Siria Orrore a Falluja, l’Is colpisce chi fugge

La furia del Daesh si abbatte su Falluja e nel mirino degli uomini del Califfato c’è soprattutto chi fugge dalla città o si rifiuta di imbracciare il fucile in nome dello Stato islamico. Ai fuggitivi che vengono catturati tocca una punizione esmplare: frustati, gli arti amputati, sepolti vivi sotto le macerie della propria casa distrutta. A denunciarlol’Acnur, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che parla di “un numero crescente di esecuzioni” di uomini e ragazzi che si rifiutano di combattere tra le fila dell’Is. Più di 800 le persone che sono riuscite a lasciare Falluja da lunedì, quando l’esercito iracheno e le milizie sciite alleate hanno lanciato una campagna per liberare la città dall’Is.

“Ci sono notizie di un aumento drammatico nel numero di esecuzioni. E molte persone sono state uccise o sepolte vive sotto le macerie delle loro case”, ha denunciato Leila Jane Nassif, rappresentante dell’Acnur in Iraq. Secondo l’agenzia Onu, “più di 800 persone sono fuggite da Falluja, soprattutto dalle zone circostanti, mentre il governo continua la sua offensiva militare per riprendere il controllo della città”.

Nassif riferisce di “racconti strazianti” delle persone fuggite, aggiungendo che “le poche famiglie che sono riuscite a lasciare Falluja lo hanno fatto mettendo a grande rischio la loro vita. Ci hanno detto di aver camminato per ore di notte, attraverso i campi e nascondendosi nei tubi per l’irrigazione in disuso. Altri hanno perso la loro vita cercando di lasciare la città, tra cui donne e bambini. Altri sono stati giustiziati o frustati. A un uomo è stata amputata una gamba”. L’Acnur riferisce di decine di migliaia di civili ancora intrappolati a Falluja, “impediti a scappare dalle forze estremiste mentre la città viene bombardata dalle forze irachene. Le vite dei civili non dovrebbero essere tenute in ostaggio in questo modo”.

Avvenire

Iraq e Siria, non lasciamoli soli. La geopolitica della misericordia

Fare rete, anzi costruire un sistema per coordinare e rendere più efficace la presenza della Chiesa e dellacooperazione cattolica in Iraq e in Siria. È un tavolo aperto, quello inaugurato al convegno «Iraq e Siria: non lasciamoli soli» all’Università cattolica di Milano, a chi nella società italiana non vuole arrendersi all’inadeguatezza delle risposte della comunità internazionale mentre è in corso la peggiore emergenza del nuovo millennio.

Sono le cifre del disastro umanitario a dare il senso della scommessa a cui si è di fronte: un milione di profughi nelKurdistan iracheno dall’agosto del 2014, altri due milioni nel resto dell’Iraq, mentre sono ben 11 milioni, tra sfollati interni e profughi, quelli provenienti dalla Siria. Intanto anche l’Onu, dopo 5 anni di guerra civile, attesta oltre 400mila vittime nel conflitto civile siriano nei giorni in cui si parla di Aleppo come di una «nuova Sarajevo».

Una Chiesa italiana, ha ricordato il direttore della Caritas italiana don Francesco Soddu aprendo i lavori della mattinata, che subito si è attivata con la rete della Caritas nazionali locali, ma che ha voluto «essere concretamente presente per due volte con delegazioni guidate dalsegretario generale della Cei Nunzio Galantino per testimoniare una solidarietà personale».

Un impegno che, grazie ai fondi dell’8 per mille e alle parrocchie, ha consentito l’anno scorso interventi per quasi 4 milioni di euro e sono già in atto quest’anno progetti per 500mila euro. Un apporto decisivo in un’area al «collasso» dopo il disinteresse degli Usa dall’area, perché «non si rompa il legame fra le comunità cristiane e il Medio Oriente», unico fattore di stabilità per tutta la regione ha sottolineato Riccardo Redaelli, docente di geopolitica nell’ateneo milanese. Difficile, dunque, immaginare soluzioni politiche a breve termine, anche se il primo banco di prova concreto potrebbe essere in una «futura liberazione di Mosul lo spazio che verrà effettivamente dato al rientro delle minoranze».
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Questo mentre negli ultimi decenni, ha affermato il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, abbiamo assistito alla «sistematica distruzione di tutti i luoghi di convivenza» e per questo «ci sentiamo di portare gliuomini della cultura e della carità allo stesso tavolo, chiamando idealmente anche la politica a uno spazio di reclutazione».

La sfida, di fronte a una «politica assassina» è invece di «stare accanto» a chi è vittima e perseguitato, sapendo che nella società italiana esiste «un partito dell’accoglienza», come nella Chiesa un «ecumenismo della carità».

La prova è quella popolazione «silenziosa ed operosa, ma che crede nella solidarietà» come valore ed è disposta ad investire in essa sia in termini economici che culturali, ha osservato il presidente della Focsiv Gianfranco Cattai. La prova sta nel “Progetto Emergenza” Kurdistan, promossa da Focsiv con Avvenire, che ha raccolto in due anni, 508mila euro raccogliendo più di 2mila donatori.

Ad essi si devono aggiungere 327mila euro raccolti da Famiglia Cristiana e oltre 200mila euro giunti con i fondi dell’8 per mille. Questa la base – capace di realizzare 6mila interventi in tutto il 2015 – da cui iniziare a progettare, oltre la prima emergenza. Con Focsiv, al tavolo, anche Avsi, Sant’Egidio, e il Centro sportivo italiano. Una rete capace già ora di realizzare, in Iraq, Siria, Libano e Giordania oltre50mila interventi, con diverse professionalità spesso complementari.

Un nuovo capitolo è poi quello dei corridoi umanitari, in grado di assicurare «sicurezza per chi viaggia e per chi accoglie» grazie a una identificazione dei soggetti in situazione di vulnerabilità. Un progetto che «potrebbe essere replicato in Italia e in altri Paesi europei», auspicaCesare Zucconi della comunità di Sant’Egidio.

«Fare l’impossibile è un imperativo», conclude il presidente Focsiv Gianfranco Cattai. Una impresa chiamata solidarietà, nuovo volto dellageopolitica della misericordia.

Avvenire

Siria: a Sadad tornano i cristiani espatriati in Europa

Nella città siriana di Sadad si registrano i primi ritorni di famiglie cristiane che erano espatriare in Eutropa per sfuggire alle violenze del conflitto. Lo riferisce ai media russi Suleiman al Khalil, sindaco della città situata nella provincia di Homs. “I cristiani che avevano lasciato la Siria per l’Europa cominciano a tornare a Sadad e anche in altre città” riferisce Khalil, aggiungendo che i ritorni sono favoriti dalla fiducia suscitata dal successo delle operazioni militari sostenute dalla Russia e dalla perdurante tenuta del cessate il fuoco concordato a Monaco di Baviera il 12 febbraio.

A Sadad compiuti massacri. Trovate fosse comuni
Sadad prima del conflitto era una città di circa 12mila abitanti, perlopiù cristiani assiri e siro ortodossi. Negli anni di guerra, almeno mille di loro erano fuggiti fuori dalla Siria, compreso l’arcivescovo Selwanos Boutros Alnemeh, metropolita siro-ortodosso di Homs e Hama. Secondo fonti ecclesiastiche locali, nell’ottobre 2013 durante la temporanea conquista della città da parte dei jihadisti di al Nusra, sarebbero stati compiuti massacri sulla popolazione civile, confermati dal ritrovamento di una fossa comune con almeno 30 cadaveri. Lo scorso novembre, anche i jihadisti del sedicente Stato Islamico (Daesh) avevano provato a riconquistare la città, attaccando i posti di blocco dell’esercito siriano.

Il rientro dei cristiani
Negli ultimi tre mesi – riferisce il sindaco Suleiman al Khalil – almeno cento cristiani di Sadad fuggiti fuori dalla Siria hanno fatto ritorno alle proprie case, e si attende presto il rientro di altri duecento. La città si trova a 14 chilometri dalla strada che unisce Damasco a Homs, ed è disseminata di ben 15 chiese. (G.V.)

Radio Vaticana

La storia Alaa, il violinista in fuga dalla Siria

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Occhi chiusi, concentrato sulle note del suo violino. Mentre suona, il volto di Alaa mostra più della sua vera età. Solo quando stacca l’archetto dalle corde, il suo viso si apre in un sorriso. Rivelando i suoi trent’anni e le sue speranze per il futuro. Ed è proprio Hope (Speranza) il titolo della traccia che chiude Sham, l’album di debutto del violinista siriano Alaa Arsheed. «Spero che si arrivi finalmente alla pace in Siria, voglio un futuro senza guerra e senza morte. Vorrei avere al più presto i documenti, per far venire in Italia i miei genitori, che sono rimasti sotto le bombe», racconta il giovane siriano, uno dei pochi ad aver presentato domanda d’asilo nel nostro Paese, a Milano.

E che proprio nella città lombarda sogna di costruire il proprio futuro, sempre all’insegna della musica e della cultura. «Ho iniziato a suonare il violino a otto anni» spiega Alaa, nato e cresciuto in una famiglia di artisti. A Suwayda, città nel sud della Siria, il nome degli Arsheed è legato a filo doppio a quello del caffè-galleria ‘Alpha’ che la famiglia aveva aperto nel 2006. «Abbiamo allestito più di 140 eventi. Alpha era il primo spazio della città non legato al governo, dedicato solo all’arte», un luogo dove la gente di Suwayda poteva respirare un soffio di libertà, malgrado l’opprimente cappa del regime di Assad.

Un sogno che, purtroppo, è durato solo cinque anni. Nel febbraio 2011 scoppia la breve primavera siriana. Alaa e tanti altri giovani come lui, colti e liberali, guardano quello che succede in Egitto e in Tunisia e accolgono i primi fermenti rivoluzionari con la speranza di poter costruire un Paese migliore. Il sogno, però, finisce troppo presto e in maniera tragica. Alaa decide di lasciare la Siria: la rivoluzione, appena sbocciata, lo ha già deluso. «Ci credevo. Ma adesso cosa rimane? Assad era un male per la Siria e ora invece abbiamo lui e il Daesh». Così Alaa fugge a Beirut, dove inizia a costruirsi una nuova vita, sempre accompagnato dall’inseparabile violino «comprato da un artigiano ucraino a Odessa». Suona nei teatri, ai matrimoni, nei locali. «Ho anche iniziato a studiare come tecnico del suono per lavorare nel cinema».

Vive nel Paese dei Cedri per quasi quattro anni assieme al fratello Ayan e alle due sorelle Maruka e Kinda, tutti musicisti come lui. Poi, l’incontro con l’attore Alessandro Gassmann cambia la sua vita: Alaa è uno dei protagonisti del documentario ‘Torn’ che racconta le storie degli artisti siriani in esilio. «Poco dopo mi ha contattato la fondazione ‘Fabrica’ di Treviso, che mi ha offerto una borsa di studio e la possibilità di incidere il mio primo album», racconta felice il ragazzo. Così è nato ‘Sham’, che già nel titolo, riproponendo l’antico nome di Damasco, racchiude l’amore di Alaa per il suo Paese. «Ora il mio sogno è quello di aprire un’altra galleria d’arte come quella creata da mio padre – spiega Alaa –. Un luogo dove le persone possano parlare attraverso l’arte». È convinto che l’Italia e Milano siano il posto giusto per realizzare questo progetto.

In Siria le nuove catacombe dei cristiani

Tra vicini di sepolcro la convivenza non è facile. Nella tomba al piano di sotto hanno dovuto arrangiarsi, facendo del sarcofago un letto matrimoniale. Nella catacomba accanto, i loculi di notte si trasformano in cuccette, di giorno in dispensa. Sopra, a un palmo dalla testa, sulla terra che era dei vivi ma che in cinque anni ha visto straziare mezzo milione di vite, intanto si spara mentre dall’alto precipitano tonnellate di esplosivo che fanno sembrare le catacombe una miniera sul punto di crollare. L’olocausto siriano è anche questo. La guerra sotterranea che i satelliti militari non riescono a vedere.

Nei villaggi sulla strada che conduce a Idlib e Aleppo nessuno sa dire con esattezza quanti siano i civili costretti a una vita da topi. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che le catacombe vecchie di duemila anni un giorno sarebbero tornate utili per popolarsi di cristiani perseguitati. Come ai tempi di Paolo di Tarso, che prima della conversione si dice avesse inseguito i primi cristiani fino in Siria. Nell’attesa che a Ginevra si trovi un accordo per il cessate il fuoco e l’ingresso di consistenti aiuti umanitari, una fonte delle Nazioni Unite conferma che si sta lavorando a un piano per «paracadutare cibo e kit sanitari da aerei cargo, come è avvenuto in altre aree di crisi». Per le gente dei sepolcri riemergere allo scoperto potrebbe, però, essere un suicidio.

«È capitato che qualcuno di noi uscisse di giorno per andare a cercare cibo o legna per scaldarsi, ma poi non è più tornato indietro», racconta una ragazza che ha scelto di fuggire verso il confine turco ma ora è bloccata dai gendarmi. Tra i combattenti anti-Assad e tra i militari governativi la questione è nota. Oltre alle antiche catacombe e ai cimiteri rupestri, sono stati scavati tunnel e grotte che però non danno ricovero ai profughi, ma un riparo ai combattenti. Non è raro sentir parlare di città e quartieri nascosti: «Sotto Darayya c’è un’altra Darayya; sotto Dzhobar c’è un’altra Dzhobar; sotto Harasta, un’altra Harasta ».

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Da Aleppo fonti differenti confermano una notizia spaventosa. I miliziani governativi a mano a mano che conquistano un villaggio, prima di andarsene allagano qualsiasi galleria o cavità sotterranea. Lo scopo è quello di affogare chiunque ci sia dentro, mujaheddin o sfollati non importa. Nelle catacombe si spera e si prega. «Avevamo trovato delle ossa in alcune nicchie – racconta un contadino di Furaykah, nella Siria nord occidentale –, ma le abbiamo portate via e sepolte fuori». Uno spasso per i cani randagi. Altri reperti finiscono invece al mercato nero. Uno scempio che potrebbe cancellare la memoria visibile dei primi martiri cristiani d’Oriente. Ma in guerra l’unica cosa che conta è sopravvivere. O almeno provarci. Mettetevi nei panni di un padre che ha visto la moglie partorire su una pietra tombale. O di una madre che non ha una sola goccia di latte per i bambini. Anche a costo di fare un patto con il diavolo, che sia di al-Qaeda o di un altro gruppo non importa, rivendere reperti può essere un modo, spesso l’unico, per arrivare a domani.

«Anche noi siamo martiri. Vivi ma martiri», dice il pastore che tra le tombe sotterranee ha portato anche le capre. D’inverno scaldano i cunicoli, danno il latte per i bambini, e alla bisogna qualcuna sparisce dal gruppo per riapparire nelle zuppe di pane raffermo. A pagare il prezzo più alto sono i civili finiti tra il martello dei bombardieri russi e l’incudine dei miliziani di ogni colore. Secondo Medici senza frontiere (Msf) si stanno creando le condizioni per una catastrofe umanitaria. «Circa centomila persone sono intrappolate vicino ad Azaz (a 30 chilometri da Aleppo): tentano di scappare, ma sono bloccate – ha detto la direttrice delle operazioni di Msf, Raquel Ayora – tra la linea del fronte e la frontiera».

E non è che una minoranza. La popolazione viene usata come arma non convenzionale per spostare il baricentro di uno scontro che è già casa per casa. L’Onu stima che il numero di chi ha dovuto lasciare le proprie abitazioni ma sia rimasto nel Paese arrivi a 6,6 milioni. In generale 4,5 milioni di siriani vivono oggi in povertà estrema, secondo dati aggiornati della Croce rossa internazionale. Nel cimitero dei vivi non si aspetta la morte. Si aspetta solo che smettano. Ma è tra i sepolcri e i loculi che si capisce come, se questa è la vita di un siriano, non ne sappiamo ancora abbastanza dell’orrore che dev’essere morire quaggiù.

Avvenire

Siria pace possibile

«La pressione va concentrata su due fronti: coinvolgere il regime nell’apertura di corridoi umanitari e, con l’avvio del negoziato, ottenere cessate il fuoco che possano attenuare la tragedia in corso». E chiaro il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sul fatto che la crisi siriana, l’assedio delle città, il dramma della popolazione che non riceve aiuti e muore di fame, siano problemi davanti ai quali la comunità internazionale non può fuggire.

«In queste settimane – dice riferendosi all’attività dell’Italia – abbiamo partecipato alle operazioni quando si sono create le condizioni per aprire corridoi umanitari. È successo in questo inizio d’anno in un paio di occasioni e noi siamo stati tra i Paesi più presenti. Anche se purtroppo, va detto, negli ultimi mesi la disponibilità del regime siriano ad aprire vie d’entrata si è rivelata piuttosto limitata. A Madaya, però, si è riusciti ad arrivare anche grazie alla mediazione della Russia. Il dramma umanitario è però lì, davanti agli occhi di tutti: non solo le vittime e il dramma degli sfollati. Sei anni fa quasi 3 milioni di ragazzi andavano a scuola, oggi c’è una generazione perduta. Quindi il primo imperativo è far crescere l’aiuto umanitario».

Riguardo all’alleggerimento delle sanzioni internazionali aggiunge: «In Siria si muore per la guerra. Le sanzioni possono essere discutibili e noi italiani siamo sempre stati prudenti nel considerarle risolutive. Ma qui stiamo parlando, purtroppo, di una delle guerre più feroci e che infuria da cinque anni, che ha prodotto oltre 100mila morti e milioni di rifugiati. Attenzione quindi a non spostare il bersaglio da chi le responsabilità di questa situazione le ha il regime di Bashar al-Assad, Daesh, al-Nusra, i terroristi». Sul negoziato rinviato a Ginevra di qualche giorno è però fiducioso. Anzi è convinto che «se parte il tavolo del negoziato a Ginevra l’obiettivo di porre fine alla guerra entro quest’anno diventa realistico».

Per quanto riguarda la crisi libica ribadisce invece l’appoggio al nuovo governo libico e la necessità dell’approvazione dell’esecutivo Sarraj da parte dei Parlamento. In caso di fallimento l’Italia però non tollererà un Paese in mano alla criminalità e al terrorismo. Non è concepibile, conclude, «una Somalia a due-trecento chilometri da casa allora l’Italia ha il diritto e il dovere di difendersi e valutare come farlo. Ma non è oggi nella nostra agenda: la comunità internazionale oggi è impegnata per la stabilizzazione del Paese».

avvenire

Madaya, nella città assediata da Assad si muore di fame. In 40mila senza cibo

I bambini che mangiano le foglie dagli alberi. Altri che, raccontano gli attivisti, si cibano di cani e gatti. Gli oltre 40mila civili intrappolati da mesi a Madaya, località a ovest di Damasco circondata dalle milizie sciite di Hezbollah, continuano a patire la fame e il freddo, mentre l’Onu annuncia di aver ottenuto dal governo siriano l’assicurazione che un convoglio umanitario potrà raggiungere l’area sottoposta a un assedio medievale da parte del regime siriano sostenuto da Russia e Iran. Melissa Fleming, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), ha detto che il governo siriano si è impegnato a “permettere alle organizzazioni umanitarie di raggiungere Madaya, dove è previsto l’arrivo dei primi aiuti nei prossimi giorni”. Damasco non ha finora confermato né smentito. Da giorni circolavano in rete e sui media video e immagini shock – la cui autenticità non era sempre verificabile in maniera indipendente – di bambini e anziani denutriti, colpiti da malattie e disagi dovuti alla mancanza di cibo e medicinali. Secondo fonti mediche locali, nelle ultime settimane 20 persone sono morte di stenti nella città situata sulle montagne che separano il Libano dalla Siria. “Almeno 42mila persone rimangono a Madaya e sono a rischio di inedia”, ha affermato Yaqoub al Hillo, il più alto rappresentante Onu presso il governo siriano. Hillo ha ricordato che i 40mila di Madaya sono solo un decimo dei 400mila da tempo intrappolati in località sotto assedio in diverse zone della Siria. La maggior parte delle aree sono circondate da truppe governative o dalle milizie locali o straniere alleate a Damasco. In altri casi, come a Dayr az Zor nell’est del Paese, l’Isis assedia sobborghi controllati dalle truppe del regime. Nel caso di Fuaa e Kafraya, nel nord-ovest del Paese, miliziani delle opposizioni e loro alleati qaidisti assediano le due località a maggioranza sciita e difese anche dagli Hezbollah. Proprio il destino dei 30mila civili assediati a Fuaa e Kafraya è legato ai 40mila di Madaya. Qui rimangono asserragliati gli ultimi combattenti di Zabadani, il principale centro urbano che nel 2012 si era rivoltato contro il regime e che costituiva una minaccia ai lealisti. Dopo l’assedio e la conseguente distruzione quasi completa di Zabadani da parte di Hezbollah l’estate scorsa, i resistenti locali erano stati lasciati fuggire a Madaya. L’accordo per l’evacuazione di Zabadani prevedeva anche la messa in salvo dei civili di Fuaa e Kafraya. Ma l’avvio della campagna aerea russa dal 30 settembre ha rallentato l’applicazione dei punti della tregua e, di fatto le due cittadine sciite sono rimaste sotto assedio. Da qui, la decisione di Hezbollah e di Damasco di affamare letteralmente Madaya per premere sulle opposizioni. Madaya è da giorni sotto una coltre di neve. In città manca il combustibile per riscaldare le case. Mancano anche latte, riso, farina. Ad approfittarne sono i contrabbandieri che al mercato nero vendono i beni di prima necessità a prezzi esorbitanti: un chilo di farina è a 90 euro, un litro di latte a 25, un chilo di riso a 80. Come già successo nei sobborghi di Damasco assediati dal regime, nel campo palestinese di Yarmuk o nella città vecchia di Homs per oltre due anni circondati dai governativi, a Madaya si registrano casi di famiglie costrette a mangiare foglie degli alberi, a cibarsi dei pochi gatti rimasti in città. “Speriamo di arrivare prima che altre persone muoiano di fame”, ha affermato oggi Melissa Fleming dell’Unhcr..

 

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Siria Assalto Is a campo profughi alla periferia di Damasco

Combattenti dello Stato islamico hanno preso il controllo di ampie aree del campo profughi palestinesi di Yarmuk, alla periferia di Damasco. Lo denuncia
l’Osservatorio siriano per i diritti umani, ong con sede in Gran Bretagna, legata agli attivisti delle opposizioni siriane.

“Lo Stato Islamico ora controlla la maggior parte del campo di Yarmuk”, ha detto all’agenzia di stampa Dpa Rami Abdel-Rahman, capo dell’Osservatorio. Le notizie della ong non sono verificabili in modo
indipendente. Secondo gli attivisti, all’interno del campo profughi
sono in corso scontri tra jihadisti e miliziani palestinesi.

Stando a fonti palestinesi citate dall’agenzia di stampa Xinhua, l’Is
controlla la parte sud del campo profughi. Khaled Abdul Majid, capo
del Fronte di lotta popolare palestinese (Ppsf), ha spiegato che i
jihadisti hanno attaccato Yarmuk dal vicino distretto di Hajar
al-Asawad. I jihadisti, secondo attivisti citati dalla stessa Xinhua,
hanno anche attaccato l’ospedale palestinese. La zona sud del campo
profughi sarebbe quella più popolata.

Il campo di Yarmuk, così chiamato anche se si tratta di un vasto quartiere di Damasco, è assediato da due anni dalle truppe lealiste e palestinesi fedeli al regime siriano, mentre all’interno resistono forze ribelli e palestinesi loro alleate.

La situazione per i circa 18mila civili che ancora vivono a Yarmuk è drammatica a causa della scarsità di cibo e di assistenza sanitaria. Un anno fa numerose persone sono morte di fame, tra le quali anche diversi bambini.

avvenire