Ucraina, Lavrov: dal Pentagono minacce di un assassinio di Putin

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Fonte: ansa.it

– Dichiarazioni rilasciate da “funzionari anonimi” del Pentagono in merito a un “attacco decapitante” contro il Cremlino parlano di una minaccia di tentato omicidio del presidente Vladimir Putin, afferma il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in un’intervista all’agenzia Tass.

“Alcuni ‘funzionari anonimi’ del Pentagono hanno effettivamente espresso la minaccia di sferrare un ‘attacco decapitante’ al Cremlino, che in realtà è una minaccia di tentato omicidio del presidente russo”, ha detto Lavrov.

“Se tali idee sono davvero ponderate da qualcuno, allora questo qualcuno dovrebbe pensare meglio alle possibili conseguenze di tali piani”, ha affermato il ministro degli Esteri russo.
“Il corso politico dell’Occidente, che mira alla totale repressione della Russia, è estremamente pericoloso: presenta rischi di uno scontro armato diretto tra potenze nucleari”. Ha detto ancora Lavrov. Il ministro degli Esteri russo ha sottolineato che Mosca ha affermato più volte che non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare e che “non deve mai essere scatenata”. E’ l’Occidente invece che – secondo Lavrov – “con speculazioni irresponsabili” afferma “che la Russia sia presumibilmente sull’orlo dell’uso di armi nucleari contro l’Ucraina”.

A scuola per gestire i conflitti «C’è bisogno di persone migliori»

PARTE DALL’ITALIA UN PROGETTO CHE ABBRACCIA IL MONDO

La pace si costruisce a partire dai piccoli gesti di ogni giorno, dal lavoro quotidiano che, per bambini e ragazzi, consiste essenzialmente nell’andare a scuola.

È da questo luogo, allora, che deve partire una vera “educazione alla pace” in grado di coinvolgere alunni, docenti e famiglie in una rete capace di travalicare i confini italiani per abbracciare le scuole di tutto il mondo. È l’ambizioso ma necessario obiettivo dell’iniziativa lanciata dal Movimento di cooperazione educativa (Mce) e dalla Federazione internazionale dei Movimenti di scuola moderna (Fimem), che vuole dedicare l’intero anno scolastico ai temi della pace e della convivenza pacifica tra i popoli. Il progetto è stato avviato lo scorso 20 novembre, in occasione della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (il primo dei quali è proprio quello alla pace) e proseguirà fino al termine delle lezioni, a giugno, con un webinar nella primavera 2023 che vedrà protagoniste tutte le scuole aderenti.

Già in queste prime settimane, i promotori hanno ricevuto adesioni da tutta Italia e anche dall’estero (dalla Francia alla Spagna, ma anche da Sud America e Giappone) e pubblicheranno tutte le iniziative locali in un sito web dedicato.

«Il nostro modello è la scuola attiva del francese Freinet, fautore della pedagogia popolare che pone al centro il protagonismo degli alunni», spiega Roberto Lovattini, per oltre quarant’anni maestro elementare a Piacenza ed esponente del Movimento di cooperazione educativa. «Se vogliamo dare un senso al nostro stare a scuola – aggiunge l’insegnante – dobbiamo partire dall’educazione alla pace, formando cittadini in grado di costruire un mondo migliore. Donne e uomini capaci di cooperare, di mediare e in grado di risolvere i conflitti – che nella società ci saranno sempre – senza per forza ricorrere all’uso della violenza. Ma – ricorda Lovattini – la non-violenza non si improvvisa, serve un’educazione e un esercizio costanti che la scuola è in grado di garantire».

Sulla scorta degli insegnamenti di grandi maestri della pace, come don Milani, i promotori della “Rete delle scuole per la pace” sono sicuri che, così impostata, anche l’attività didattica ne trarrà beneficio. «È vero che a scuola si va per imparare – chiosa Lovattini –. Ma imparare come? Lavorando in gruppo, collaborando e aiutando chi è in difficoltà, oppure semplicemente per il voto? A scuola si va per imparare perché la società ha bisogno di persone migliori».

Di «scuola come coscienza civile della società» parla l’altro coordinatore italiano del progetto, Lanfranco Genito, insegnante napoletano e fino ad agosto presidente della Fimem.

«L’educazione civica – aggiunge – non è soltanto una materia, è un modo concreto di interessarsi a ciò che avviene intorno a sé». E in tempo di guerra è urgente interessarsi alla pace.

Giornata della Pace. Il messaggio del Papa: un “noi” aperto alla fraternità universale

Per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio: dalla guerra in Ucraina alle conseguenze del Covid. Il testo integrale
Il messaggio del Papa: un "noi" aperto alla fraternità universale
Avvenire

«Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un ‘noi’ aperto alla fraternità universale». Con queste parole papa Francesco, nel messaggio per la 56esima Giornata mondiale della pace che ricorre l’1 gennaio, ci chiede di interrogarci sul nostro futuro e sulle nostre responsabilità. Che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? È una delle sue domande, e ci ricorda che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che «il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo».

 

Il Papa rende omaggio all’impegno eroico di quanti si sono spesi nell’emergenza pandemica e ragiona di alcune «scoperte positive» come un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che «ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni».

E ancora «da tale esperienza – osserva – è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali».

Non solo il Covid, ma anche la guerra, «nuova terribile sciagura», guidata però da scelte umane colpevoli viene citata più volte nel messaggio per prossima la giornata mondiale della pace. «La guerra in Ucraina – sottolinea ancora Francesco nel messaggio – miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante». E di certo, «non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate».

Siciliani

 

Pubblichiamo di seguito integralmente il testo del messaggio per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2023.

Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace”

«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi ​5,1-2).

1. Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie.

2. Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle.

Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza.

Assieme alle manifestazioni fisiche, il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà.

Inoltre, non possiamo dimenticare come la pandemia abbia toccato alcuni nervi scopertidell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento.

Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità.

3. Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?

Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenzee anche guerre.

Mentre, da una parte, la pandemia ha fatto emergere tutto questo, abbiamo potuto, dall’altra, fare scoperte positive: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi veramente eroico, di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza.

Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali.

4. Al tempo stesso, nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia da Covid-19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità.

Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante.

Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco 7,17-23).

5. Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune.

Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace.

Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero.

A Oslo la cerimonia del Nobel per la Pace

Ucraina Premio Nobel Pace Oslo cerimonia ufficiale

© AFP
– Nella foto Oleksandra Matviichuk, Yan Rachinsky e Natalia Pinchuk, moglie dell’attivista bielorusso incarcerato Ales Bialiatski

AGI – “Non mi pento. Per i miei sogni vale pena”. Così il difensore bielorusso per diritti umani, Ales Bialiatski, Premio Nobel per la pace, alla cerimonia di consegna del riconoscimento a Oslo. Bialiatski è tuttora in carcere e il suo discorso è stato letto dalla moglie Natallia Pinchuk.

Quest’anno il premio è stato assegnato agli attivisti per i diritti umani di Ucraina, Bielorussia e Russia: il “Centro ucraino per le liberta’ civili”, la russa “Memorial” e Bialiatski, appunto, che è il presidente del centro bielorusso per i diritti umani “Viasna”. “Ales e tutti noi sappiamo quanto sia importante e rischioso adempiere alla missione dei difensori dei diritti umani, specialmente in questo tragico momento dell’aggressione della Russia contro l’Ucraina”, ha osservato Pinchuk.

Bialiatski e le due organizzazioni sono state premiate per “promuovere il diritto di criticare il potere e proteggere i diritti fondamentali dei cittadini”, e anche per i loro sforzi nel documentare i crimini di guerra, le violazioni dei diritti umani e il potere, ha spiegato la giuria del Nobel

“Putin si fermerà quando sarà fermato”, ha dichiarato ieri all’Istituto Nobel il capo del CCL Oleksandra Matviichuk ai giornalisti.

“I leader autoritari… vedono qualsiasi tentativo di dialogo come un segno di debolezza“, ha aggiunto, esortando i Paesi occidentali a continuare ad aiutare l’Ucraina a liberare i territori occupati dalla Russia, compresa la Crimea.

La CCL ha documentato i crimini di guerra commessi dalle truppe russe in Ucraina negli ultimi otto anni, crimini per i quali Matviichuk vuole che il presidente russo Putin e il suo alleato, l’uomo forte bielorusso Alexander Lukashenko, siano consegnati alla giustizia. “Questa guerra ha un carattere genocida”, ha detto in inglese.

Se l’Ucraina smette di resistere, non ci sarà più nessuno di noi. Quindi non ho dubbi che prima o poi Putin comparirà davanti a un tribunale internazionale”. Il presidente del consiglio di amministrazione di Memorial, Yan Rachinsky, si è detto d’accordo, pur rimanendo più cauto nelle sue osservazioni a causa delle sanzioni imposte da Mosca a chi critica il conflitto in Ucraina.

“L’Ucraina deve lottare per la sua indipendenza – ha detto -. L’Ucraina non sta combattendo solo per i propri interessi. Sta combattendo per il nostro futuro pacifico comune”.

Il terzo co-vincitore, Ales Bialiatski, fondatore del gruppo per i diritti Viasna, è detenuto dal luglio 2020 in attesa di giudizio a seguito della repressione di Minsk delle proteste su larga scala contro il regime.

Nonviolenza. Il giorno in cui don Tonino Bello parlò a Sarajevo

Trent’anni fa la Marcia per la pace nella capitale bosniaca assediata dall’esercito serbo
Ancona, 13 dicembre ‘92: a destra don Tonino Bello, al centro Albino Bizzotto dei “Beati i costruttori di pace”, di ritorno da Sarajevo

Ancona, 13 dicembre ‘92: a destra don Tonino Bello, al centro Albino Bizzotto dei “Beati i costruttori di pace”, di ritorno da Sarajevo – .

La nave dei “folli” si staccò dal porto di Ancona il 7 dicembre di trent’anni fa sotto un cielo da paura. A bordo del Liburnija 496 persone dirette a Sarajevo, la città bosniaca martirizzata da nove mesi e stretta sotto assedio dalle milizie serbe: un esercito di “pacifisti” armati solo del loro essere inermi, pronti ad irrompere nel cuore del conflitto per costringerlo a una tregua anche solo di ore. «In 100.000 a Sarajevo!» era lo slogan con cui don Albino Bizzotto, guida di “Beati i costruttori di pace”, aveva chiamato all’invasione pacifica della città insanguinata. Risposero in 500.


Giunto nella città assediata insieme ad altri 500, il 12 dicembre il vescovo di Molfetta tenne un discorso divenuto memorabile. Da quella tregua profetica nella guerra dei Balcani una lezione per il presente


Tra loro c’erano giovani e vecchi, credenti e atei, suore e obiettori di coscienza, anarchici e sacerdoti, anche due vescovi, Luigi Bettazzi e Tonino Bello, suo successore alla testa di Pax Christi. Ha 58 anni, don Tonino Bello, ed è minato dal cancro, ma è deciso a interporsi fisicamente tra le parti in guerra per dimostrare che la nonviolenza può funzionare. Quel 7 dicembre coloro che si imbarcano sanno bene che l’impresa può essere senza ritorno, in molti hanno cercato di farli desistere, ma loro hanno raccolto il sogno e sono partiti, nello zaino acqua e cibo per quattro giorni, poi si vedrà. La prima tappa è Spalato, 7 ore di traversata, ma l’Adriatico scatena una tempesta di tale violenza che il Liburnija, dato per disperso dalle agenzie di stampa, arriverà sull’altra sponda con 12 ore di ritardo. «Siamo passati per l’acqua e per il fuoco e il Signore ci ha liberati», dirà poi don Tonino citando la Bibbia, «l’acqua di quel mancato naufragio terrificante, il fuoco delle granate». Vogliono entrare a Sarajevo il 10 dicembre, Giornata mondiale dei Diritti umani, ma i continui posti di blocco e le estenuanti trattative con i capi militari dei diversi eserciti rallentano la marcia. Dell’arrivo della carovana è preavvisata l’Onu, sono preavvisati i rappresentanti delle fazioni in lotta, ma per i 500 non ci sarà protezione, nessuna garanzia, procederanno a loro rischio e pericolo, a bordo di dieci pullman malmessi e due ambulanze portate in dono dall’Italia, una per fronte.

L’11 dicembre l’arrivo sulla montagna innevata che sovrasta Sarajevo, ma ancora non è finita: «Una delegazione di dieci di noi si reca a Ilidža a parlamentare con le autorità militari serbe, è una trattativa lunghissima – racconta don Tonino –. Intanto la gente del posto viene sui pullman a offrirci tè caldo. Una signora serba ha visto gli autisti intirizziti dal freddo e, benché fossero croati, li ha portati a casa sua e ha offerto un pranzo per loro». È l’inizio del miracolo umano. La popolazione, prima incuriosita e poi commossa, li attornia, li abbraccia, «un uomo ha visto la mia croce al collo e l’ha baciata, poi mi ha invitato a casa sua dove era in corso il banchetto funebre per suo padre. Sono entrato e mi ha detto: “Io sono serbo, mia moglie è croata, queste mie cognate sono musulmane, eppure viviamo insieme da sempre e ci vogliamo bene. Perché questa guerra? Chi la vuole?”

A vedere quella gente seduta alla stessa mensa ho pensato alla convivialità delle differenze: questa è la pace». Infine i 500 entrano in città nel silenzio allucinato delle 7 di sera, quando ormai nessun essere umano oserebbe percorrere il “vialone della morte” crivellato dai cecchini. «Da nove mesi dopo le quattro del pomeriggio neppure le camionette dell’Onu hanno il coraggio di entrare», annota don Tonino, «ma stasera qui c’è un’altra Onu, un’Onu rovesciata ». Le bombe chiamano bombe, il loro essere lì in pace sta provando al mondo intero che un’alternativa esiste e funziona: «A questa Onu che scivola in silenzio nel cuore della guerra il cielo vuole affidare un messaggio: che la pace va osata». Siamo abituati a pensare che “osare” sia il verbo del combattere, quando per morire e ammazzare ci vuole coraggio, invece è la pace che va osata e che davvero richiede coraggio. Solo il giorno prima Sarajevo è stata colpita da tremila granate, ma per la durata in cui gli inermi percorrono il terreno di guerra è evidente che i militari hanno abbassato l’intensità del fuoco.

L’indomani, 12 dicembre, «è incredibile l’accoglienza della gente lungo le strade e dalle finestre», quel gruppo venuto da fuori significa che il mondo esterno non li ha dimenticati. Poi nel buio e nel gelo del cinema don Tonino Bello tiene il discorso destinato a restare nella storia, ad ascoltarlo anche i capi delle diverse religioni in lotta. Nel 1992 non esistono i cellulari e le autorità hanno vietato le riprese, ma don Renato Sacco, consigliere di Pax Christi, registra di nascosto consegnando al futuro un documento di rara potenza: «Questa è la realizzazione di un sogno – dice il vescovo, il corpo crocifisso dalla malattia ma lo sguardo acceso di passione – di una grande utopia che abbiamo tutti portato nel cuore, probabilmente sospettando che non si sarebbe realizzata. Ma ringrazio il Signore che, attraverso il nostro gesto folle, ha realizzato l’utopia». Parola che nel suo vocabolario significa azione che contrasta la rinuncia, movimento che contrasta la staticità: «Queste forme di utopia dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono solo le notaie dello status quo, non le sentinelle profetiche che annunciano tempi nuovi».

Le sue parole infuocano e consolano la popolazione piegata da mesi di tragedia. «Quanta fatica si fa a far capire che la soluzione dei conflitti non avverrà mai con la guerra ma con il dialogo – continua il vescovo –, abbiamo fatto fatica anche qui con i rappresentanti religiosi, perché è difficile questa idea della soluzione pacifica dei conflitti. Ma noi siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà». Per le strade ha toccato con mano «il pianto dei soldati! E questo per me è l’icona dell’anelito di pace che è sepolto nel cuore di tutti gli uomini», purché li si scrolli dalla falsa certezza che la guerra sia ineluttabile. Non ha inventato nulla. Vive il Vangelo e ripercorre le orme di san Francesco d’Assisi, salpato anche lui da Ancona 800 anni fa per frapporsi senza armi tra i crociati e i saraceni, sostenuto dal sogno di parlare al sultano e convincere i soldati a non combattere. Funziona: la presenza dei 500 da ore sta effettivamente fermando la guerra, «la nonviolenza attiva è diventata un trattato scientifico. Gli eserciti di domani – promette – saranno uomini disarmati! Ma occorre un’azione intellettuale, bisogna che le nazioni promuovano le tecniche della strategia nonviolenta». È quel “ministero della Pace” oggi invocato dall’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Benzi al posto dei ministeri della Difesa o della Guerra. Non è mera questione semantica, il nome indica l’obiettivo: per questo abbiamo ministeri della Salute e non della Malattia, dell’Istruzione e non dell’Ignoranza.

«Ricordare questi fatti dopo 30 anni non sia un indulgere alla nostalgia – avverte da Pax Christi don Renato Sacco – ma un denunciare quanto forse le parole di don Tonino Bello le abbiamo dimenticate, le stiamo riesumando adesso perché la guerra in Ucraina ci tocca da vicino. La domanda che all’inizio anche i leader religiosi ci fecero a Sarajevo era: va bene la pace, ma le armi dove sono? Ce le avete portate? Sono le stesse argomentazioni sostenute oggi da chi alla guerra non vede alternativa e pensa “ok la nonviolenza, ma il realismo sono le bombe”. Ricordo ciò che allora mi disse il vescovo ausiliare di Sarajevo, Pero Sudar, parole che oggi mi danno forza: “Anch’io ero convinto che solo le armi avrebbero risolto, ma quello che ho visto al vostro arrivo mi ha convertito all’evidenza che l’unica scelta è la nonviolenza, la fedeltà radicale al Vangelo”. Questo è ciò che rende attuale la mobilitazione di 30 anni fa, non per l’impresa eroica, ma per trovare anche oggi una via davvero percorribile, altrimenti andremo a sbattere». Che cosa resta, allora, di quegli «eserciti di domani che saranno uomini disarmati »? Sono morti con don Tonino, che ha lasciato questa terra quattro mesi dopo il ritorno da Sarajevo, o “funzionano” ancora da qualche parte nel mondo? Alberto Capannini e gli altri volontari dell’Operazione Colomba (Associazione Papa Giovanni XXIII) vanno nei conflitti, li abitano da dentro, schierano tutti i giorni la loro inerme presenza accanto alle vittime. «A quel seme in tanti abbiamo dato terra e concime, ma la pianta non si è ancora sviluppata – commenta Capannini –, basta guardare quanto accade in Ucraina. Ci sono vari parallelismi tra la guerra dei Balcani e quella in Ucraina, entrambe esplose in Europa da braci che covavano sotto la cenere, e di nuovo tra Paesi slavi, un mondo che spesso non conosciamo, con molti punti di vista diversi tra loro ma concordi in una sola cosa, nel pensare che l’altro capisca solo il linguaggio della guerra: questo dicono gli ucraini dei russi e questo dicono i russi degli ucraini. Anche noi i mesi scorsi abbiamo portato le nostre invasioni pacifiche in Ucraina insieme ad altre associazioni, ma come nel 1992 non hanno risposto in 100.000 ma in poche centinaia. Eppure in piazza a Roma i pacifisti erano davvero centomila, poi sono rimasti a casa».

Le donne e gli uomini di Operazione Colomba “osano” la pace, in trent’anni sono stati nei conflitti di Bosnia, Croazia, Kosovo, Sierra Leone, Congo, Uganda, Cecenia, Timor Est, Cile, Colombia, Palestina e Israele, Siria e Libano, sulla rotta balcanica e ora in Ucraina. Dove hanno fallito le grandi potenze sono arrivati loro, non hanno fermato gli eserciti ma ogni volta hanno creato ponti e reso possibili dialoghi prima inimmaginabili: «Non è possibile trovare soluzione al conflitto da fuori. Certo non può fermarlo l’Europa dei mercati, capace solo di alzare muri e vendere armi. Oggi c’è un “buon” motivo per venderle, chi può pretendere che l’Ucraina si arrenda all’invasore russo?, ma il problema è che le vendeva prima, questa è una mentalità che va scardinata già in tempo di pace, non quando la guerra è scoppiata e il malato è terminale». Siamo partner commerciali di regimi indifendibili – denuncia Capannini – come l’Arabia Saudita, cui vendiamo le armi per opprimere i popoli, o la Russia, «poi quando ti portano la guerra nel cuore d’Europa ci stupiamo manco fosse un cataclisma naturale. In Siria per dieci anni Putin ha bombardato scuole e ospedali, e adesso scopriamo che va fermato con le nostre bombe? Nei “negoziati” Ucraina e Russia non si sono mai nemmeno sedute nella stessa stanza».

Anche don Tonino Bello tornando a casa si interrogava, «qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Fino a quando la cultura della nonviolenza rimarrà subalterna?». Era il 13 dicembre 1992, i 500 “folli” tornavano vincenti, contro ogni pronostico erano arrivati fin dentro la guerra e in loro presenza le armi avevano taciuto. Don Tonino, tra «il rimorso del poco che si è potuto seminare» e «l’incontenibile speranza che le cose cambieranno», si avviava verso l’ultima Grande Partenza avvenuta il 20 aprile 1993. A Facen di Pedavena (Belluno) in un museo che da decenni osa la pace, tra le stole dei santi è conservata anche quella del venerabile don Tonino Bello, non un segno di potere ma il potere di un segno, il «grembiule che ci fa lavapiedi del mondo», come la definiva il vescovo di Molfetta. Nello stesso “Museo dei Sogni, della Memoria e della Coscienza” sono conservati 25 grandi pani impastati lo scorso Natale nei luoghi più simbolici della terra, tra questi la pagnotta che sulla crosta porta l’impronta della croce di don Tonino: «Sono pani impastati con il sale giunto da 50 nazioni – spiega il direttore Aldo Bertelle – e ora viaggeranno a ritroso, ognuno verso un luogo di conversione ». Il pane di don Tonino Bello passerà di mano in mano sul Ponte di Sarajevo.

Avvenire

È di nuovo possibile scambiarsi un segno di pace a Messa

Via libera della Cei che ha deciso di allentare le “restrizioni” durante le celebrazioni in Chiesa vista la situazione pandemica attualmente in corso in Italia

ritorno segno pace messa covid

AGI – Torna lo scambio del gesto della pace alla messa: le regole restano, le raccomandazioni pure, ma anche la Cei prende atto di un certo allentamento nelle norme di prevenzione del Covid. In una lettera inviata dalla Presidenza della CEI ai Vescovi si leggono alcuni consigli e suggerimenti relativi alle misure di prevenzione della pandemia.

“La normativa di prevenzione dalla pandemia da Covid-19 non è stata oggetto di interventi recenti del Governo”, si rileva, “Sembra, tuttavia, opportuno continuare a condividere i seguenti consigli e suggerimenti:

  • È importante ricordare che non partecipi alle celebrazioni chi ha sintomi influenzali e chi è sottoposto a isolamento perche’ positivo al SARS-CoV-2;
  • Si valuti, in ragione delle specifiche circostanze e delle condizioni dei luoghi, l’opportunita’ di raccomandare l’uso della mascherina;
  • È consigliata l’indicazione di igienizzare le mani all’ingresso dei luoghi di culto;
  • È possibile tornare nuovamente a ripristinare l’uso delle acquasantiere;
  • È possibile svolgere le processioni offertoriali;
  • Non è più obbligatorio assicurare il distanziamento tra i fedeli che partecipino alle celebrazioni;
  • Si potrà ripristinare la consueta forma di scambio del segno della pace;
  • Si consiglia ai Ministri di igienizzare le mani prima di distribuire la Comunione;
  • Nella celebrazione dei Battesimi, delle Cresime, delle Ordinazioni e dell’Unzione dei Malati si possono effettuare le unzioni senza l’ausilio di strumenti

Tenuto conto delle specifiche situazioni locali i singoli Vescovi possono, comunque, adottare provvedimenti e indicazioni più particolari”.

“Per la pace. Con la cura”. Studenti e insegnanti della Rete scuole di pace incontrano papa Francesco

CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Seimila studenti, insegnanti e dirigenti scolastici della Rete nazionale delle scuole di pace lunedì 28 novembre incontreranno papa Francesco in Vaticano, nell’aula Paolo VI per un meeting dal titolo “Per la Pace. Con la Cura”.

«La pace e la cura: due parole chiave da promuovere per superare un tempo drammaticamente segnato da tante guerre, crisi e preoccupazioni», spiegano gli organizzatori. «La pace e la cura: l’obiettivo e la via per raggiungerlo. La pace: il bene più grande che stiamo perdendo e che tutti dobbiamo imparare a ricostruire giorno per giorno. La cura della vita, degli altri, della comunità, dell’ambiente e del pianeta che dobbiamo far diventare il nostro stile di vita».

«Educazione» sarà la terza parola chiave dell’incontro. «Un’azione collettiva che deve essere urgentemente reinventata e trasformata per affrontare le sfide epocali del nostro tempo».

Le oltre cento scuole di ogni ordine e grado che parteciperanno all’incontro, provenienti da 19 regioni italiane, sono impegnate nel Programma nazionale di educazione civica e di cura delle giovani generazioni denominato “Per-la-pace. Con-la-cura” che si concluderà con una edizione speciale della Marcia della pace PerugiAssisi.
Adista