con un deficit di autenticità che sarebbe legato ad un’attività lavorativa relativamente ben pagata.

Si è invece meno consapevoli della complessiva ambivalenza pastorale – per quanto questa possa essere impellente. La professionalizzazione della pastorale significa, quasi sempre, la costruzione di un ambito di attività al di fuori della struttura ecclesiale tradizionale di fondo. Qualcosa del genere avviene nelle attività a carattere diaconale (nel sociale ad esempio) e nel sistema educativo-formativo (compreso l’insegnamento della religione).

La Chiesa cattolica, nei territori linguistici tedeschi, si divide attualmente in una «Chiesa parrocchiale/comunitaria», in condizione di crisi e di contrazione, in una «Chiesa del rito» distinta da essa, e in uno spettro di settori di attività ecclesiali professionalizzate che si colloca intorno alle due precedenti figure. In questo spettro di attività ricadono la formazione/educazione scolare e non, la pastorale d’ambiente e di categoria, la Caritas, gran parte di ciò che si collega al lavoro missionario e le forme di cooperazione allo sviluppo.

Questa differenziazione, che è un inevitabile effetto collaterale del processo di professionalizzazione, porta, al di là dei meccanismi finanziari e giuridici di integrazione, ad una evidente disintegrazione della struttura dell’agire ecclesiale, che in precedenza trovava nel clero il suo principio di integrazione. Al guadagno di differenziazione si contrappone, quindi, una chiara perdita di connessione e di correlazione del tessuto ecclesiale.

La professionalizzazione della pastorale e il ministero del prete

L’ambivalenza teologico-ministeriale legata al processo di professionalizzazione può essere colta soprattutto nella difficoltà a collegarlo, in modo veramente conseguente, con la classica teologia post-tridentina del ministero – in particolare con la sua connessione di sacramentalità e potere di giurisdizione. Insomma, si ha difficoltà a impedire che “professionalità” e “ordinazione” si dispongano, in concorrenza tra loro, verso diversi gruppi di attività ecclesiale.

La teologia cattolica del ministero, legata all’ordinazione, in particolare nella sua concentrazione ontologicizzante, metteva al centro del ruolo (vocazione) del prete non tanto le competenze di azione pastorale, quanto piuttosto la grazia (della consacrazione presbiterale) e il primato clericale sui laici. Con il pendant, dalla parte del prete, di una santità e di una virtù personale che non avevano necessariamente a che fare con la professionalità pastorale.

“Ordinazione” e “professionalità” finiscono così col cadere in una strana contrapposizione. Soprattutto quando la “professionalità” per i laici e le laiche con formazione teologica impiegati nella Chiesa diventa un sostituto per l’“ordinazione” mancante e, dalla parte dei preti, l’ordinazione sta come un sostituto per potenziali mancanze di competenza professionale. Il guadagno di competenza legato alla professionalità diventa così un luogo di rivalità rispetto alla sacramentalità, giuridicamente connotata, del presbiterato. Uno sviluppo infelice e inopportuno per entrambe le parti.

L’agguato della tentazione

Le ambivalenze del processo di professionalizzazione della pastorale sono una realtà – e una grande tentazione. Tali ambivalenze ci impediscono di considerare questo sviluppo come qualcosa di scontato e di considerarlo come normalità. Non lo sono né da un punto di vista sincronico e, quindi, di Chiesa universale, né da quello diacronico e di storia della Chiesa. Ma non lo sono neanche se le consideriamo a partire dalla loro struttura interna.

La tentazione sta nella falsa alternativa di voler semplicemente scansare queste ambivalenze, negandole e insistendo su una professionalizzazione della pastorale come se si trattasse una panacea universale per i problemi costitutivi della Chiesa. Oppure, al contrario, di denunciare la professionalizzazione della pastorale come un errore di percorso che ha prodotto una «Chiesa di impiegati», cercando di revocarla definitivamente – non senza una qualche nostalgia per forme ecclesiali comunitarie premoderne e indifferenziate (una nostalgia che si può trovare in tutte le parti dello spettro ecclesiale).

Nella misura in cui tali ambivalenze sono inevitabili, non le si dovrebbe vedere come delle alternative ma come polarità che pongono questioni ineluttabili alla Chiesa. A dire il vero, si deve trovare un criterio al di fuori di queste polarità, ossia al di fuori del tema della professionalizzazione, in grado di mostrare se la Chiesa rende onore e assume tali questioni.

Il criterio pastorale del Vaticano II

Criterio che si trova esattamente nella concezione della pastorale propria al Vaticano II: come confronto creativo fra Vangelo ed esistenza in parole e opere, nella sfera individuale come in quella collettiva dell’agire umano.

Naturalmente i professionisti pastorali, in tutta la loro competenza e professionalità, devono lavorare anche sulla loro autenticità, in quanto quest’ultima, ben compresa, è parte della loro stessa professionalità. Essa è però anche un dono, una grazia, e quindi può essere solo in parte questione di esercizio. Pretendere che siano solo i professionisti della pastorale a elaborare la polarità tra guadagno di efficacia e perdita di autenticità vorrebbe dire spostare indebitamente e unilateralmente problemi strutturali sulle spalle della singola persona.

Lo stesso vale per la complessiva ambivalenza pastorale di un guadagno di differenziazione e una perdita di connessione e correlazione del tessuto ecclesiale. Tale ambivalenza richiede comunicazione, riconoscimento dell’irrinunciabilità pastorale dell’altro, superamento di una cultura del risentimento come tentativo di configurazione di sé mediante svalutazione di ciò che non si è.

Il dono delle competenze dell’altro

Questa ambivalenza richiede lo sguardo sagace verso ciò che l’altro ha e io non ho, e che io posso potenzialmente ricevere in dono da lui/lei. Questo atteggiamento originariamente cristiano del superamento di ogni idea di concorrenza pastorale, dell’invidia per le sue competenze specifiche, ossia un atteggiamento di riconoscimento, è qualcosa di cui abbiamo oggi urgentemente bisogno. Infatti, solo attraverso questo stile relazionale si può trovare una risposta alla potenziale perdita di un quadro di connessione, implicito nella professionalizzazione della pastorale, e sottrarsi, al tempo stesso, al pericolo di un contraccolpo neo-integralista – tenendo fermo il guadagno di efficacia e di adeguatezza portato da una professionalizzazione della pastorale.

La vera cartina tornasole del processo di professionalizzazione della Chiesa è quella che ruota intorno alla questione della rivalità verso il ministero ordinato sacramentale. Questa ambivalenza richiede, infatti, molto da entrambe le parti: dai laici impegnati professionalmente nella pastorale e dai preti. Questi ultimi furono tra i pionieri della professionalizzazione, ma hanno da lungo tempo perso questo vantaggio (quantomeno a partire dall’espansione del sistema educativo e scolare dopo la II Guerra Mondiale).

Da parte dei laici, richiede il superamento delle esperienze ferite che hanno accumulato nel tempo e degli impulsi di rivalità che sono collegate a esse. Da parte dei preti, richiede lo sviluppo di forme di realizzazione del loro ministero che vadano oltre la sua storia di potere degli ultimi secoli, unicamente a partire dalla sua legittimazione sulla base di una certa visione della teologia della grazia ministeriale. Ma questa è impresa estremamente difficile.

Unità Pastorale «Santi Crisanto e Daria» Cattedrale – S. Prospero – S. Teresa – S. Stefano – S. Zenone  Mercoledì delle Ceneri 2018

Unità Pastorale «Santi Crisanto e Daria»

Cattedrale – S. Prospero – S. Teresa – S. Stefano – S. Zenone

 Mercoledì delle Ceneri 2018

MERCOLEDÌ 14 FEBBRAIO 2018

In Cripta della Cattedrale: alle 7.15 Ufficio delle Letture e Lodi

Sante Messe con l’imposizione delle Ceneri

alle 8 in Cripta; alle 9.30 in Santo Stefano

alle 10.30 in Cattedrale; alle 17 in S. Teresa

Alle 19 in Cattedrale: Messa presieduta dal Vescovo

Mercoledì sono sospese le Messe
alle 18.30 in S. Prospero e in S. Teresa e delle 19 in Santo Stefano
Sono
sospesi in Cripta: Adorazione eucaristica, Rosario e Vespri

Confessioni in Cattedrale dal martedì al sabato, dalle 10 alle 12

***

Martedì 13 febbraio: in Cripta festa dei Santi Cirillo e Metodio patroni d’Europa

Aumentata di cinque volte in pochi mesi l’incidenza della malnutrizione. Centinaia di bambini allo stremo nel Ghouta orientale

L’Osservatore Romano

Sempre più gravi le notizie che provengono dal Ghouta orientale, nei pressi della capitale siriana, Damasco, una zona colpita a più riprese dalla massiccia offensiva aerea delle forze governative. A causa delle violenze sempre più cruente, decine di persone, soprattutto bambini, sono morte e molte altre sono rimaste ferite. «E i combattimenti non accennano a diminuire», afferma in un comunicato l’Unicef, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia.

Vaticano Il Papa si iscrive alla Gmg col tablet «Anch’io vengo da pellegrino»

Corriere.it

(Ester Palma) La riunione mondiale della gioventù si terrà a Panama nel gennaio 2019. Francesco ha anche ricordato i malati, cui è dedicata oggi la Giornata mondiale: «La malattia non rende impuri, il peccato e la corruzione sì» — I due ragazzi accanto a lui sono sorridenti e in maglietta, nonostante la temperatura rigida, uno ha in mano un tablet.

Nuova teologia eucaristica (/4): Habeas corpus (di Claudio U. Cortoni)

Habeas

Un altro autore che aiuta ad un profondo e competente ripensamento della teologia eucaristica è Claudio U. Cortoni, monaco camaldolese e professore di Sacramentaria medievale al Pontificio Ateneo S. Anselmo. E’ autore di  «Habeas corpus» Il corpo di Cristo dalla devozione alla sua umanità al culto eucaristico (sec. VIII-XV)  (Studia Anselmiana, 170), Roma, 2016. Qui di seguito pubblico una intensa sintesi del suo lavoro, che lo stesso Cortoni ha scritto per questa occasione. Lo ringrazio di cuore per questo testo.

Nel lontano 1960 Karl Rahner, durante una conferenza tenuta ad un gruppo di teologi cattolici e protestanti, si chiese, a conclusione del suo discorso, che cosa fosse rimasto di oscuro e aperto alla discussione, sulla presenza di Cristo nel sacramento della Cena del Signore. In quell’occasione, Rahner suddivise la riflessione conclusiva in cinque brevi punti, riservando all’ultimo, il quinto, l’invito a riprendere in mano lo studio della storia del dogma della presenza reale, partendo dalle nuove acquisizioni patristiche e medievali:1

«La storia del dogma di cui ci occupiamo [la presenza di Cristo nel sacramento della Cena del Signore] è stata indagata relativamente bene. Il materiale patristico e medievale è a disposizione. Non si potrebbe riprenderlo ancora una volta, per vedere se non sia possibile porre qualche interrogativo illuminante a quelle semplici descrizioni morte che ci fanno conoscere il cammino che la teologia ha percorso, per giungere alla situazione in cui oggi la teologia comunemente si trova? Ciò non per rendere nuovamente oscuro ciò che è già chiaro, ciò che da allora è stato già definito».

Rahner apre una strada di ricerca accattivante, ma quanto mai difficile: prima di tutto si dovrebbe riconsiderare il termine realtà,che per buona parte del Medioevo era sconosciuto ai teologi coinvolti nelle controversie eucaristiche, rispetto al quale si era preferito ricorrere alla verità. Ma tanto realtà quanto verità sono entrambi substantifs abstraits de qualité2, dunque sono sì sostantivi, ma astratti, che designano una qualità; la domanda dunque è: chi è la res di realitas e il verum della veritas?

Rispondere alla domanda significa riconsiderare anche il termine presenza, poiché presenza reale è presenza di una certa res, o essere presente in veritate significa che tutto dipende dal verum che fonda la veritas. Ad aver approfondito tale argomento nel primo medioevo è stato Pascasio Radberto, il quale non esita, nel suo trattato sull’eucaristia, ad identificare il verum con il Cristo e laveritas con il contenuto cristologico di Calcedonia. Pascasio fonda il suo fisicismo eucaristico sul monopersonalismo cristologico sviluppato dai teologi carolingi, e confermato al sinodo di Cividale del Friuli del 795, per arginare il tardivo adozionismo che dalla Spagna mozaraba rischiava di trovare terreno fertile oltre i propri confini. Pascasio agì in buona fede, volendo ribadire come in Cristo si fosse realizzata la salvezza dell’uomo, operata come vero Dio e vero uomo, e che nell’eucaristia fosse presente questo mistero in senso storico. Ma egli era ormai incapace di distinguere tra corpo storico e sacramentale, senza che quest’ultimo fosse inteso solo come immagine. L’obiezione che gli venne sollevata non era del tutto scontata: ogni consacrazione deve essere allora considerata un’incarnazione? Per quanto riguarda invece il termine res, il senso non si è mai allontanato da quello cristologico altomedievale, ma lentamente ha trovato uno spazio specifico in una realitas che non si fermava più al solo corpo di Cristo, ma come afferma Anselmo d’Aosta, riguardava l’intera dispensatio Christi, e cioè il senso soteriologico del corpo di Cristo: incarnazione, passione, morte e resurrezione. Anselmo anteponeva la dispensatio Christi ad ogni possibile discussione sulla materia e forma del sacramento, perché esse appartengono alle sensibilità umane, e cioè alle diverse consuetudini delle chiese, e questo lo diceva rispetto al dibattito nato attorno all’uso degli azimi presso i latini, consuetudine allora aborrita dalla chiesa bizantina. Ogni differenza per Anselmo era ammissibile se al centro della celebrazione c’era la memoria delladispensatio Christi. Il verum di Pascasio e la dispensatio Christi di Anselmo pongono il primo vero problema nello studio dell’interpretazione dell’eucaristia nel Medioevo: quale cristologia, e dunque quale soteriologia, sta alla base dell’eucaristia?

La crisi degli azimi è coeva alla seconda controversia eucaristica del sec. XI, la quale più che risolvere il problema della presenza reale, ha prodotto una definizione di sacramento in genere che sarà quella adottata ufficialmente dalla chiesa nel sec. XIII. Berengario di Tours, il padre di questa definizione, recupera l’interpretazione agostiniana di sacramento della tarda età carolingia, non desumibile direttamente dagli scritti di Agostino, ma dalla lettura di Alcuino e Ratramno, il grande oppositore di Pascasio. Da entrambi gli autori altomedievali Berengario capisce che prima va definito il sacramento in genere, per poi poter capire il sacramento eucaristico, convinto come era che nell’interpretazione dell’eucaristia non ci si potesse decidere o solo per una lettura fisicista, e cioè per una realtà immediata del corpo storico, o unicamente per una riduzione alla figura, e cioè per una realtà del corpo mediata da un’immagine, ma che andasse cercato un nuovo equilibrio. Il maestro di Tours, nonostante le due condanne, che riprovavano la sua interpretazione eucaristica in favore del fisicismo pascasiano, divenne la fonte prima se non unica di Pietro Lombardo, il quale a sua volta rappresentò l’autorità teologica adottata e resa ufficiale da Innocenzo III. Dunque l’eterodossia non può mai essere esclusa dal processo che porta ad una formulazione dogmatica, anzi è l’interlocutrice senza la quale il processo teologico non avrebbe esito: Ratramno di Corbie e Berengario di Tours si interrogano intorno ad un termine che sarebbe entrato molto tardi nella discussione intorno ai sacramenti, il simbolo, e cioè la possibilità di raccordare assieme veritas-realtias e figura-imago.

Innocenzo III, che recupera e rende ortodosso quanto non avrebbe mai avuto speranza di essere accettato prima, rappresenta con il suo trattato sulla messa un ponte tra i commentari liturgici che lo hanno preceduto e le Summae, che seguiranno all’ingresso di Pietro Lombardo nella teologia ufficiale della chiesa. Non si tratta solo di un cambiamento di stile, di una nuova forma assunta dalla teologia, ma di una nuova domanda che veniva posta al sacramento eucaristico: la domanda non è più sul chi, ossia sul corpo storico o sacramentale di Cristo, ma sul come quel corpo fosse in quelle due specie. Così il termine transustanziazione andò soppiantando tutto un lessico che nei secoli precedenti si era formato intorno alla consacrazione delle specie eucaristiche, creando forse ordine, ma impoverendo la riflessione teologia. Ciò rappresentò un cambiamento epocale nell’interpretazione dell’eucaristia: per la prima volta il sacramento del corpo e del sangue di Cristo andava emancipandosi dal rito, per assumere una sua vita propria. Fino al sec. XII infatti era proibito adorare, o meglio contemplare, il pane eucaristizzato, giacché l’apice della celebrazione era la comunione: “dal suo corpo, abbiamo il corpo che fonda il nostro corpo”, e cioè dal corpo che ha operato la salvezza abbiamo quel corpo-sacramento che fonda il corpo della chiesa. Nasce allora quella devozione al corpo di Cristo che affonda le sue radici nella più antica devozione all’umanità di Cristo. Dunque forse anche il termine transustanziazione, legato fortemente all’ingresso della materia e della forma nel discorso sacramentale, non è altro che il tentativo di rispondere ad un problema cristologico trinitario con gli strumenti della Scolastica.

In questa direzione il caso più importante è rappresentato dall’estensione della festa del Corpus Domini a tutta la chiesa con la bolla Transiturs del 1264, che solo ad una lettura superficiale può sembrare la conferma di Urbano IV alla devozione eucaristica di Giuliana di Liegi. Di fatto Urbano IV nella Bolla ripercorre l’intera storia della dispensatio Christi, legando la presenza reale di Cristo al memoriale della salvezza operato attraverso la vera caro, ma soprattutto riportando il pensiero teologico al chi salvifico, per poi comprendere cosa ha operato il Signore per la salvezza del mondo, e qual è la missione del Salvatore, e cioè come il Cristo offre ogni giorno la salvezza ai credenti. Domande alle quali gli stessi Catari, con una cristologia dualista che negava la natura umana in Cristo, volevano rispondere. È combattendo la cristologia dei Catari e di altre correnti eterodosse sviluppatesi a partire del sec. XII, che prende forma il settenario sacramentale e un nuovo modo di dimostrare colla dottrina della transustanziazione come Cristo abbia salvato il mondo da vero Dio e vero uomo. Non fermiamoci dunque al come, ma riportiamo la domanda sull’eucaristia, nel lungo periodo medievale, alla domanda sul chi, per non cadere in un fisicismo ingenuo, e recuperare la dinamica celebrativa dell’eucaristia con al centro la comunione dei fedeli.

1 K. Rahner, «La presenza di Cristo nel sacramento della cena del Signore», in Saggi sui sacramenti e sulla escatologia, 216-7.

2 Cf. C. Kircher-Durand (ed.), Bibliothèque d’ètudes classiques. Grammaire fondamentale du latin, IX, Crèation lexicale: la fomation des noms par dérivation suffixale, Peeters, Louvain-Paris-Dudley 2002, 225-305.