Questa lettera è una durissima denuncia del governo del Brasile e del suo presidente per la situazione nella quale con la loro incapacità, manipolazione e inadeguatezza, hanno ridotto il paese

di: Vescovi brasiliani

 A soffrire maggiormente sono i più poveri, gli indigeni, gli emarginati, che non vedono davanti a sé nessuna speranza di cambiamento. E sono anche i più duramente colpiti dalla pandemia del coronavirus e le vittime più esposte alla crisi economica in cui versa il paese.
La lettera è firmata da 152 vescovi del Brasile, tra cui l’arcivescovo emerito di San Paolo, Dom Claudio Hummes, dall’emerito vescovo di Blumenau, Dom Angélico Sandalo Bernardino, e il vescovo di São Gabriel da Cachoeira (AM), Dom Edson Taschetto Damian, dall’arcivescovo di Belém (PA), Dom Alberto Taveira Corrêa, dal vescovo emerito di Xingu (PA), Dom Erwin Kräutler, dal vescovo ausiliare di Belo Horizonte (MG), Dom Joaquim Giovani Mol, e dall’arcivescovo di Manaus (AM) e dall’ex segretario generale della CNBB, Dom Leonardo Ulrich Steiner.

Siamo vescovi della Chiesa cattolica, di varie regioni del Brasile, in profonda comunione con papa Francesco e il suo magistero e in piena comunione con la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile che, nell’esercizio della sua missione evangelizzatrice, si pone sempre in difesa dei piccoli, della giustizia e della pace.

Scriviamo questa Lettera al Popolo di Dio interpellati dalla gravità del momento che viviamo, sensibili al Vangelo e alla Dottrina sociale della Chiesa, come un servizio a tutti coloro che desiderano vedere superata questa fase di tante incertezze e di tanta sofferenza della gente.

Evangelizzare è la missione propria della Chiesa ereditata da Gesù. Essa è consapevole che «evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio» (Evangelii gaudium, 176). Siamo consapevoli che «la proposta del Vangelo non consiste solo in una relazione personale con Dio».

Neppure la nostra risposta d’amore dovrebbe intendersi come una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso […], una serie di azioni tendenti solo a tranquillizzare la propria coscienza. La proposta è il Regno di Dio […] (Lc 4,43 e Mt 6,33)» (EG,180). Deriva da qui la comprensione che il Regno di Dio è un dono, un impegno e un obiettivo.

È in questo orizzonte che guardiamo all’attuale realtà del Brasile. Non abbiamo interessi politico-partitari, economici, ideologici o di qualsiasi altra natura. Il nostro unico interesse è il Regno di Dio, presente nella nostra storia, nella misura in cui avanziamo nella costruzione di una società strutturalmente giusta, fraterna e solidale, come una civiltà dell’amore.

lettera vescovi

Una pericolosa impasse

Il Brasile attraversa uno dei periodi più difficili della sua storia, paragonabile a una “tempesta perfetta” che, dolorosamente, deve essere attraversata. La causa di questa tempesta è la combinazione tra una crisi sanitaria senza precedenti, un crollo sconvolgente dell’economia e la tensione che si abbatte sui fondamenti della Repubblica, dovuta in gran parte al presidente della Repubblica e ad altri settori della società, che si traduce in una profonda crisi politica e di governance.

Questo scenario di pericolose impasses che mettono alla prova il nostro paese richiede alle sue istituzioni, ai leader e alle organizzazioni civili molto più dialogo che non discorsi ideologici chiusi. Siamo chiamati a presentare proposte e patti oggettivi, al fine di superare le grandi sfide, a favore della vita, in particolare dei segmenti più vulnerabili ed esclusi, in questa società strutturalmente disuguale, ingiusta e violenta. Questa realtà non tollera indifferenza.

È dovere di coloro che si pongono a difesa della vita prendere posizione, chiaramente, in questo scenario. Le scelte politiche che ci hanno portato fin qui e la narrativa compiacente di fronte ai soprusi del governo federale, non giustificano l’inerzia e l’omissione nella lotta contro le piaghe che hanno colpito il popolo brasiliano.

Piaghe che si abbattono anche sulla Casa Comune, costantemente minacciata dall’azione senza scrupoli di deforestatori, cercatori d’oro, minatori, latifondisti e altri propugnatori di uno sviluppo che disprezza i diritti umani e quelli della madre terra. «Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato. Le ferite provocate alla nostra madre terra sanguinano anche a noi» (Papa Francesco, Lettera al Presidente della Colombia in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, 06/05/2020).

Tutti, persone e istituzioni, saremo giudicati per le azioni od omissioni in questo momento molto serio e ricco di provocazioni. Assistiamo sistematicamente a discorsi anti-scientifici, che cercano di naturalizzare o normalizzare il flagello dei morti di Covid-19, considerandolo come il risultato del caso o del castigo divino, al caos socioeconomico che si prospetta, con la disoccupazione e la carestia che si proiettano sui prossimi mesi e a gruppi politici che mirano a mantenere il potere ad ogni costo.

Questo discorso non si basa sui principi etici e morali, né tollera di essere confrontato con la Tradizione e la Dottrina sociale della Chiesa, nella sequela di Colui che è venuto «affinché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

Un governo incapace

Analizzando lo scenario politico, in maniera spassionata, vediamo chiaramente l’incapacità e l’inabilità del governo federale di affrontare queste crisi. Le riforme del lavoro e della previdenza sociale, prese per migliorare la vita dei più poveri, si sono rivelate delle insidie che hanno reso ancora più precaria la vita della gente.

lettera vescovi

È vero che il Brasile ha bisogno di misure e di riforme serie, ma non come quelle che sono state fatte, i cui risultati hanno peggiorato la vita dei poveri, degli indifesi vulnerabili, hanno liberalizzato l’uso dei pesticidi precedentemente vietato, allentato il controllo della deforestazione e, pertanto, non hanno favorito il bene comune e la pace sociale. È insostenibile un’economia che insiste sul neoliberismo, che favorisce il monopolio di piccoli gruppi potenti a spese della stragrande maggioranza della popolazione.

L’attuale sistema governativo non pone al centro la persona umana e il bene di tutti, ma la difesa intransigente degli interessi di un’«economia che uccide» (EG 53), centrata sul mercato e sul lucro a qualsiasi costo. In questo modo, conviviamo con l’incapacità e l’incompetenza del governo federale nel coordinare le sue azioni, aggravate dal fatto che si oppone alla scienza, agli stati e ai comuni, ai poteri della Repubblica; per avvicinarsi al totalitarismo e usare espedienti riprovevoli, come il sostegno e l’incoraggiamento di atti contro la democrazia, la flessibilità delle leggi sulla circolazione e l’uso delle armi da fuoco da parte della popolazione, e delle leggi del codice della strada e il ricorso alla pratica di azioni di comunicazione sospette come notizie false, che mobilitano una massa di seguaci radicali.

Anche il disprezzo per l’istruzione, la cultura, la salute e la diplomazia ci spaventa. Questo disprezzo è visibile nelle manifestazioni di rabbia per l’educazione pubblica; nell’appello a idee oscurantiste; nella scelta dell’educazione come nemica; nei successivi e grossolani errori nella scelta dei ministri dell’educazione e dell’ambiente e del segretario alla cultura; nell’ignoranza e nel disprezzo dei processi pedagogici e di importanti pensatori del Brasile; con l’avversione verso la coscienza critica e la libertà di pensiero e di stampa; nella squalifica delle relazioni diplomatiche con diversi paesi; nell’indifferenza per il fatto che il Brasile occupa uno dei primi posti nel numero di contagiati e morti per la pandemia, senza nemmeno avere un ministro titolare del Ministero della Salute; nella inutile tensione con gli altri enti della Repubblica nel coordinare la lotta alla pandemia; nella mancanza di sensibilità verso i familiari delle persone uccise dal nuovo coronavirus e per gli operatori sanitari, che si ammalano negli sforzi di salvare delle vite.

Sul fronte economico, il ministro dell’economia disprezza i piccoli imprenditori, responsabili della maggior parte dei posti di lavoro nel paese, privilegiando solo grandi gruppi economici, concentratori di reddito e i gruppi finanziari che non producono nulla. La recessione che ci minaccia può provocare un numero di disoccupati superiore ai 20 milioni di brasiliani.

C’è una brutale discontinuità nella destinazione delle risorse per le politiche pubbliche nel campo dell’alimentazione, dell’istruzione, delle abitazioni, della produzione di reddito.

Chiudendo gli occhi sugli appelli di organismi nazionali e internazionali, il governo federale dimostra omissione, apatia e rifiuto dei più poveri e vulnerabili della società, chiunque siano: le comunità indigene, quilombole, rivierasche, le popolazioni delle periferie urbane, delle case popolari e le persone che vivono a migliaia per strada in tutto il Brasile.

Questi sono i più duramente colpiti dalla nuova pandemia di coronavirus e, purtroppo, non intravedono alcuna misura efficace che li induca a sperare di superare le crisi sanitarie ed economiche loro crudelmente imposte.

Il Presidente della Repubblica, pochi giorni fa, nel Piano di emergenza per far fronte al Covid-19, approvato nella legislatura federale, con la scusa che non vi erano previsioni di bilancio, tra gli altri punti ha vietato l’accesso all’acqua potabile, il materiale igienico, l’offerta di letti ospedalieri e di terapia intensiva, ventilatori e macchine per l’ossigenazione del sangue, nei territori indigeni, quilomboli e comunità tradizionali (cf. Presidenza CNBB, Lettera aperta al Congresso Nazionale, 13/07/2020).

Manipolata anche la religione

Perfino la religione è usata per manipolare sentimenti e credenze, provocare divisioni, diffondere l’odio, creare tensioni tra le Chiese e i loro leader. Va sottolineato quanto sia dannosa qualsiasi associazione tra religione e potere nello stato laico, in particolare l’associazione tra gruppi religiosi fondamentalisti e il mantenimento del potere autoritario. Come non essere indignati per l’uso del nome di Dio e della sua santa Parola, mescolati con discorsi e atteggiamenti pregiudiziali, che incitano all’odio, anziché predicare l’amore, per legittimare pratiche incompatibili con il Regno di Dio e la sua giustizia?

politica religione

Il momento è quello dell’unità nel rispetto della pluralità! Per questo motivo, proponiamo un ampio dialogo nazionale che coinvolga umanisti, persone impegnate nella democrazia, movimenti sociali, uomini e donne di buona volontà, in modo da ripristinare il rispetto della Costituzione federale e lo Stato democratico di diritto, con l’etica in politica, la trasparenza delle informazioni e delle spese pubbliche, un’economia che mira al bene comune, con la giustizia socio-ambientale, con «terra, tetto e lavoro», con la gioia e protezione della famiglia, con un’istruzione e una salute integrali e di qualità per tutti.

Siamo impegnati nel recente Patto per la vita e per il Brasile, da parte della CNBB e di organismi della società civile brasiliana, e in sintonia con papa Francesco, che invita l’umanità a pensare un nuovo Patto Educativo Globale e la nuova Economia di Francesco e Chiara, oltre a unirci ai movimenti ecclesiali e popolari che cercano alternative nuove e urgenti per il Brasile.

In questo tempo di pandemia che ci costringe al distanziamento sociale e ci insegna una “nuova normalità”, stiamo riscoprendo le nostre case e famiglie come nostra Chiesa domestica, uno spazio di incontro con Dio e con i fratelli e le sorelle. È soprattutto in questo ambiente che deve brillare la luce del Vangelo, che ci fa capire che questo non è il tempo per l’indifferenza, gli egoismi, le divisioni o per la dimenticanza (cf. Papa Francesco, Messaggio Urbi et Orbi, 04/12/20) .

Svegliamoci perciò dal sonno che ci immobilizza e ci rende semplici spettatori della realtà di migliaia di morti e della violenza che ci affligge. Con l’apostolo san Paolo, avvertiamo che «la notte è avanzata e il giorno è vicino; perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rm 13,12).

«Il Signore ti benedica e ti custodisca. Faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda la pace!» (Nm 6,24-26).

settimananews

Laici francesi: trasformare la Chiesa

di: Lorenzo Prezzi

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Come Trasformare la Chiesa cattolica? Come ripartire dopo la devastazione degli abusi uscendo dal clericalismo e da una predicazione sessuofobica per una pratica sinodale ed ecclesiale nella vita dei credenti? Undici laici cattolici di Francia hanno proposto alcune indicazioni in proposito.

Sollecitati da Michel Camdessus, ex direttore generale del Fondo monetario internazionale ed ex membro del Consiglio pontificio Giustizia e pace, una decina di figure di alta professionalità (fra queste Yves Berthelot ex sottosegretario dell’ONU, Xavier Larere ex direttore generale di Antenne 2, l’ammiraglia della televisione pubblica, Pierre Achard, ispettore generale delle finanze) sviluppano le loro proposte in una trentina di pagine (a cui vanno aggiunti tre saggi storico-teologici di p. Hervé Legrand).

Con franchezza e libertà gli autori si sintonizzano sulla volontà di riforma di papa Francesco e alimentano una corrente di riflessione che in Francia conosce voci importanti anche recenti. Come quella di G. Lafont, Immaginare la Chiesa cattolica, di J. Moingt, Faire bouger l’église catholique, M. Bellet, La quarta ipotesi. Sul futuro del cristianesimo, A. Borras, Communion ecclésiale et synodalité, H. Legrand, Vatican II, un avenir oublié.

Nella Chiesa francese elementi strutturali come il rinnovo nei prossimi due anni di una ventina di sedi episcopali (su circa 80) e la riduzione dei seminaristi (quest’anno chiudono i seminari di Lille e di Bordeaux) si mescolano a dibattiti pubblici vivaci come quelli sugli abusi (dalla sentenza assolutoria verso il card. P. Barbarin all’attesa per le conclusioni della commissione Sauvé sugli abusi che chiuderà i suoi lavori fra un paio di mesi) o le studiate provocazioni di alcune donne credenti (A. Soupa si è candidata alla sede episcopale di Lione e sette credenti si sono proposte per l’ordinazione diaconale).

Stati generali ossia un sinodo

«Quale Chiesa vorremmo vedere uscire dopo la “grande prova” che stiamo attraversando assieme? Una Chiesa dove né la disattenzione dell’istituzione né il silenzio dei laici favoriranno più le derive che hanno ferito profondamente degli innocenti; una Chiesa che si libera dal clericalismo che la debilita; una Chiesa che cammina in forma sinodale dove chierici e laici dialogano e assumono assieme le responsabilità per vivere il Vangelo e testimoniare la Parola di Dio.

Una Chiesa che fonda la ricostruzione sulla priorità assoluta del Vangelo e sulla santità cercata da tutti i suoi membri, al di là della distinzione fra chierici e laici. Una Chiesa, infine, dove tutti i credenti, uomini e donne, celibi e sposati, potranno assumere molte responsabilità oggi riservate ai preti. Così trasformata essa si proporrà come un popolo di battezzati, in piena coerenza con gli orientamenti del concilio Vaticano II. Una Chiesa non prigioniera della ripetizione di norme etiche e di un discorso dottrinale talora astratto, e in grado di sollecitare l’ospitalità di un mondo che essa ama e di cui partecipa le sofferenze, le speranze e le gioie.

In una parola, «una Chiesa nutrita di Vangelo e di eucaristia, al servizio del mondo» (p. 30). Un’attesa consapevole di una situazione inedita, di un futuro non facile e delle forti resistenze. Per questo «proponiamo una riunione di vescovi e fedeli, una sorta di “stati generali” per il tempo necessario a preparare l’avvenire della Chiesa con le innovazioni e le riforme ancorate alla sua grande tradizione e periodicamente riviste» (p. 30).

sinodalità

Impariamo dagli abusi

La proposta conclusiva viene preparata in tre capitoli: uscire dal clericalismo; verso una visione realistica della vita affettiva e della sessualità; per una Chiesa sinodale.

Il clericalismo è il contesto di coltura degli abusi perché in esso si alimentano un potere e un’autorità privi di controllo e coperti da un compiacente segreto per non intaccare il prestigio dell’istituzione. Tanto più forte quanto condiviso dalle famiglie delle vittime, condizionate da una concezione sbagliata di obbedienza. È onesto ammettere: «i laici non possono addebitare ai preti per intero la colpa della crisi provocata dagli abusi. Hanno la loro parte di responsabilità in questo disastro» (p. 10).

Per affrontare le nuove sfide è necessario un nuovo linguaggio. In particolare sulle questioni sessuali e bioetiche. Per comunicare gli aspetti positivi dell’antropologia cristiana bisogna, da un lato, prendere distanza dall’enfasi sulla morale personale e dalla reiterata critica al moderno (materialismo, relativismo, secolarismo ecc.) e, dall’altro, intercettare la confusa ma reale richiesta di senso e di vita spirituale, nella consapevolezza, bene espressa dall’enciclica Laudato si’ della difesa dell’umano comune.

È necessario uscire dalla differenza ontologica e di potere fra il sacerdozio condiviso dal popolo di Dio e quello ordinato per il servizio del culto. I candidati al sacerdozio hanno bisogno di una formazione capace di dialogare col mondo. E le condizioni di accesso al ministero non possono rimanere restrittive come le attuali. La Chiesa «dovrebbe prepararsi all’ordinazione di uomini sposati che abbiano dato prova di maturità cristiana» (p. 12). Un percorso peraltro già sperimentato con la scelta dei diaconi permanenti.

«Un clero uxorato sarebbe un correttivo importante per le attitudini cattoliche in materia di sessualità e la vita coniugale non apparirebbe più come una scelta di vita inferiore» (p. 13). I preti sposati nella Chiesa cattolica sono già numerosi (dai riti orientali ai nuovi ingressi dall’anglicanesimo). E tutto questo senza rimettere in questione l’impegno al celibato o alla vita consacrata per quanti vi sono chiamati. «È importante non bloccare la questione dell’accesso delle donne ai ministeri ordinati… È legittimo temere che un rifiuto definitivo diventi un handicap per la trasmissione del messaggio ecclesiale nelle società contemporanee. Confermando i pregiudizi relativi al patriarcato e alla misogenia nella Chiesa cattolica, nonostante il rilievo che riveste la figura di Maria» (p. 16).

Prima il Vangelo, poi la morale

«La morale sessuale proposta ancor oggi dal magistero cattolico si caratterizza in effetti per il grande rigore e rigidità. Non ammette la sessualità che nel caso di sposi legittimamente e indissolubilmente uniti» (p. 18). Esprime un sostanziale sospetto come mostra l’impossibilità dei divorziati-risposati di accedere all’eucaristia, l’impossibile accesso al ministero per uomini sposati, la promessa richiesta ai diaconi di non risposarsi nel caso di vedovanza.

Di fatto si riduce la sessualità alla sua funzione riproduttiva. Un impianto felicemente rimesso in discussione dell’enciclica Amoris laetitia e dalla pratica pastorale più avvertita, anche nei confronti dell’omosessualità. I giovani conviventi avrebbero bisogno di itinerari spirituali e di una «benedizione pre-nunziale».

Processi sinodali

Lo sforzo compiuto dal Vaticano II di dare più spazio all’esercizio della collegialità e dell’ecclesiologia di comunione si è scontrato con una recezione che spingeva in senso contrario. Le riforme in corso, in particolare riguardanti la curia romana, valorizzano di più il sinodo dei vescovi e le conferenze episcopali.

Ma la sinodalità è proposta all’insieme della Chiesa e alle singole Chiese locali. «In questo tempo, davanti al pericolo di un clericalismo istituzionalizzato, la sinodalità nel suo significato di piena associazione dei cristiani alla gestione delle comunità, si presenta come una risorsa per migliorare la situazione» (p. 24).

sinodalità

La Chiesa intesa come popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito è tale solo dentro l’esercizio sinodale. Troppi elementi remano contro. Un ruolo come quello dei vescovi, nominati dal papa, non condizionabili dai fedeli e autonomi rispetto ai vescovi vicini e alla conferenza episcopale ne è un esempio.

È bene non essere ingenui e credere che tutto è bene nella sinodalità e tutto è male nella funzione gerarchica. È certo, invece, che la sinodalità non vada confusa con la democrazia, anche se con essa ha qualcosa in comune. «Considerare che la Chiesa debba funzionare in tutti gli ambirti come una democrazia non avrebbe senso, perché le assemblee cristiane guardano a una verità che non è in alcuna maniera soggetto al consenso» (p. 27). Il compito più immediato sembra essere quello di aggiornare il diritto canonico alla teologia di comunione. È importante quello che sta succedendo in Germania con l’avvio del processo sinodale.

È auspicabile anche per la Francia «un’assemblea rappresentativa di vescovi e laici per identificare gli sforzi intellettuali, spirituali e organizzativi che il futuro richiede. Niente lo impedisce e tutto lo raccomanda». (p. 27). «Il popolo di Dio, nella sua diversità, percepisce vivamente il bisogno di indicare le riforme più urgenti, di parlarne insieme per poter superare difficoltà d’ordine pratico, ma anche insufficienze dottrinali ereditate da storiche controversie. Senza questo cammino che favorisca l’espressione di quello che portano nel cuore, la frustrazione dei cattolici non farà che crescere» (p. 29).

Un testo militante che non rinuncia a dialogare con le tendenze più conservatrici pur essendone distante e che condivide cordialmente l’indirizzo delle riforme e dei modi suggeriti da papa Francesco.

Settimananews

Crisi ecclesiale e abusi sessuali

di: Ewa Kusz

abusi polonia

Pubblichiamo questo saggio, sintesi di uno studio più ampio che l’autrice, vicepresidente del Centro per la protezione dei minori presso l’Accademia ignaziana di Cracovia (Polonia), ha scritto sul tema degli abusi nella Chiesa. La riconduzione del problema alla fede e all’identità della Chiesa è stimolante e rappresenta una voce originale nella Chiesa polacca che affronta in questi mesi l’acutizzarsi delle denunce.

Tra le molte domande che il tema degli abusi sessuali sui minori provoca, due sono particolarmente urgenti. Come è stato possibile (come è possibile) che i chierici che avrebbero dovuto indirizzare i giovani loro affidati a Dio abbiano «profanato il volto di Dio alla cui immagine siamo stati creati»[1] commettendo violenze sessuali? Come è stato possibile (come è possibile) che da parte dei superiori sia mancata una risposta adeguata?

Le domande non esauriscono l’esame di coscienza della Chiesa. Dobbiamo infatti mettere in questione anche noi stessi. Dove eravamo (dove siamo) quando i bambini venivano feriti? Ma vi è una domanda più importante: in che stato sei, Chiesa, se non reagisci, se nascondi o sminuisci il fatto che i bambini a te affidati siano stati feriti da chi doveva proteggerli?

La crisi nata dai casi di abuso sessuale non è un problema che riguarda solo i preti. Se vogliamo trattarlo adeguatamente dobbiamo adottare un atteggiamento olistico, più generale, già auspicato da anni, a partire dalle prime analisi dello scandalo nella Chiesa degli Stati Uniti.[2] I pontefici sono intervenuti più volte, da Giovanni Paolo II a Benedetto, a Francesco.[3] Come molti altri tentativi di porre rimedio alla situazione sollevano diversi aspetti della crisi e cercano di affrontare le cause nel loro complesso.

La posizione di Benedetto XVI

Uno degli interventi più importanti che tentano una risposta alla domanda centrale che abbiamo formulato e, a mio avviso, il saggio del papa emerito, peraltro molto criticato, dal titolo «La Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali» pubblicato nell’aprile 2019 del mensile tedesco Klerusblatt.

Il papa emerito, rispondendo alla domanda su «come ha potuto la pedofilia raggiungere una tale dimensione» nella società, risponde sinteticamente: «in ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio». Ecco come argomenta. «Una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo criterio. […] Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché viene meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. […]

E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano. In alcuni punti, allora, a volte diviene improvvisamente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel che è male e che distrugge l’uomo. È il caso della pedofilia. Teorizzata ancora non troppo tempo fa come del tutto giusta, essa si è diffusa sempre più. E ora, scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si commettono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi anche nella Chiesa e tra i sacerdoti deve scuoterci e scandalizzarci in misura particolare».

Anche la Chiesa perde il proprio criterio di riferimento ed è comunemente percepita, secondo il papa emerito, come «apparato politico». E questo «vale persino per dei vescovi che formulano la loro identità sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici». La crisi provocata dagli abusi fa sì che la Chiesa sia vista come qualcosa non da rinnovare, ma da rifondare. «Ma – conclude Benedetto XVI – una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza». Che cosa vuol dire più in profondità il papa emerito denunciando la causa principale degli abusi per una Chiesa che «ha perso il suo criterio ed è diventata un apparato politico»?

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Apparato politico o comunità di fede

Nel suo saggio Benedetto XVI definisce la fede un «bene prezioso» di cui dobbiamo prenderci cura. Paradossalmente si può dire che la premura per la fede non sia ancora percepita come il compito fondamentale per rispondere al problema degli abusi. E questo vale per tutte le regioni del mondo, indipendentemente dalla fase di gestione della crisi in un determinato paese.

La cura della fede in quanto «bene prezioso» non è percepita come compito prioritario né da parte dei responsabili ecclesiali, né da chi sostiene le vittime. In definitiva, non è percepita come tale da alcuno. E questo, a mio avviso, è dovuto alla dinamica dei processi di comprensione e di confronto con il tema degli abusi sessuali, sia nella società[4] che nella Chiesa.

Nella prima fase di confronto con il problema, quando le cose iniziano a venire alla luce, sia per noi che per i superiori nella Chiesa, l’obiettivo primario è mantenere lo status quo. Una fase in cui non si registra la premura per la persona come tale: per la vittima, per i suoi familiari, per la comunità ecclesiale incapace di gestire quanto sta succedendo. Assente anche l’attenzione per l’attore dell’abuso, per l’aggressore. E, più radicalmente, viene ignorata la cura della fede come «bene prezioso».

Quando l’abuso viene commesso in famiglia si tende a mantenere la stabilità della stessa. Non si pensa al bene del bambino ferito. Si fa di tutto perché nessuno venga a sapere, per non rovinare il micro-sistema familiare. Questo succede perché l’attore del crimine svolge spesso una funzione importante. Uno scontro aperto risulta difficile per tutti i membri.

Analogamente succede quando i familiari di un bambino vengono a sapere di un abuso commesso da qualcuno considerato come autorità, come ad esempio un sacerdote. A prescindere se il crimine è recente o commesso in un lontano passato. L’obiettivo rimane quello di mantenere stabile la famiglia. Denunciare l’atto scuoterebbe il micro-sistema. I vicini, ad esempio, verrebbero a sapere che nella nostra famiglia è avvenuto qualcosa di grave.

Oppure si teme di ferire l’aggressore che è sempre stato considerato una persona in gamba. Succede così che il predatore seducendo il bambino condiziona l’intera famiglia, essendo entrato in intimità con essa, divenendo un amico di casa, un benefattore. Risulta più facile credere a lui che al proprio figlio. E anche l’intero processo seduttivo con il quale prepara la vittima diventa difficile da percepire.

In famiglia e nella comunità

Quando l’abusante è un sacerdote, gli altri preti sono propensi a difenderlo. Sanno di avere anche loro dei peccati e delle colpe che preferiscono tenere nascoste. Istintivamente scelgono di tacere quello che sanno del proprio collega. E si giustificano argomentando di non volergli fare del male. Non reagiscono a comportamenti scorretti. Invece di cogliere il segnale di pericolo di alcuni comportamenti ambigui, si limitano a concludere che quel confratello «è semplicemente fatto così»: tenerone, spontaneo, estroverso, originale. Qualche volta eccede.

I superiori ecclesiastici hanno protetto (e proteggono) innanzitutto il buon nome dell’istituzione, della diocesi o dell’ordine religioso. Non vogliono nascondere il male, «proteggono solo il sacerdozio». Così non sono le violenze ad essere uno scandalo, ma il fatto di renderle note, perché così si danneggia l’immagine dell’istituzione e del clero. Viene meno la centralità della persona e della sua dignità, sia essa vittima, familiari, comunità e lo stesso aggressore. Quello che conta è l’istituzione, quell’«apparato politico» che non deve perdere la propria influenza e godere della rispettabilità.

Così la Chiesa non rappresenta più una comunità di peccatori redenti con il sangue dell’Agnello, ma un’istituzione che cerca ad ogni costo di mantenere un’immagine positiva. In questa prima fase, tutti tendiamo a sminuire il problema ed è convinzione diffusa che «ci perdiamo tutti» a confessare di aver sbagliato o di non aver reagito. Ignoriamo di operare non secondo la scala dei valori evangelici, ma dal punto di vista della sopravvivenza nel mondo delle istituzioni che contano.

Una seconda fase di confronto con il problema degli abusi si avvia dopo il riconoscimento, da parte nostra e dei responsabili ecclesiastici, che il problema c’è. Ma ci aspettiamo che siano gli altri a risolverlo. Così i fedeli aspettano che i superiori facciano qualcosa. Protestano, inviano lettere, diffondono notizie cercando spiegazioni in cause esterne. Diventa sempre più diffusa l’immagine negativa del prete, mentre i superiori vengono indicati come irresponsabili.

I media alimentano nel mainstream numerosi articoli dedicati al tema. Denunciano, in modo più o meno attendibile, nuovi casi, nascondendo sotto una buona dose di moralismo la propria impotenza e ignoranza nell’affrontare il fenomeno in tutta la sua vastità sociale. Non sorprende che in tale situazione il richiamo più facile sia l’invocazione ad abolire il celibato sacerdotale come rimedio credibile per la prevenzione. I media cattolici trattano sempre più frequentemente il tema. In linea di principio non denunciano casi specifici di abuso, limitandosi a fare riferimento agli interventi del papa o raccontando i problemi delle Chiese locali di altri paesi. Preferiscono sottolineare i fatti che dimostrano l’attività positiva della Chiesa per tutelare i bambini e i giovani.

I sacerdoti si sentono ingiustamente aggrediti. Non capiscono perché si sospetti di loro. Argomentano, non senza qualche ragione, che in altri ambienti ci sono casi più numerosi di abuso sessuale verso bambini e giovani. Alcuni alimentano i sospetti verso gli omosessuali. Si rinchiudono nel proprio mondo, restringendo il lavoro pastorale con i bambini per paura di essere giudicati. I superiori ecclesiastici avviano misure di censura-contenimento, prevalentemente di natura giuridica. Programmano aiuti e assistenza alle vittime. Gli abusanti sono espulsi dallo stato clericale o comunque puniti.

abusi polonia

Fare proprio il problema

Sono pochi quelli che «fanno proprio» il problema. Come laici, preti e superiori affrontiamo il dramma additando gli altri come responsabili di cercare una soluzione, di fare qualcosa. E ci si accontenta di quello che i vari gruppi intraprendono come esaustivi di quello che si può e si deve fare. Se il sistema non funziona, è colpa e responsabilità degli altri. Fedeli, preti e vescovi applicano strumenti per una soluzione umana, sociologica. Sono certamente buoni e utili.

Ma emerge la domanda se siano all’altezza della cura della fede come «bene prezioso», se davvero siano soluzioni in grado di «creare spazi di vita per la fede». La crisi mondiale degli abusi nella Chiesa lo smentisce. Nel 2018 negli Stati Uniti la Chiesa ha sperimentato un’altra fase acuta di crisi dopo il rapporto della Corte suprema di Pennsylvania e le denunce relative ai crimini del card. McCarrick che era stato il volto e il garante del cambiamento nel 2002. Sotto le pressioni delle rivelazioni la Chiesa aveva allora avviato procedure modello. Erano stati previsti aiuti alle vittime, un sistema di controllo degli aggressori, introdotti meccanismi per la trasparenza e la prevenzione.

Gli esperti avevano confermato che, grazie alle misure adottate, la Chiesa cattolica era diventata una delle istituzioni più sicure per i bambini e i giovani degli Stati Uniti. Il rapporto della Corte suprema della Pennsylvania e il caso McCarrick hanno mostrato l’insufficienza degli sforzi intrapresi. Si è capito che non era stato adeguatamente affrontato un fattore che Giovanni Paolo II segnalava nell’aprile del 2002 come elemento rilevante della crisi, ovvero il fatto che nelle comunità ecclesiali molte persone si sentivano ferite dal modo in cui i vescovi e i superiori avevano reagito ai reati di abuso.

Costruire sistemi efficaci di assistenza e di prevenzione è indispensabile, ma è solo un lato della medaglia. Forse sufficienti per una Chiesa come «apparato politico», ma largamente inadeguati per una Chiesa vissuta come «comunità vivente della fede». La Chiesa intesa e vissuta come istituzione e non come una comunità viva della fede è all’origine di altri problemi.

Si riuscirà a fermare l’erosione del mondo cristiano?

Papa Francesco nel discorso alla curia del 21 dicembre 2019 ricorda che «la storia del popolo di Dio… è segnata sempre da partenze, spostamenti, cambiamenti». Questo ha importanti implicazioni per la comprensione del nostro essere e agire nel mondo per via della fede in Dio che si rivela nel tempo ed entra nella storia con l’incarnazione. Il papa non chiede cambiamenti per il gusto di cambiare. È consapevole dei rischi di seguire le mode e lo spirito del tempo.

Per lui quello che conta è la prospettiva della fede il cui nucleo, decisivo anche per i cambiamenti da intraprendere, è la fedeltà di Dio, la costanza del suo amore. Da credenti ci misuriamo con il fatto che: «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata».

L’analisi di papa Francesco dovrebbe spingere a riflettere anche noi credenti che viviamo nell’Europa centro-orientale. Impegnano sempre maggiori energie per influire sui politici e sull’opinione pubblica, per garantire una tutela giuridica dei valori cristiani, compresi i diritti e i privilegi particolari di varie istituzioni ecclesiastiche. Questo modo di «investire» nella Chiesa ha delle ricadute sull’insieme della sua vita sotto il supremo interesse dell’istituzione.

È facile che la vita personale secondo la misura evangelica passi in secondo piano, pur di non compromettere l’immagine pubblica. La storia della crisi insegna che la Chiesa, quando opera da «apparato politico», come espresso dal papa emerito, quando si limita ad applicare mezzi e regole di natura tecnica necessari per creare ambienti sicuri non potrà riavere la credibilità. Solo se si converte e si sottomette alla potenza del Vangelo le persone possono essere attirate dallo splendore della sua bellezza e verità, e non grazie a successi confrontabili con quelli delle altre istituzioni.

Ignorare

La conoscenza che abbiamo degli abusi sessuali sui minori risale a un passato relativamente recente. Fino ad oggi in molte popolazioni dell’Europa centro-orientale non si è ancora avviato un processo di consapevolezza diffusa del problema degli abusi. Per valutare quello che la Chiesa intraprende a tutela dei bambini e dei giovani dobbiamo riferirci alla consapevolezza sociale e istituzionale di questa parte del continente europeo.

abusi polonia

Tuttavia, anche se il tema degli abusi comincia ad essere trattato più ampiamente solo a partire da questo secolo, nel 2020 sarebbe legittimo attenderci di vedere una sensibilità sociale più matura, anche dentro la Chiesa. Invece è ancora ben diffusa la convinzione che se ne parli e se ne scriva già troppo, ampliando l’impressione del problema. La non conoscenza fa sì che è messa in dubbio la veridicità delle persone che denunciano l’abuso sessuale dopo molti anni.

La loro credibilità è contestata per via delle emozioni o di alcune incoerenze che si possono rintracciare nelle loro testimonianze. Le conseguenze sono sottostimate o considerate come esagerazioni. Anche nei confronti degli abusatori scatta la manipolazione e si concede credito alla loro strategia di scaricare la responsabilità sulle vittime. Un’ignoranza che sminuisce gli effetti delle ferite inferte ai bambini e ai giovani riguarda tutti: i politici, i responsabili ecclesiastici e tutti noi.

Panico morale

Il confronto con la crisi degli abusi sessuali nella Chiesa favorisce decisioni che nascono da un meccanismo chiamato «panico morale» dal sociologo italiano Massimo Introvigne.[5] I media si concentrano sul tema degli abusi sessuali nella Chiesa, mentre i vescovi omettono di dimostrare una preoccupazione sufficiente per la materia. Tutto ciò porta, da un lato, a scaricare la responsabilità su altri ambienti e, dall’altro, a tentare veloci soluzioni semplicistiche tipiche degli esperti delle pubbliche relazioni. Viene preferito un «effetto placebo» a breve, nocivo per le vittime e dimentico della necessità di trattamento degli abusatori.

Non si esamina il fenomeno con un’analisi basata su ricerche che tengano conto di fattori strutturali che favoriscono quel tipo di delitti e che sono presenti all’interno dell’istituzione nel modo di gestire, motivare e promuovere il personale, reagendo alle irregolarità riscontrate. Di conseguenza, vengono intraprese misure suggerite dagli esperti di pubbliche relazioni il cui obiettivo principale è quello di dare soddisfazione all’opinione pubblica. È facile comprendere che, in questo modo, non solo la vera soluzione dei problemi è ulteriormente rimandata, ma si dà prova anche che la Chiesa opera effettivamente come «apparato politico» e non come una comunità vivente di fede.

Il «panico morale» motiva anche l’assenza di un lavoro con gli autori degli abusi. Abbiamo paura di lavorare con loro per evitare di essere sospettati di volerli giustificare. Enfatizziamo l’importanza dell’espulsione dallo stato clericale e la riduzione a quello laicale come se questo fosse in qualche maniera «peggiore». Dimentichiamo che anche loro sono nella Chiesa e anche per la loro salvezza Cristo è morto in croce. Temendo l’accusa di complicità, ci scordiamo che la prevenzione sta anche nella riabilitazione sociale che richiede un lavoro con l’abusatore perché non faccia più male a nessuno.

È necessario anzitutto un discernimento comune per cogliere i cambiamenti indispensabili dal punto di vista della fede. Un discernimento che permetta anche l’utilizzo delle conoscenze psicologiche e sociologiche per ottenere risultati che abbiano un carattere evangelico.

La paura dei risarcimenti

Il tema dei risarcimenti mobilita sia chi ricorre al tribunale come accusa, sia chi lo fa come difesa. Gli uni e gli altri dimenticano che le persone ferite hanno bisogno di un aiuto reale. La paura degli alti risarcimenti da pagare fa sì che guardiamo alle vittime come a clienti molesti da sistemare giuridicamente perché non tornino a chiederci altro. Invece di rappresentare per loro la Chiesa-madre che si preoccupa di ogni figlio, i superiori e chi li rappresenta si rivelano funzionari dell’istituzione ecclesiastica che si accontentano di espletare in modo corretto e in linea con le normative i propri doveri.

Così tratta i clienti molesti l’«apparato politico», la Chiesa-istituzione, non la Chiesa-madre. L’ignoranza, il «panico morale» e la paura dei risarcimenti ci fanno dimenticare che Dio ha sempre cura dei suoi figli e figlie ferite. Dio chiama anche gli autori degli abusi perché possano essere aiutati a convertirsi. Egli rivendica il proprio posto nella sua Chiesa.

Di qui la domanda drammatica: Signore Dio, c’è ancora posto per te nella tua Chiesa? Sono convinta che la Chiesa intesa come «istituzione politica» che ha i propri privilegi, il patrimonio, un apparato di funzionari non ce la farà a superare la crisi scaturita dai reati commessi da chierici abusatori. È percepibile dal fatto che tale Chiesa è sempre meno capace di servire il mondo nelle varie crisi che lo travolgono. La causa di tale incapacità sta nell’offuscamento della luce del Vangelo perché il «male ha penetrato il mondo interiore della fede».[6]

La dinamica della crisi che dura ormai da decenni è una dimostrazione dell’impotenza del sistema. Intuisco che sia il Signore stesso a rivendicare oggi il proprio posto nella Chiesa permettendo che sperimenti il dolore di una crisi purificante. Dio difende «i più piccoli»: i bambini, i giovani, i vulnerabili, a prescindere da dove e da chi sono feriti. Per questo purifica la sua Chiesa, la sua Sposa, perché possa essere strumento del suo amore premuroso. Senza un cambiamento interiore di noi tutti, senza una conversione, saremo come il sale insipido che non servirà più a nessuno. In realtà, la crisi, intesa e accolta come grazia di purificazione è la prova che il Signore si prende cura della propria Sposa colta in fallo e ne desidera essere Signore e Dio.


[1] Cf. papa Francesco nell’omelia della santa messa con la partecipazione delle vittime il 07.07.2014. Secondo il papa: «Si tratta di qualcosa di più che di atti deprecabili. È come un culto sacrilego perché questi bambini e bambine erano stati affidati al carisma sacerdotale per condurli a Dio ed essi li hanno sacrificati all’idolo della loro concupiscenza.

[2] Uno dei primi a intraprendere tale tentativo è stato p. Thomas Doyle, OP, il quale nel 1985 con Ray Mouton il rev. Michael Peterson ha presentato la prima analisi degli abusi sessuali nella Chiesa statunitense, sollecitando la necessità di un approccio che tratti il fenomeno nel suo complesso. Cf. qui.

[3] Tutti gli interventi dei pontefici sono disponibili qui.

[4] Le fasi di denuncia dell’abuso sessuale. Cf. J. Włodarczyk: Rola backlashu w instytucjonalizacji problemu wykorzystywania seksualnego dzieci. Analiza przypadku Stanów Zjednoczonych pod koniec XX wieku w: Dziecko krzywdzone, vol 13 n. 1(2014) pp. 33-50.

[5] Cf. M. Introvigne: Preti pedofili. La vergogna, il dolore e la verità sull’attacco a Benedetto XVI. Milano, Ed. San Paolo, 2010, pp. 29-31.

[6] Così il papa emerito Benedetto XVI in una lettera al matematico italiano Piergiorgio Odifreddi, pubblicata su Repubblica il 24.08.2013.

settimananews

Come è importante l’incontro e il dialogo tra le generazioni

La nonna con la quale Francesco incrociò lo sguardo durante l’incontro con i giovani e le famiglie a Iaşi (1° giugno 2019)

È il 26 luglio 2013, Papa Francesco si affaccia dal balcone dell’arcivescovado di Rio de Janeiro. Ad ascoltarlo, per la recita dell’Angelus, ci sono migliaia di giovani di tutto il mondo venuti in Brasile per la Giornata mondiale della gioventù, il primo viaggio apostolico internazionale del Papa eletto il marzo prima. Quel giorno la Chiesa celebra i santi Gioacchino e Anna, i genitori della Vergine Maria, i nonni di Gesù. Francesco coglie così l’occasione per sottolineare — riprendendo il Documento di Aparecida a cui da cardinale aveva tanto lavorato — che «i bambini e gli anziani costruiscono il futuro dei popoli; i bambini perché porteranno avanti la storia, gli anziani perché trasmettono l’esperienza e la saggezza della loro vita».

Giovani e anziani, nonni e nipoti. Questo binomio diventa una delle costanti del Pontificato attraverso gesti, discorsi, udienze e “fuori programma”, in particolare nei viaggi. Sono loro, i giovani e gli anziani, constata amaramente Francesco, ad essere spesso le prime vittime della “cultura dello scarto”. Ma sono sempre loro che insieme, e solo se insieme, possono avviare cammini e trovare spazi per un futuro migliore. «Se i giovani sono chiamati ad aprire nuove porte — osserva il Papa nella messa per i consacrati, il 2 febbraio 2018 — gli anziani hanno le chiavi», «non c’è avvenire senza questo incontro tra anziani e giovani; non c’è crescita senza radici e non c’è fioritura senza germogli nuovi. Mai profezia senza memoria, mai memoria senza profezia; e sempre incontrarsi».

Per Francesco, il terreno d’incontro tra i giovani e gli anziani è quello dei sogni. Per certi versi, sembrerebbe una convergenza sorprendente quasi improbabile. Eppure come anche l’esperienza vissuta a causa della pandemia ci ha mostrato, è proprio il sogno, la visione del domani, che ha tenuto e tiene uniti coloro, nonni e nipoti, che sono stati improvvisamente separati aggiungendo un ulteriore fardello al gravame dell’isolamento. Del resto, questo centrarsi sulla dimensione del sogno è stato lungamente meditato dal Papa ed ha un profondo radicamento biblico. Francesco ama, infatti, più volte ricordare quanto ci insegna il profeta Gioele in quella che, dice, «ritengo essere la profezia dei nostri tempi: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (3, 1) e profetizzeranno».

Chi se non i giovani, si chiede il Papa, possono prendere i sogni degli anziani e portarli avanti? Significativamente, durante il Sinodo dedicato alla gioventù celebrato nell’ottobre del 2018, ha voluto che si vivesse un evento speciale sul dialogo tra le generazioni, l’incontro «La saggezza del tempo» all’Istituto Patristico Augustinianum. In tale occasione, rispondendo agli interrogativi di giovani e anziani su questioni di attualità per la Chiesa e per il mondo, Francesco ha esortato a «difendere i sogni come si difendono i figli», annotando che «le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì». Il Papa, anziano anche lui, ha affidato ai giovani una grande responsabilità. «Tu — ha detto rivolgendosi idealmente ad ogni ragazzo — non puoi portarti tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti farà bene». E sempre in quell’incontro, ha messo l’accento sull’empatia, qualcosa che oggi, alla luce della drammatica esperienza della pandemia, appare ancora più necessaria. «Non si può — avvertiva — condividere una conversazione con un giovane senza empatia». Ma dove trovare oggi questa risorsa di cui abbiamo tanto bisogno per andare avanti? Nella vicinanza, è la risposta del Papa. Un bene prezioso, come abbiamo sperimentato in questi mesi in cui, tale dimensione fondamentale dell’esistenza, è stata improvvisamente “sospesa” a causa del virus. «La vicinanza fa miracoli», ne è convinto il Papa, «vicinanza a coloro che soffrono», «vicinanza ai problemi e vicinanza tra giovani e anziani». Una vicinanza che, alimentando la «cultura della speranza», ci immunizza dal virus della divisione e della sfiducia.

Il Papa torna a riferirsi a questo legame in uno dei suoi ultimi viaggi apostolici, quello compiuto in Romania nel giugno dell’anno scorso. È qui che Francesco viene toccato da un’immagine, mentre si trova a Iaşi per l’incontro con i giovani e le famiglie del Paese. È lui stesso a confidare la gioia per un incontro inatteso, quello con un’anziana. «Nelle braccia — afferma il Papa — aveva il nipote, più o meno di due mesi, non di più. Quando sono passato me lo ha fatto vedere. Sorrideva, e sorrideva con un sorriso di complicità, come dicendomi: “Guardi, adesso io posso sognare!”». Un incontro di sguardi di pochi secondi che emoziona il Papa, sempre attento a cogliere nell’altro una scintilla che, travalicando i limiti del momento, si fa dono e messaggio per tutti. «I nonni — commenta — sognano quando i nipoti vanno avanti, e i nipoti hanno coraggio quando prendono le radici dai nonni».

Radici e sogni. Non può esserci l’uno senza l’altro, perché l’uno è per l’altro. E questo vale certamente oggi più che in passato, perché urge una “visione d’insieme” che non lasci nessuno escluso. Francesco lo evidenzia in una intervista alle riviste anglofone «Tablet» e «Commonweal» nel momento più cupo della pandemia in Europa. Per il Papa, che si sofferma sul senso di quello che stiamo vivendo in questo drammatico 2020, la tensione tra vecchi e giovani «deve sempre risolversi nell’incontro». Il giovane, ribadisce, «è germoglio, fogliame, ma ha bisogno della radice; altrimenti non può dare frutto. L’anziano è come la radice». Ancora una volta richiama la «profezia di Gioele». Agli anziani di oggi, spaventati da un virus che spezza la vita e soffoca la speranza, Francesco chiede un surplus di coraggio. Forse quello più arduo: il coraggio di sognare. «Volgete lo sguardo dall’altra parte — esorta il Pontefice che crede nella “saggezza del tempo” — ricordate i nipoti e non smettete di sognare. È questo che Dio vi chiede: di sognare». Questo che stiamo vivendo, tra timori e sofferenze, ci dice con forza il Papa, «è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci». Questo è il tempo in cui la “profezia di Gioele” può diventare realtà.

di Alessandro Gisotti

Osservatore Romano

Per una pastorale dell’incontro

«Come interpretare la crisi attuale, quali lezioni ricavarne, e come riconoscere il “nuovo” di Dio? Quali cose lasciar cadere e quali mantenere? Come cambieranno le cose? Come saremo? Cosa ci chiede il Signore in questo tempo?». Con queste domande i vescovi campani si interrogano nella “scheda per la riflessione nelle nostre Chiese”, intitolata «Per una “lettura sapienziale” del tempo presente». Nel testo i presuli sottolineano la difficoltà di essere pronti a leggere «i segni dei tempi», un esercizio della fede che richiede la capacità di cogliere, attraverso gli avvenimenti, «i richiami e gli appelli. È un esercizio a cui non siamo abituati, come purtroppo dimostra il fatto che, anche in questa emergenza, siamo forse più preoccupati della ripresa della celebrazione dei sacramenti piuttosto che di “discernere l’oggi di Dio”». Dimenticando che la Chiesa è chiamata a «leggere in maniera sapienziale la storia». Di qui pertanto l’esortazione a «leggere quanto è accaduto e sta accadendo come un appello, un richiamo, e vedere la crisi come grazia», facendo tesoro di ciò che la pandemia ha insegnato: «Il senso del limite, personale e sociale; il ridimensionamento dell’illusione di onnipotenza», con la consapevolezza che nessuno si salva da solo; «il valore del tempo che viviamo; l’importanza di essere vicini e di essere distanti; il grande sentimento di solidarietà».

La crisi attuale dai molteplici risvolti, proseguono i vescovi, rappresenta un giudizio ma anche una grande occasione che non ci si può permettere di sprecare. «Certo, essendo la situazione in evoluzione, non è possibile formulare programmi “ad ampio respiro” e indicare con precisione le cose da cambiare e quelle da assumere oggi e per l’immediato futuro». In questo tempo di pandemia, viene evidenziato nella scheda, «la Chiesa si è trovata a vivere un passaggio di grave difficoltà e insieme l’apertura di inattese possibilità», facendo emergere con più evidenza tutte le problematiche pastorali, teologiche e spirituali «con cui essa si confronta da decenni». Ecco allora una delle chiavi di lettura della pandemia: «Ripensare la pastorale e ad accelerare quel rinnovamento prospettato dal concilio e continuamente sollecitato da Papa Francesco, il quale ci dice, in molti modi, di ripensare le pratiche pastorali in nome di un cambiamento d’epoca che stiamo vivendo e nella direzione di una Chiesa “in uscita”».

Questa è dunque la strada da seguire, per annientare quel senso di smarrimento che ha portato, osservano i vescovi, a forme di “pseudoliturgia selvaggia” con sacerdoti che, nei social, hanno fatto «un uso improprio della liturgia o di alcuni aspetti cultuali». È anche vero però, rimarcano i presuli, che «nei giorni della pandemia si sono aperti nuovi spazi di celebrazione che potrebbero essere valorizzati» per rafforzare così il tessuto delle varie comunità ecclesiali. Doveroso quindi, si puntualizza nel documento, prendersi cura delle relazioni personali cercando i fedeli singolarmente, «con la discrezione necessaria, ma anche con la cordialità e l’interessamento sincero. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza delle relazioni all’interno, tra collaboratori, praticanti; abbiamo bisogno di creare in parrocchia un luogo dove sia bello trovarsi. Ai nostri presbiteri bisogna dire che è emersa in questo tempo una forte domanda di ascolto che va recepita». L’importanza dell’incontro, del legame: è qui che si piantano i semi fruttiferi per una nuova e più profonda umanità. «Se il vuoto di questi giorni ha fatto crescere in noi la nostalgia dell’amicizia, delle relazioni, perché non ci bastano le relazioni virtuali — aggiungono i presuli — allora chiediamo allo Spirito di farci tornare in comunità, non per riprendere il ritmo forsennato delle tante attività ma per curare meglio la qualità delle relazioni». In base a tali considerazioni presbiteri, religiosi e operatori pastorali vengono invitati «a superare le resistenze e ad “investire” su quello che lo Spirito in questo tempo dice alle nostre Chiese».

Osservatore Romano

Brigida di Svezia compatrona d’Europa

«Cinque giorni prima della morte della signora Birgitta, la sposa di Cristo, avvenne che il nostro Signore Gesù Cristo le apparve di fronte all’altare che si trovava nella sua camera. La guardò con una faccia mite e disse: “Ho fatto a te come fa di solito uno sposo, che si nasconde dalla sua sposa, per essere da lei più desiderato. Quindi non ti ho visitato con la mia consolazione, perché era il tuo tempo di prova”. Il quinto giorno dopo, all’alba, Cristo le apparve di nuovo e la confortò. Dopo che la Messa fu celebrata e ha ricevuto i sacramenti con la massima devozione e riverenza, spirò tra le braccia delle persone menzionate». Ecco come il libro delle Rivelazioni (Rev. VII, cap. 31), racconta gli ultimi giorni di Brigida di Svezia, vissuti a Roma ormai anziana e malata, poiché l’anno prima aveva intrapreso un arduo viaggio in Terra Santa su richiesta del Signore, dopo una promessa che lo stesso le aveva fatto molti anni prima di vedere e visitare i luoghi in cui Cristo era nato e morto.

Nello stesso capitolo (VII, cap. 31), Gesù dice alla donna come deve essere pubblicata la raccolta delle sue rivelazioni. Al termine ci sarà la rivelazione generale che ha ricevuto qualche tempo prima a Napoli durante il viaggio di ritorno verso Roma. «Colui che sedeva sul trono aprì la bocca e disse: Ascoltate, voi tutti sacerdoti, arcivescovi, vescovi e tutti i funzionari inferiori della Chiesa! Ascoltate, tutti i monaci, di qualunque ordine possiate essere! Ascoltate, re, principi e giudici della terra e tutti voi che servite! Ascoltate, donne, regine, principi e tutte le mogli e le ancelle, sì, tutti gli uomini, qualunque sia la posizione della vita, grandi o piccoli, che abitano il mondo, ascoltate queste parole, che io, il vostro Creatore, ora vi parlo! Voi non considerate che io, l’Iddio immutabile ed eterno, il vostro Creatore, sia disceso dal cielo a una vergine e abbia preso carne da lei e camminato in mezzo a voi. Attraverso il mio esempio vi ho aperto una strada e vi ho mostrato come andare in paradiso. Ero spogliato, tenuto in ostaggio, incoronato di spine e stiracchiato così forte sulla croce che quasi tutti i tendini e le articolazioni del mio corpo si spezzarono. Ho sentito tutto il disprezzo e ho sopportato la morte più spregevole e il dolore più amaro per la vostra salvezza».

Cristo esorta tutti, tramite santa Brigida, a tornare da lui, il Salvatore, e vedere che è dolce, gentile e pieno di amore. Questo è il riassunto di tutte le attività della santa, dei suoi consigli e messaggi, della sua missione come portavoce nel mondo. Nata a Finsta nel 1303, questa religiosa e mistica morì a Roma all’età di settant’anni il 23 luglio 1373 e fu canonizzata da Bonifacio IX il 7 ottobre 1391. Patrona di Svezia dal 1º ottobre 1891 per volere di Leone XIII, il 1º ottobre 1999 Giovanni Paolo II l’ha dichiarata compatrona d’Europa insieme con santa Caterina da Siena e santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein).

Forse si pensa che le sue parole non siano per niente straordinarie; ma è proprio per questo che sono sempre attuali. Le rivelazioni che Brigida Birgersdotter — questo il suo nome al secolo — ha ricevuto, come portavoce di Gesù per la salvezza del mondo nel XIV secolo, sono purtroppo molto attuali anche oggi.

Da piccola durante la Quaresima, ella ebbe una visione di Gesù sofferente sulla croce. Con la spontaneità dei bambini domanda chi ha causato i dolori di Gesù? — Sono coloro che dimenticano e disprezzano il mio amore! Fu la risposta.

Questa visione ha formato la sua spiritualità che è anche riassunta nel motto dell’ordine religioso femminile da lei fondato «Amor meus crucifixus est — Il mio amore è crocifisso».

In una rivelazione Gesù dice a santa Brigida che se fosse possibile si lascerebbe crocifiggere un’altra volta per salvare un’anima, visto che così grande è il suo amore verso ogni persona. E questa verità di fede bisogna ricordarla sempre per non dimenticarcela!

di Maria Beata Rohdin
Superiora della comunità di Stoccolma dell’ordine del Santissimo Salvatore di Santa Brigida

Preghiera della santa

O Signore, vieni presto ed illumina la notte! A te anelo come i moribondi anelano a te. Di’ all’anima mia, che niente succeda senza che tu lo permetta, e che nulla di quello che tu permetti sia senza conforto. O Gesù, Figlio di Dio, tu che tacevi in presenza dei tuoi accusatori, frena la mia lingua finché avrò trovato quello che dovrò dire e come dirlo. Mostrami la via e disponimi a seguirla. Pericoloso è indugiare e rischioso proseguire. Rispondi alla mia supplica e mostrami la via. Vengo a te come il ferito va dal medico in cerca di aiuto. Dona, o Signore, pace al mio cuore! Amen.

Osservatore Romano

Parrocchia, tempo di cambiare verso il nuovo dei carismi. Valorizzare tutti

di: Francesco Cosentino

parrocchia

In un mondo in rapido cambiamento, la parrocchia è chiamata a rinnovare se stessa e la propria organizzazione valorizzando i carismi di tutti.

Qualche tempo fa, il prete tedesco Thomas Frings ha deciso di prendersi un tempo di pausa in un monastero, dopo una lunga esperienza pastorale vissuta come parroco. Nell’avvincente testo Così non posso più fare il parroco,[1] Frings racconta la vita quotidiana di un parroco, affermando di essere un prete felice, ma sottolineando l’urgenza di un cambiamento di rotta per una Chiesa organizzata e strutturata, ma, tuttavia, ormai incapace di trasmettere la freschezza del Vangelo in un mondo profondamente cambiato.

Da diverso tempo, infatti, l’istituzione parrocchiale è in uno stato di sofferenza. Essa appare eccessivamente affaticata, appesantita da apparati e strutture che la rendono statica in un mondo diventato mobile, spesso imprigionata in forme, stili e linguaggi che non sono più in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze dell’evangelizzazione.

Insomma, il “cantiere parrocchia” ha bisogno di essere riaperto perché si avvii un tentativo di rinnovamento e, in questo senso, può essere letto il nuovo documento della Congregazione per il clero appena pubblicato, dal titolo La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa.

Una nota di metodo

Una prima e doverosa nota di metodo appare necessaria per una corretta lettura e interpretazione del documento. Come spesso accade nell’ambito di una sempre più diffusa superficialità della comunicazione, spesso le appendici diventano il centro; ma il documento, pur parlandone, non nasce primariamente per definire la questione dei tariffari per i sacramenti o per “aprire” alla possibilità che, in certe circostanze, siano i laici ad amministrare un sacramento o a celebrare la Liturgia della Parola, cosa peraltro già prevista da tempo dal Diritto Canonico.

Al contempo, insieme alla mens del documento, occorre tenere presente la sua destinazione universale. La Congregazione, venendo a contatto con le situazioni più disparate di quasi tutto il mondo e raccogliendo la voce dei vescovi di molti Paesi, ha contezza di come alcune problematiche di natura ecclesiologica o pastorale siano diverse a seconda della realtà concreta in cui ci si trova. Ciò è importante per evitare letture parziali, pregiudiziali e talvolta ideologiche.

La sapienza teologica, soprattutto, dovrebbe essere allenata, quand’anche si trovasse dinanzi a formulazioni non del tutto convincenti, a considerare il “tutto” e a supporre che, in un documento della Santa Sede, confluiscono una serie di elementi diversi e non poche situazioni ecclesiali di partenza diverse tra loro.

La conversione della parrocchia in un mondo cambiato

Il documento della Congregazione per il clero nasce dall’esigenza di cercare con creatività strade nuove perché il vangelo sia annunciato senza lentezze, come auspicato più volte da papa Francesco, anche attraverso un ripensamento/rinnovamento della forma parrocchiale.  L’Istruzione, perciò, intende offrire «strumenti per una riforma, anche strutturale, orientata a uno stile di comunione e di collaborazione» (La conversione pastorale, n. 2), in linea con quella trasformazione auspicata da papa Francesco in Evangelii gaudium, perché la parrocchia diventi un canale missionario di evangelizzazione e non un apparato che mira all’autopreservazione.

parrocchia

L’istituzione parrocchiale, infatti, vanta una lunga storia e, tuttavia, la sua configurazione sembra non reggere più l’impatto di profondi cambiamenti sociali e culturali, avvenuti negli ultimi decenni. In particolare, ad apparire poco adeguato rispetto ai tempi, è l’intrinseco legame tra parrocchia e territorio. Infatti, il mondo contemporaneo è segnato da un’accresciuta mobilità che investe gli stili di vita e gli stessi “confini” dell’esistenza. La vita delle persone, specialmente nelle grandi metropoli e aree urbane, si svolge in perenne movimento, nel contesto di luoghi, tempi, spazi e situazioni esistenziali variegate e plurali.

La parrocchia, con le sue strutture, i suoi organismi, i suoi orari ben definiti, le sue forme tradizionali, rischia di apparire troppo statica e inamovibile, mentre nel mondo attuale «il legame con il territorio tende a essere sempre meno percepito» e «i luoghi di appartenenza divengono molteplici» (n. 9).

La missione come criterio di rinnovamento

In un mondo così profondamente cambiato e in perenne movimento, la parrocchia è chiamata «a trovare altre modalità di vicinanza e di prossimità rispetto alle abituali attività» (n. 14), così da venire incontro alle persone che, oggi, vivono in un «territorio esistenziale e relazionale» più ampio del ristretto ambito geografico in cui abitano.

Il documento invita a superare una pastorale il cui campo d’azione è delimitato esclusivamente all’interno dei limiti territoriali della parrocchia. Solo così essa non rischia di restare imprigionata nella mera ripetizione di attività inerenti a una pastorale delle “cose di sempre” e diventa, invece, capace di vivere il dinamismo dell’evangelizzazione, aprendosi in modo trasversale al territorio e portando avanti proposte pastorali diversificate.

Si tratta di «individuare prospettive che permettano di rinnovare le strutture parrocchiali “tradizionali” in chiave missionaria» (n. 20), attraverso un rinnovato slancio nell’annuncio del Vangelo, proposte pastorali trans-parrocchiali, spazi e luoghi in cui la comunità cristiana diventa generativa di legami fraterni, di vicinanza e di crescita di buone relazioni umane.

Dalla singola parrocchia alla Comunità inclusiva

Una simile conversione pastorale necessita di quello che il documento chiama «un processo graduale di rinnovamento delle strutture», e di «modalità diversificate di affidamento della cura pastorale e di partecipazione all’esercizio di essa, che coinvolgono tutte le componenti del Popolo di Dio» (n. 43).

Infatti, la parrocchia presa singolarmente, sufficiente a se stessa, che organizza da sé la pastorale senza connessione con altre comunità vicine e con la diocesi, rischia di apparire anacronistica, statica, circoscritta in un criterio giuridico-territoriale che non trova più corrispondenza nella vita reale delle persone, incapaci di arrivare a tutti.

Il documento, allora, auspica che possa svilupparsi quella riorganizzazione pastorale della parrocchia, già conosciuta con la denominazione di Unità Pastorali, Zone Pastorali o Comunità di parrocchie. Non si tratta banalisticamente di unire le parrocchie per scarsità di preti o di mezzi, bensì, più teologicamente, di ripensare e programmare insieme la pastorale e l’evangelizzazione, a partire da una più ampia lettura del territorio, contenuti e obiettivi comuni, programmi pastorali comuni, proposte innovative e trasversali di evangelizzazione.

parrocchia

Anche se la parrocchia continua a promuovere una pastorale ordinaria, le prefetture, i decanati, le vicarie e le foranie – oggi ridotte a pure istituzioni formali – potrebbero diventare luoghi di elaborazione di una simile pastorale d’insieme, in una comunione e collaborazione attiva, fattiva e concreta non solo tra preti e laici, ma anche tra quelle che oggi sono parrocchie diverse.

Una normativa canonica

Così, posto che a fondamento del documento c’è l’ecclesiologia di comunione del concilio Vaticano II e gli impulsi del magistero di Francesco sulla necessità di una «Chiesa in uscita», la seconda parte del documento si limita a offrire, in particolare ai vescovi, le modalità canoniche attraverso cui attuare sperimentazioni di Unità o Zone Pastorali.

Si tratta di realtà intermedie tra la diocesi e la singola parrocchia, guidate da un vicario episcopale o parroco moderatore, che dovrebbero essere erette tenuto conto delle dimensioni della diocesi e della sua concreta realtà pastorale, «con una particolare attenzione al territorio concreto… per facilitare la relazione di vicinanza tra i parroci e gli altri operatori pastorali» (n. 46).

Il documento, specialmente nella sua parte canonica, intende evitare due rischi estremi, attualmente presenti in diversi Paesi del mondo: una parrocchia in cui il parroco e gli altri presbiteri si occupano di tutto e decidono da soli di ogni cosa, relegando le altre componenti della comunità al marginale ruolo di esecutori; o, viceversa, una parrocchia in cui la specificità dei carismi è livellata, al punto che essa non ha più un pastore proprio cui è affidata la cura pastorale, ma un team di persone – preti e laici – che, come un consiglio di amministrazione, gestiscono nella veste di funzionari un’azienda.

Conclusione

Non deve sfuggire che il tentativo dell’Istruzione è avviare un rinnovamento delle forme di cura pastorale, attraverso una riforma anche strutturale della comunità, al servizio di una nuova evangelizzazione.

L’idea di sottofondo è che, al centro della comunità cristiana e del suo agire, c’è lo Spirito Santo, la cui unzione appartiene a tutto il Popolo di Dio, e che abilita tutti i battezzati, attraverso carismi e ministeri diversi, a partecipare alla missione ecclesiale. In questa rinnovata compartecipazione tra preti e laici, si ritiene necessario porre segni concreti per «il superamento tanto di una concezione autoreferenziale della parrocchia», quanto di una «clericalizzazione della pastorale» (n. 38).

parrocchia

Ciò si realizza aiutando la parrocchia a emanciparsi dal modello tridentino che la vede agire “in solitario”, per diventare luogo in cui le diverse vocazioni e i diversi ministeri si armonizzano e danno vita a nuove forme di annuncio della fede.

Naturalmente, la conversione strutturale presuppone quella personale: mai come oggi c’è bisogno di questo sforzo comune di cambiamento di mentalità, che deve investire la formazione dei preti e dei laici, perché insieme continuino a «inventare il cristianesimo».[2]


[1] Cf. Th. FRINGS, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché, Àncora, Milano 2018

[2] J. DELUMEAU, Scrutando l’aurora. Un cristianesimo per domani, Messaggero, Padova 2003, 176.

Settimanana News

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone)

Rinnovato e potenziato il sito web del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita nello spazio lanciato alla fine dello scorso anno e dedicato alle buone pratiche di collaborazione fra pastori e fedeli

Vatican News

Promuovere e formare i fedeli laici nella Chiesa e nella società: questo è tra i compiti del Dicastero Laici, famiglia e vita che di recente, proprio per essere maggiormente un punto di riferimento per gli agenti pastorali, per i movimenti e le associazioni, e per quanti sono interessati a trovare modalità di impegno con i fedeli laici nei loro Paesi e nelle loro comunità, ha rinnovato  il sito internet nella sezione di lingua inglese  – laityinvolved.org – lanciato alla fine dello scorso anno.

Lo spazio, nell’ambito del sito www.laityfamilylife.va, accoglie la sollecitazione del Papa di proporre modelli positivi di collaborazione fra i pastori e i fedeli, evitando contrapposizioni e antagonismi che fanno male alla Chiesa e dunque presenta una serie di “buone pratiche” in atto nella Chiesa a favore del servizio a  laici. E in questi giorni in cui molti lavorano da casa, il portale in lingua inglese è stato aggiornato e potenziato.

Ogni buona pratica o progetto che arriva prevalentemente dalle Conferenze episcopali e dalle Diocesi dei cinque continenti, può essere un modello per altri Paesi e duque viene spiegata in ogni suo aspetto abbracciando gli ambiti più diversi, dalla pastorale giovanile alla bioetica, all’educazione e alla difesa della vita, ma anche aromenti relativi a sport , nuova evangelizzaione e donna.

L’idea del Dicastero di creare un sito così essenziale è nata dopo un incontro internazionale sulla formazione dei fedeli laici tenutosi lo scorso anno. Rappresentanti di diverse Conferenze episcopali presentarono al Dicastero alcune delle loro migliori attività nel campo dell’evangelizzazione e della promozione dei fedeli laici nei loro rispettivi paesi. Prima ancora dell’incontro internazionale, il Dicastero fece tra tutte le Conferenze Episcopali un sondaggio per conoscere l’attività di ciascuna di esse con i laici.