In questi tempi di guerra sempre piu estesa, possiamo ricordare che la pace è pienezza di vita? Che Gesù aveva dei nemici, ma Lui non era nemico di nessuno?

La pace è dono di Dio, quindi un dono da chiedere insistentemente al Signore nella preghiera, ma al contempo è opera dell’uomo. È dono messianico ed opera umana.

Purtroppo, l’umanità di oggi vive grandi divisioni e forti conflitti che gettano ombre cupe sul suo futuro. Vaste aree del nostro pianeta sono coinvolte in guerre e tensioni crescenti, mentre il pericolo che i conflitti si allarghino sempre di più genera non poche apprensioni nell’animo umano.

Ma non possiamo permettere che nel nostro cuore prevalgano la tristezza, la rassegnazione e il fatalismo, che non portano a nulla di buono. Piuttosto dobbiamo far crescere il nostro impegno per promuovere la pace a partire dal luogo in cui abitiamo e nelle relazioni che viviamo.

La pace implica il coinvolgimento di tutto l’uomo nella sua relazione con Dio, con sé stesso e con il prossimo. Promuovere la pace non è responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana. Le molteplici opere di pace, presenti nel mondo, anche se spesso non fanno rumore, testimoniano l’innata vocazione dell’umanità alla pace. In ogni persona il desiderio di pace è un’aspirazione profonda ed essenziale e coincide con il desiderio di una vita umana piena, felicemente realizzata.

Nel discorso sulle Beatitudini, Gesù mette in relazione la felicità con la giustizia, con la pace, con la mitezza, con il cuore puro e limpido, con la misericordia. Le guerre nascono dal desiderio competitivo di avere ciò che appartiene agli altri, si può trattare della terra, del petrolio o di altre ricchezze.

Cristo oppone al verbo generativo di violenza, che è il verbo “prendere”, un altro verbo, il verbo “dare”. Al meccanismo perverso del desiderio competitivo, Egli oppone la logica alternativa del dono: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Di solito il cristiano che affronta con radicalità evangelica il tema della pace è compatito, anche Gesù deve esserlo stato. Eppure Gesù ha vinto eliminando il concetto stesso di inimicizia, amando per primo, in perdita, senza aspettarsi il contraccambio. Gesù aveva dei nemici, ma Lui non era nemico di nessuno. Da qui sgorga la pace: vincendo il male con il bene.

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Come mai Gesù Cristo, Gandhi, Martin Luther King sono riusciti a reagire senza “immaginare” il nemico?


Nemico è parola strana. Si definisce solo per opposizione. Non ha una sua consistenza, non indica qualcosa che ha una sua realtà propria, ma si limita a negare la realtà opposta: “in (negazione) – amicus (amico)”. Eppure la si usa costantemente indicando, invece, qualcuno o qualcosa che ha una propria consistenza reale, tanto da immaginare, nei casi più gravi, che esso debba essere distrutto o, in quelli meno gravi, debba essere vinto e contenuto.

Addirittura la propria identità (personale, culturale, religiosa…) si definisce proprio in base all’esistenza di un nemico, rovesciando la logica delle cose. Senza nemici non ci sarebbe consistenza e il proprio valore starebbe proprio nel fatto che esistono dei nemici, che noi reputiamo tali, a prescindere dal fatto che loro ci considerino così.

E, purtroppo, nella fase che stiamo attraversando, sembra che la diffusione di questo rovesciamento della logica delle cose sia in aumento, sia nelle destre che nelle sinistre culturali e politiche. Perché siamo sempre più spinti, culturalmente, socialmente e personalmente, a definire con difficoltà la nostra identità, che oggi sembra essere il problema antropologico centrale, ben più di quello della libertà o del senso della vita. Per questo, oggi, capita spesso di assistere alla definizione dell’identità di persone, gruppi e culture, in cui l’esistenza del nemico sembra dia i contorni entro cui vedere chi si è e dare consistenza e senso al proprio essere. Sembra potersi dire che senza un nemico, la vita non ha senso e non sappiamo chi siamo.

In realtà, le cose sono a rovescio: noi diamo esistenza al nemico, che di per sé non ne avrebbe, nemmeno quando ci aggredisce senza motivo valido. Perché la genesi del “nemico” è dentro di noi, nella nostra ineluttabile tendenza alla difesa dei beni, degli amori, dei territori, delle idee, delle relazioni, della vita. Istinto naturale si dice, e ci sta. Ma spesso, anzi quasi sempre, lo si vive dimenticandosi che esso proviene da noi e non da chi ci aggredisce, con una proiezione sull’altro di ciò che ci spaventa, che oggi assume contorni sociali e culturali, non solo individuali. E che produce una aggressione diffusa e socialmente sdoganata.

Ma può una cultura, una nazione, una popolazione intera, cambiare prospettiva? Trovare modi di reagire diversi, in cui resti centrale che l’esistenza del nemico è produzione della nostra mente e non dei dati di realtà? Come mai Gesù Cristo, Gandhi, Martin Luther King (e sono solo alcuni esempi), sono riusciti a reagire senza “immaginare” il nemico? Che sarebbe successo se l’Ucraina avesse accettato l’invasione russa, senza reagire con le armi? Che sarebbe successo se Israele non avesse risposto militarmente ad Hamas? Sono solo gli ultimi esempi, per ora, più vicini a noi.

Difficile dirlo, anche perché le azioni di aggressione iniziale hanno a loro volta, dietro, una storia e una serie già riconoscibile di eventi aggressivi e di reazioni ad essi, che hanno generato mentalmente il nemico. Ma forse pensarlo ci aiuta a non nasconderci e a riconoscere che un’altra storia è possibile. Ci aiuta a riprendere in mano il senso della realtà pensando che da queste situazioni, se non si smette di immaginare il nemico, ci si esce solo quando uno dei due verrà “vinto”, nel senso che non avrà più risorse umane ed economiche per continuare la battaglia, pagando costi disumani, rispetto a quelli che si sarebbero pagati reagendo diversamente.

Se non riconosciamo all’uomo la fiducia sufficiente per essere in grado smettere di immaginare il nemico, l’unica alternativa resta quella di operare per cercare di limitare i danni. Che sarebbe già molto, visto che i danni potenziali, oggi, possono essere davvero impensabili, per tutti, anche per quelli che si autolegittimano nella difesa. Ma che resta ancora nella logica “obbligante” di chi genera mentalmente il nemico. La differenza di quei personaggi storici sta essenzialmente nella loro capacità di non aver creato un nemico dentro di sé, perciò non hanno avuto bisogno di difendersi da quello esterno, fino anche a non proteggersi di fronte al chi li avrebbe uccisi.

Cristianamente sappiamo che non esiste pace senza pasqua! Non si esce dall’istinto difensivo aggressivo senza “morire” alla nostra paura di essere senza vita, senza beni, senza libertà, senza identità, senza territorio, senza orgoglio. E senza accettare una resurrezione successiva, in cui smettiamo di pensare il male come qualcosa da annientare, o da contenere, ma come un amore da recuperare. Il cristiano non può immaginare nemici e quando lo fa si tira fuori dalla logica dell’amore con Dio ci redime. La Chiesa starebbe proprio lì a testimoniare che anche come comunità si può vivere questa stessa logica in cui non immaginiamo nemici. Ma nei fatti?
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E mentre nel Mediterraneo muoiono in media 8 migranti al giorno, arretriamo sul piano dei diritti

Già, perché continuiamo ad emarginare i migranti? Che cosa ci guadagniamo?

In realtà, gli immigrati, se accolti ed integrati, rappresentano un investimento per il nostro Paese, perché danno più di quello che hanno ricevuto. Basterebbe ascoltare la storia di Darya, fuggita dalla Bielorussia perché l’avevano minacciata di toglierle il bambino e di metterla in carcere in quanto dissidente, che oggi dice: «Io adesso ho finalmente ripreso la mia vita e sento che ogni giorno mi avvicino sempre più a poter realizzare il mio sogno, aiutare gli altri». O quella di Maurice, che è scappato a 16 anni da un Paese, la Nigeria, travolto dal terrorismo, dalla crisi economica e da quella climatica; che ha sofferto in Libia, ha rischiato la morte nel Mediterraneo, è stato schiavizzato nelle nostre campagne 12 ore al giorno per 2 euro l’ora, eppure oggi dice: «Un giorno, lo so, diventerò un avvocato. Lo devo a me stesso e lo devo alla mia gente. Tornerò nel mio Paese e difenderò il mio popolo, affinché nessun altro debba vivere quello che ho vissuto io».

Entrambi, Darya e Maurice, sono intervenuti ieri durante la presentazione, a Roma, del Rapporto 2024 del Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, che racconta che cosa ha fatto nell’ultimo anno il Centro, ma soprattutto fa il punto sulla condizione di migranti oggi, in Italia (si può scaricare qui).

E il quadro è decisamente triste: è cresciuto il numero dei rifugiati e dei richiedenti asilo costretti a vivere per strada; sono aumentate la povertà, la marginalità e le disuguaglianze. Si sono moltiplicate anche le vulnerabilità nascoste, quelle che per esempio nascono dai traumi subìti durante il viaggio, dalle difficoltà che si moltiplicano sembrando sempre più insuperabili.

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Un libro per riflettere sulla fede a partire dall’amore di Dio

Che cos’è la grazia di Dio e a che cosa servono i comandamenti? È su queste domande che si concentra il giovane domenicano Adrian Candiard nel suo ultimo volume appena pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana dal titolo La grazia è un incontro. Se Dio ama gratis perché i comandamenti? (LEV pp 112, euro 13). Si tratta di una riflessione sui capisaldi della fede a partire dalla gratuità dell’amore di Dio che non richiede condizioni e che viene offerto a tutti. “Abbiamo sempre il sospetto che dobbiamo fare qualcosa per meritare questo amore”, afferma l’autore, di passaggio da Roma per una serie di presentazioni del libro in diverse città italiane. Poi spiega: “I comandamenti non sono delle prescrizioni, ma indicano una direzione di vita”.

Una presa di coscienza della grazia di Dio

Un nesso apparentemente paradossale che l’autore affronta prendendo le mosse dal Discorso della montagna, con Gesù che presenta le stringenti esigenze della vita cristiana. “Quando Gesù dice che non dobbiamo uccidere forse ci riusciamo. Tuttavia – spiega – diventa più difficile il rispetto del prossimo”. Pagina dopo pagina, comandamento dopo comandamento, il quadro che si staglia evidenzia tra le altre cose la necessità di una presa di coscienza della grazia di Dio.

“Sembra un tema vecchio – dice Candiard – ma l’importante è che la grazia di Dio sia accettata e vissuta”.  Di certo, non può essere organizzata. Secondo l’autore, non servono regole o altri tentativi di sistematizzarla in modo rigido. “Tuttavia, nella vita del credente ci sono molti modi per avvicinarsi ad essa, a cominciare dalla preghiera”, aggiunge.

Mettersi all’ascolto della Parola

Un percorso che offre ai cristiani delle chiavi per capire come la grazia di Dio agisce in ciascuno, per conoscere il cammino del proprio cuore e per ancorare la propria vita ad un orizzonte di libertà. Leggendo il volume, in più punti vengono in mente le parole di Papa Francesco il quale, citando Benedetto XVI, ripete spesso che la Chiesa non cresce per proselitismo, bensì per attrazione. “Non abbiamo bisogno di essere perfetti per essere amati”, ripete Candiard che ribadisce il messaggio ai lettori: “Mettersi all’ascolto della parola di Gesù e dell’annuncio dell’amore di Dio offerto a tutti noi”.

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