Maturità: al momento del colloquio mascherina verrà tolta

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Agli orali i maturandi porteranno la mascherina come previsto dalle norme ma nel momento del colloquio verrà fatta loro togliere.

“Per gli scritti è una questione di rispetto indossare una mascherina chirurgica anche rispetto a chi ha fagilità -spiega all’ANSA Cristina Costarelli presidente Anp Lazio-, per gli orali è un falso problema: il cadidato sarà a due metri di distanza dalla commissione.

Non abbiamo un nuovo protocollo anticovid sugli esami; i precedenti sono ormai superati anche dalla fine dello stato di emergenza.Il candidato è dunque autorizzato mentre parla a non indossare la mascherina.Attendiamo indicazioni scritte”. Per il sottosegretario all’Istruzione Rossano Sasso (Lega), “può essere un’opzione da valutare l’ipotesi di far tenere la mascherina ai maturandi solo per gli scritti e non per gli orali: ricalcherebbe un pò quanto accade in Parlamento: deputati, senatori e membri del Governo la indossano quando sono seduti al proprio posto e la abbassano quando sono chiamati a intervenire.
Personalmente sarei per indossarla solo quando si gira nei corridoi e in caso di assembramenti, ma al ministero della Salute hanno evidentemente una preclusione nei confronti del mondo dell’istruzione: hanno tolto le restrizioni dappertutto tranne che a scuola. Mi sembra evidente che ci sia un pregiudizio ideologico”, conclude Sasso. (ANSA).

 

Ucraina, Valerie e l’abito rosso per il diploma davanti alle macerie della sua scuola

L’immagine è di sicuro effetto: una ragazza vestita di rosso fiammante, con un abito da sera, circondata da macerie.

La storia dietro la foto è difficile da verificare in maniera indipendente, ma anch’essa, così come viene raccontata, è di sicuro impatto: siamo in Ucraina, a Kharkiv, la giovane che posa circondata dalla distruzione è Valerie, ha 16 anni e in questi giorni avrebbe dovuto partecipare al ballo della scuola per la fine dell’anno.

Della scuola rimangono solo macerie, di quella magica notte tanto sognata rimane l’abito principesco. Il resto è guerra.

L’immagine compare su un profilo di Facebook, è a nome di Anna Episheva che sullo stesso social network risulta residente a Toronto in Canada. Con questa foto Anna racconta la storia di quella che dice essere sua nipote Valerie, la liceale che con le sue amiche pianificava da tempo la notte da sogno, abiti da sera compresi… “Poi arrivarono i russi – si legge nel post su Facebook in ucraino e in inglese – La sua scuola è stata colpita e distrutta il 27 febbraio 2022. Oggi (Valerie ndr) è tornata a ciò che è rimasto della sua scuola e dei suoi piani per il diploma. Grazie mia cara Valerie, per essere forte e coraggiosa. Molto orgogliosa di te, ti amo molto”.

Da Facebook a Twitter rimbalza la determinazione dei liceali di Kharkiv che alle loro danze di fine anno non hanno voluto rinunciare, sebbene siano diventate un modo per denunciare la guerra, mostrarne la distruzione e rispondere con la speranza: e allora fra quello che resta dell’edificio scolastico 10 diplomati ballano un valzer, nella loro specialissima cerimonia che avrebbe dovuto segnare un gioioso momento di passaggio, davanti ai genitori orgogliosi e commossi in questa circostanza per più di una ragione, naturalmente filmata e postata su Twitter.

Ansa

 

«COSÌ MARIA MONTESSORI COLTIVAVA LA SPIRITUALITÀ DEI PIÙ PICCOLI»

La maestra Anna Maria Pipoli racconta la pedagogista scomparsa 70 anni fa: «Attraverso i sensi portava i bambini a uno sviluppo, la stessa cosa avviene nella catechesi. Diceva che i fossero capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali e portati naturalmente a conoscere Dio, a partire dall’ambiente che li circonda»

Laura Badaracchi
La Madonna della Seggiola troneggiava su una parete della prima Casa dei bambini fondata dalla Montessori. Il quadro ne divenne il simbolo e in seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione. (c) Archivi della Association Montessori Internationale

La Madonna della Seggiola troneggiava su una parete della prima Casa dei bambini fondata dalla Montessori. Il quadro ne divenne il simbolo e in seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione. (c) Archivi della Association Montessori Internationale

«Aiutaci, o Dio, a penetrare nel segreto del bambino, affinché possiamo conoscerlo, amarlo e servirlo secondo le Tue leggi di giustizia e secondo la Tua divina volontà». È una preghiera scritta non da una catechista o da una santa, ma dalla geniale Maria Montessori, laureata in medicina e specializzata in psichiatria, di cui il 6 maggio ricorrono i 70 anni dalla morte. Della sua passione educativa molto è stato detto, ma non altrettanto della sua profonda fede che l’accompagnò non solo nelle vicende personali, ma che ha irrorato e ispirato molti aspetti del suo metodo. Lo ricorda con dovizia di particolari ed episodi Martine Gilsoul, educatrice montessoriana di origine belga trapiantata a Roma, nella sua accurata biografia scritta in collaborazione con Charlotte Poussin e intitolata Maria Montessori. Una vita per i bambini, appena pubblicata da Giunti. «Una copia del celebre dipinto di Raffaello “La Madonna della Seggiola”, che troneggiava su una parete della prima “Casa dei bambini”, la sua prima scuola, ne divenne il simbolo. In seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione del quadro. E per la sua grande apertura mentale, Maria pensava che non ci fosse incompatibilità tra il suo approccio razionale e la religione che sua madre le aveva trasmesso. Nelle conferenze e negli scritti, non esita a fare largo uso di esempi tratti dalla Bibbia, dalle vite dei santi e dai Padri della Chiesa. Era una donna profondamente spirituale, abitata dal senso del sacro», sottolinea Gilsoul.

«Nel 1922 Maria manifesta il desiderio di creare un Centro cattolico di formazione degli insegnanti e pubblica in Italia I bambini viventi nella Chiesa. Note di educazione religiosa. Nel 1931 vede la luce La vita in Cristo e nel 1932 La Santa messa spiegata ai bambini. I tre volumi, che avevano tutti ricevuto l’imprimatur, costituiscono un metodo di insegnamento religioso». Inoltre la Montessori criticava «il metodo tradizionale di insegnare la religione “con le parole”: riteneva infatti che la religione dovesse far parte della vita». Anche perché, come lei stessa scrive, «i bambini sono così capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali, che la loro intuizione ci ha fatto pensare ad un periodo sensitivo religioso: la prima età sembra congiunta con Dio come lo sviluppo del corpo è strettamente dipendente dalle leggi naturali che lo stanno trasformando».

Lo ricorda con dovizia di particolari ed episodi Martine Gilsoul, educatrice montessoriana di origine belga trapiantata a Roma, nella sua accurata biografia scritta in collaborazione con Charlotte Poussin e intitolata Maria Montessori. Una vita per i bambini, appena pubblicata da Giunti. «Una copia del celebre dipinto di Raffaello “La Madonna della Seggiola”, che troneggiava su una parete della prima “Casa dei bambini”, la sua prima scuola, ne divenne il simbolo. In seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione del quadro. E per la sua grande apertura mentale, Maria pensava che non ci fosse incompatibilità tra il suo approccio razionale e la religione che sua madre le aveva trasmesso. Nelle conferenze e negli scritti, non esita a fare largo uso di esempi tratti dalla Bibbia, dalle vite dei santi e dai Padri della Chiesa. Era una donna profondamente spirituale, abitata dal senso del sacro», sottolinea Gilsoul.

Maria Montessori a Londra nel 1951 visita la Gatehouse School dove utilizzano il suo metodo di insegnamento.(c) Archivi della Association Montessori Internationale

Maria Montessori a Londra nel 1951 visita la Gatehouse School dove utilizzano il suo metodo di insegnamento.(c) Archivi della Association Montessori Internationale

Così a Roma, dopo la sua morte, l’insegnante montessoriana Gianna Gobbi e la biblista Sofia Cavalletti hanno messo a punto La catechesi del Buon Pastore, rivolta ai bambini a partire dai 3 anni, adottata anche da tanti docenti di religione e di sostegno.

Come la 67enne Anna Maria Pipoli, per 42 anni maestra di scuola primaria a Foggia. «Maestra» vuole essere definita, anche ora che è in pensione e fa la formatrice montessoriana di altri colleghi: ha sposato il metodo montessoriano anche nelle ore di religione, sperimentando concretamente con materiali bidimensionali e tridimensionali che i bambini apprendono con estrema facilità il linguaggio e il significato delle parabole evangeliche, come la perla preziosa e il seme piantato nella terra, e restano affascinati dalla storia della salvezza, dai simboli presenti nella liturgia.

La tomba di Maria Montessori a Noordwijk nei Paesi Bassi.a Noordwijk (Paesi Bassi). (c) Archivi della Association Montessori Internationale

La tomba di Maria Montessori a Noordwijk nei Paesi Bassi.a Noordwijk (Paesi Bassi). (c) Archivi della Association Montessori Internationale

«I bambini erano sempre attenti e coinvolti, usando i materiali messi a loro disposizione: dalle sagome del pastore con l’ovile e le pecore al cofanetto con la perla preziosa, dal piccolo granello di senape al lievito messo nella farina sul tavolieri per fare il pane. «Siamo chiamati a spargere semi senza indagare e interrogare: nessuna verifica. È il tempo che dice cosa sei riuscita a trasmettere nel profondo, nel cuore del bambino. Siamo come i servi inutili del Vangelo», sottolinea la maestra. «Maria Montessori diceva che il bambino è portato naturalmente a conoscere Dio, a partire dall’ambiente che lo circonda. Attraverso i sensi portava i bambini a uno sviluppo, la stessa cosa avviene nella catechesi. Bisogna offrire materiali sensoriali per assorbire questi valori, anche con i diorami (riproduzioni di varie scene in scala ridotta, ndr): così nei bambini scaturisce il contatto con il loro maestro interiore. Si pongono loro delle domande, si chiede cosa ne pensano, si stimola l’interiorizzazione e autoanalisi senza portarli dove vogliamo noi. Possono esprimere i loro pensieri con disegni o durante il colloquio». Con un atteggiamento costante da adottare: «La pedagogia dell’attesa. Ce l’ha trasmessa Maria Montessori», convinta che i bambini fossero capaci «di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali».

Famiglia Cristiana

Basket & fede. Quando Kobe andava a scuola dalle suore di S. Vincenzo a Reggio Emilia nella Parrocchia di S. Stefano

Christopher Goldman Ward racconta in un libro l’amicizia con il campione di basket scomparso due anni fa, quando il “Mamba” bambino ha vissuto a Reggio Emilia tra sfide a canestro e non solo

Il piccolo Kobe Bryant con gli amici di Reggio Emilia

Il piccolo Kobe Bryant con gli amici di Reggio Emilia – (Baldini + Castoldi)

Prima del tragico schianto, il 26 gennaio 2020, Kobe Bryant era a Messa con sua figlia. Come ogni domenica. Perché non viene mai ricordato abbastanza ma l’ex fuoriclasse del basket Nba, morto a soli 41 anni, custodiva dentro di sé il dono della fede cattolica. Se non prendiamo in considerazione questa dimensione continueremo a tratteggiare l’identikit di una leggenda della pallacanestro solo come un uomo prigioniero del suo ego e del suo professionismo maniacale. Mentre sappiamo, perché l’ha confidato lui stesso più volte, che la fede lo aveva salvato nei momenti più bui della sua vita. Sia quando per le sue infedeltà aveva rischiato di mandare in frantumi il matrimonio con sua moglie Vanessa, procurandole anche un aborto spontaneo per le tensioni di quel periodo. E sia quando dovette fare i conti con l’accusa di stupro (poi archiviata): «Avevo venticinque anni. Ero terrorizzato. L’unica cosa che mi ha aiutato davvero durante quel processo sono cattolico, sono cresciuto come cattolico, i miei figli sono cattolici – è stato parlare con un sacerdote. E lui mi disse: “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare, e ora è tutto nelle sue mani. È una cosa che non puoi controllare, quindi lascia stare”. E quello è stato il punto di svolta».

Un ulteriore riscontro dell’educazione ricevuta da Kobe arriva adesso da un libro scritto da un suo amico d’infanzia, Christopher Goldman Ward, nel periodo in cui il piccolo Bryant ha vissuto in Italia. Prima infatti di diventare un campione di fama mondiale, Kobe dai sei ai tredici anni ha vissuto nel nostro Paese. Per via di suo padre Joe, cestista professionista che ha vestito le canotte di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. In Italia ha imparato a leggere e scrivere e anche a tirare canestro. E non ha mai dimenticato quegli anni. Un passato di cui andava fiero, come testimoniano i nomi delle figlie: oltre a Gianna Maria (scomparsa con lui a soli 13 anni), Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe. E poi la bellezza dei nostri luoghi, il tifo per il Milan, gli amici che aveva lasciato e che spesso tornava per riabbracciare. Un mondo di ricordi che affiora ora anche in questo volume Il mio Kobe. L’amico diventato leggenda (Baldini + Castoldi, pagine 158, euro 17). L’autore, Ward, nato a Varese, da padre americano e madre italiana, racconta il periodo vissuto insieme a Reggio Emilia e un legame rimasto nel tempo. Aveva 11 anni quando in palestra arrivò quel «mingherlino» di un anno più piccolo ma che tutti già descrivevano come un fenomeno del basket. Un ragazzino così determinato, che non aveva dubbi sul fatto che un giorno avrebbe calcato i parquet dei sogni a stelle e strisce. Così come poi fece nel 1996 esordendo con i suoi Lakers, tra la meraviglia e l’orgoglio dei suoi amici italiani di un tempo a cui non sembrava vero fosse proprio il loro Kobe in Tv con la canotta gialloviola. Quante volte, ricorda Ward, si erano sfidati tra di loro in interminabili uno contro uno. Non solo a canestro, ma anche ai migliori videogiochi che impazzavano negli anni Ottanta. E poi i tanti pomeriggi a casa Bryant a Reggio Emilia, dove bastava varcare la soglia per respirare aria statunitense.

Un capitolo curioso, che sembra incidentale, ma si rivela invece significativo, è quello del piccolo Kobe a scuola dalle suore. Perché come annota Ward: «Pam e Joe (i genitori di Kobe, ndr) volevano per i figli non solo un’istruzione ma anche un’educazione ai valori cristiani e scelsero l’istituto San Vincenzo de’ Paoli». È qui che la futura star del basket maturò una solida preparazione culturale oltre a una certa sensibilità per le cose della vita. Mostrava già da bambino un’attenzione per i più deboli e sin da piccolo si vedeva che era un vero perfezionista. Un culto della disciplina quasi ossessivo su cui ha costruito la sua fantastica carriera: cinque titoli Nba con la sua unica squadra, i Los Angeles Lakers, due ori olimpici e una serie impressionante di record personali. Eppure anche il “Black Mamba” (il soprannome che lui stesso si era scelto) aveva dovuto riconoscere che i superuomini non esistono. Prima o poi facciamo tutti i conti con le nostre debolezze. Ma nel momento più duro Kobe aveva colto il segreto del cristianesimo, il pentimento e la forza per rialzarsi. E quella mattina era a Messa ancora una volta per ringraziare Chi gli aveva ridato la gioia di vivere togliendogli dal cuore pesi che sembravano più grandi di lui.

Avvenire


Di seguito la testimonianza di un parrocchiano di S. Stefano (Reggio Emilia città):

“Lo ricordo bene. Era spesso in cortile a giocare a basket. Faceva arrabbiare don Vasco perché si attaccava ai canestri. Giocava in squadra con mio figlio, anche se di un anno più giovane, e a volte noi genitori lo riprendevamo perché era un po’ troppo indipendente. Gia allora aveva un solo obiettivo fisso: andare a giocare in NBA. Ci è riuscito ed è diventato un campione ed anche un padre affettuoso.
Poi il Signore lo ha chiamato!”

“C’era una volta”: gli attori leggono le favole ai bambini in ospedale

Foto di gruppo degli attori all'Ospedale Bambino Gesù per la rassegna "C'era una volta"

La rassegna di letture per i più piccoli nei nosocomi pediatrici italiani, a cura della Fondazione De Sanctis, è stata inaugurata all’Ospedale Bambino Gesù da un gruppo di volti popolari del cinema e della tv italiani
Vatican News

L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma ha inaugurato, questa mattina, la rassegna C’era una volta, a cura della Fondazione De Sanctis in collaborazione con AOPI (Associazione Ospedali Pediatrici Italiani). La rassegna porta attori e attrici italiani, tra i più amati dal pubblico, negli ospedali pediatrici d’Italia per raccontare le fiabe della tradizione ai piccoli pazienti.
Nello spazio del Castello dei giochi I bambini hanno accolto con grande con gioia ed emozione gli attori e le attrici intervenuti: Raoul Bova, Paolo Calabresi, Cristiana Capotondi, Matilda De Angelis, Giorgio Pasotti, Pif e Benedetta Porcaroli. Hanno indossato le magliette e il cappellino “C’era una volta”, hanno chiesto gli autografi e una foto ricordo con i loro idoli. Gli attori hanno raccontato le fiabe ai piccoli ricoverati del Bambino Gesù di Roma, donando un momento di evasione e una emotiva carezza a loro e ai loro genitori.
Ha iniziato seduto tra i piccoli, Giorgio Pasotti con “Biancaneve e i sette nani”, seguito da Benedetta Porcaroli con la “Volpe e la cicogna”.
Tutti i protagonisti hanno letto le favole avvicendandosi nei vari reparti dell’ospedale pediatrico: oltre al Castello dei giochi anche in Oncologia, Cardiologia, Traumatologia, Pediatria Generale, Dialisi, Fibrosi Cistica/Reumatologia. Paolo Calabresi ha letto una favola scritta da lui “La pancia dell’aeroplano”, mentre Pif ha letto “La lepre e la tartaruga “. Cristiana Capotondi si è cimentata con “Pinocchio”, Matilda De Angelis con “Giacomino e il fagiolo magico”, Raoul Bova ha letto “Raperonzolo”.

vatican news

Il gran compito di pace della scuola. Dove s’impara a vivere insieme

La guerra, drammaticamente tornata in Europa da quasi due mesi, smentisce ulteriormente quell’idea della «fine della storia» che si era fatta strada dopo il crollo del sistema sovietico nel 1989. Certamente la caduta del Muro aprì per la prima volta la prospettiva che sarebbe esistita un’unica umanità. Si poteva sognare un mondo dove non c’erano più nemici, un mondo senza guerre.

La globalizzazione è certamente interdipendenza, ma proprio per il suo carattere aperto, è anche «società globale del rischio», come ha evidenziato Ulrich Beck. È imparare a convivere con il caos, con le imprevedibilità della storia. Ha scritto il politologo americano, Fareed Zakaria: «Il sistema globale in cui viviamo è aperto e dinamico, il che significa che dispone di pochi ammortizzatori, e questo produce grandi benefici, ma anche vulnerabilità.

Dobbiamo adeguarci alla realtà di un’instabilità sempre maggiore, e farlo adesso». E del resto, come ha compreso e spiegato bene Zygmunt Bauman, il nostro è un tempo liquido, e le società in cui viviamo sono così tanto composte da ‘monadi’ – persone sole, spesso autoreferenziali, senza più legami forti – che temono e insieme rimpiangono gli ancoraggi e le reti del passato. Qui entra in gioco la capacità di costruire percorsi di resilienza e di consolidamento.

E uno dei luoghi fondamentali dove già si strutturano tali percorsi, e dove ne vanno implementati di nuovi è la scuola. I bambini, gli adolescenti e i giovani manifestano una capacità di ‘resistenza positiva’, una naturale dinamica associativa che sarebbe opportuno sostenere. L’attitudine alla resilienza nell’età più verde è un aspetto importante della pedagogia. Che oggi, di fronte alla guerra, ma anche alle nuove sfide poste dalla globalizzazione e dalla modernità liquida, va riscoperto con intelligenza e promosso con tenacia.

Tra guerra e globalizzazione si scorge infatti la vera, grande sfida, quella del vivere insieme. Le migrazioni hanno profondamente cambiato la fisionomia delle città europee e non solo. In spazi stretti si concentrano diversità enormi, di cultura, stile di vita, religione. La differenza abita alla porta accanto, il mercato di quartiere, una corsia d’ospedale, un istituto penitenziario, le aule scolastiche, i servizi sociali sul territorio. Nelle periferie europee, da Bruxelles a Barcellona, da Parigi a Berlino, la condizione degli immigrati e dei loro figli si fa faticosa sotto il peso di ricorrenti ondate di ostilità. È necessario prevenire la violenza.

Imparare a vivere insieme è sempre di più, nel mondo di oggi, il volto della pace. I nazionalismi non sono finiti nel dimenticatoio, l’impulso all’uso della forza per la soluzione dei problemi internazionali non è sotto controllo, piccoli scontri di civiltà si accendono ancora anche nei nostri quartieri. Ecco perché, dopo tanti anni e profondi cambiamenti sociali ed economici, l’impegno a educare i più giovani alla convivenza pacifica va rafforzato. La scuola in Italia e in Europa si trova a fronteggiare problemi antichi e nuovi, ma il bisogno di luoghi dove si ‘insegni’ la pace è, se possibile, cresciuto.

Per limitarci alla nostra Penisola, lo spazio proprio che la più recente normativa ha inteso dare all’educazione alla cittadinanza, e la sua evidente trasversalità, possono essere un segnale importante rivolto a tutto il personale docente perché tra i programmi e le attività si trovi il modo di educare alla convivenza nella diversità e al riconoscimento dell’altro.

L’educazione alla pace può essere, poi, un quadro di riferimento generale, complementare, in grado di innervare tutte le discipline, di informare gli obiettivi tanto espressivi quanto comportamentali che vengono definiti a livello collegiale. E potrà essere molto utile collegare l’educazione alla pace svolta ‘in classe’ con le iniziative portate avanti sul campo dai più diversi soggetti, tanto istituzionali quanto non formali.

Per esempio, rafforzando quella collaborazione tra scuola e territorio già avviata in tanti istituti scolastici con i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento. Una scuola di pace e per la pace è davvero il modo migliore per orientarsi verso un futuro che si presenta irto di ostacoli al vivere insieme.
Avvenire

Scuola, fuga dal sostegno. Il Nord senza insegnanti

anca un mese e mezzo all’inizio delle prove, ma già si sa che anche il settimo ciclo del Tfa per il sostegno non porterà in cattedra tutti gli insegnanti abilitati di cui le scuole, soprattutto quelle del Nord, avrebbero bisogno. Basta leggere i numeri dei posti messi a disposizione dalle università, deputate alla formazione di questa categoria di docenti, per rendersi conto che, anche il prossimo anno scolastico, migliaia di alunni disabili si troveranno un insegnante di sostegno precario e, nella maggioranza dei casi, pure non abilitato a svolgere questa delicatissima e decisiva funzione per una vera inclusione e non discriminazione di questa parte di popolazione scolastica che, complessiva-mente, è composta da quasi 278mila bambini, ragazzi e adolescenti, dall’infanzia alle superiori.

Sulla base delle risorse messe a disposizione dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel triennio 2021-2024 saranno formati in tutto 90mila insegnanti di sostegno, 25.874 dei quali con i corsi del VII ciclo di Tfa ( Tirocinio formativo attivo), i cui test preselettivi si svolgeranno tra il 24 e il 27 maggio a seconda dell’ordine e del grado scolastico. Un numero ampiamente sufficiente a coprire il fabbisogno di posti di sostegno vacanti in organico (16.574, secondo le ultime stime della Cisl Scuola). Se non fosse che sono così mal distribuiti, da creare delle vere e proprie emergenze nelle regioni settentrionali. Dove le università hanno attivato un numero di posti in formazione del tutto inadeguato a soddisfare la domanda delle scuole, pur avendolo aumentato di oltre un migliaio rispetto al precedente ciclo di TM fa. E questo, nonostante il Ministero dell’Università e della Ricerca, in una circolare di metà dicembre 2021, avesse chiesto «un’ampia partecipazione volta a coprire il fabbisogno dei docenti specializzati sul sostegno didattico ». Ma così, al Nord, non sarà. Nonostante, è sempre la Cisl a sottolinearlo, quest’anno i posti vacanti destinati al ruolo fossero il 63% del totale, e di questi ne siano stati coperti appena il 20%.

In Lombardia, per esempio, a fronte di 5.700 posti vacanti, saranno attivati 1.240 posti di Tfa (il 21,75%), mentre in Piemonte l’offerta di formazione delle università è di 450 posti, il 17,23% dei 2.611 posti vacanti. Va un po’ meglio in Veneto, dove i 920 posti di Tfa arriveranno a coprire il 42,89% delle 2.145 cattedre scoperte, mentre in Liguria ed Emilia Romagna si arriverà rispettivamente al 47,28% e al 47,31% grazie a 330 e 800 posti di Tfa, rispetto ai 698 e 1.691 posti vacanti.

Al Sud, invece, la situazione è rovesciata. Così, per esempio, in Calabria, a fronte di 73 cattedre di sostegno scoperte, le università regionali attiveranno 2.070 posti di Tfa (il 2.835,62% in più) e lo stesso vale per la Sicilia: 184 posti scoperti e 5mila posti di Tfa (2.717,39% in più). È un caso anche la Basilicata, che ha poco meno dei posti di Tfa del Piemonte (400 contro 450), ma, con appena 23 cattedre vacanti, arriverà a superare del 1.739,13% il fabbisogno di insegnanti di sostegno delle scuole del territorio. E si potrebbe continuare con l’Abruzzo, la Puglia e la Campania che hanno un’offerta di posti in formazione di oltre il mille per cento superiore alla domanda di insegnanti di sostegno degli istituti scolastici.

«Perché le università del Nord non riescono ad attivare i posti necessari?», chiede Ivana Barbacci, segretaria

generale della Cisl Scuola, sindacato che ha (nuovamente) sollevato la questione. «Da anni denunciamo questa situazione sempre più insostenibile – ricorda la leader sindacale –. Finora nulla è cambiato, quindi il tema va nuovamente posto all’attenzione di tutti affinché nei prossimi due anni, che vedranno l’attivazione di altri 64mila Tfa, si possa raggiungere una distribuzione dei percorsi più equa e rispondente ai bisogni di tutti gli alunni del Paese». La soluzione potrebbe essere quella indicata dal rettore dell’Università di Foggia e coordinatore della Commissione Crui sulla formazione degli insegnanti, Pierpaolo Limone. «Ho passato la vita a formare insegnanti di sostegno – ricorda –. È una professione molto difficile, che necessita di una preparazione specifica e accurata. Che, però, al Nord incontra una domanda di formazione inferiore rispetto al Sud e, di conseguenza, anche le università adeguano la propria proposta formativa. Per invertire la tendenza si deve rendere più attraente questa professione, che senz’altro merita un riconoscimento, sociale ma anche economico, migliore. Insomma: rispetto alla specializzazione richiesta loro e alle responsabilità che sono chiamati ad assumersi, gli insegnanti di sostegno sono malpagati. Questo vale per l’intera categoria degli insegnanti, ma è ancora più evidente per i docenti di sostegno». Il cui fabbisogno, ricordano dal Ministero dell’Università e della Ricerca, «è calcolato su base nazionale » ed è caratterizzato, come l’intero sistema scolastico, da una «forte mobilità interregionale ». In pratica, tanti insegnanti di sostegno che prenderanno l’abilitazione in un’università del Sud, saranno costretti a trasferirsi in un istituto del Nord, continuando così ad alimentare un altro annoso problema della scuola italiana, che è quello degli «insegnanti con la valigia». Pendolari dell’istruzione destinati, prima o poi, al trasferimento, con tanti saluti alla continuità didattica, requisito fondamentale anche e soprattutto per gli alunni disabili.

«Anche il prossimo anno scolastico – denuncia Ernesto Ciracì, presidente di Misos, l’associazione degli insegnanti di sostegno abilitati – tantissimi alunni disabili del Nord avranno insegnanti di sostegno supplenti e, in gran maggioranza, non abilitati. E questo avrà ricadute gravissime sul loro percorso formativo e di crescita personale. E sul loro diritto ad avere, come tutti, un’istruzione di qualità».

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In Piemonte e Lombardia i nuovi percorsi di formazione dei docenti arriveranno a coprire appena il 17% e il 21% delle cattedre vacanti

AUTISMO ACADEMY, LA PRIMA SCUOLA IN ITALIA PER GLI OPERATORI DEL SETTORE

Una scuola di formazione specialistica per gli operatori che lavorano con persone con autismo e gli esperti del settore. “Autismo academy” è la prima scuola di questo genere in Italia ed è stata promossa da Fondazione Sacra Famiglia Onlus insieme a Consorzio SiR-Solidarietà in Rete. Il primo percorso di formazione è partito a gennaio 2022 e offre le competenze teoriche, tecniche e pratiche per il trattamento delle persone con  disturbo dello spettro autistico.

«L’esperienza sul campo ci permette di apportare miglioramenti continui ai percorsi formativi, che diventano così sempre più vicini e rispondenti alle esigenze  e ai bisogni di ciascuno», è il commento di Monica Conti, direttore dei Servizi innovativi per l’autismo di Fondazione Sacra Famiglia. «Il nostro approccio coinvolge gruppi di lavoro multidisciplinari e abbraccia tutti gli aspetti della vita della persona con autismo: dalla famiglia alla scuola fino alla rete dei servizi territoriali. Anche per questo la formazione di Autismo academy è rivolta a diversi interlocutori, dagli operatori che da poco si affacciano sul campo dell’autismo, fino a quelli con maggiore esperienza. Il percorso formativo insegna a conoscere nel dettaglio i comportamenti disadattivi propri dell’autismo e le tecniche abilitatve per aiutare ad affrontare le difficoltà della vita, promuovendo l’autonomia della persona con autismo».

In Italia, un bambino su 77 nasce con problemi dello spettro autistico, un disturbo generalizzato e pervasivo dello sviluppo, che si manifesta nei primi tre anni di vita e che colpisce la sfera comportamentale, relazionale, cognitiva e sensoriale del bambino, rendendo problematica la sua integrazione sociale. Fondazione Sacra Famiglia offre una rete di servizi integrati e innovativi per bambini, giovani e adulti con autismo. Ogni anno assiste più di 1.000 persone in questa condizione, di cui l’84% è rappresentato da bambini e adolescenti.

Famiglia Cristiana