IL LABORATORIO DEI TALENTI L’oratorio del terzo millennio

 

Un documento «tra memoria e profezia». Per tornare a focalizzare l’attenzione su una realtà che «in termini di servizi e di opportunità» offrono «alla società civile» un contributo che è quantificabile in 210 milioni di euro. Una realtà in cui «con poco si fa tanto» e dove i giovani possono trovare «ricreazione e formazione».

Si parla della nota “Il laboratorio dei talenti” che, elaborata dalla Commissione per la cultura e le comunicazioni sociali e dalla Commissione per la famiglia e la vita della Conferenza episcopale italiana, rilancia funzioni e progettualità degli oratori, una realtà attorno alla quale, negli ultimi anni, è tornata a focalizzarsi l’attenzione delle famiglie. Una realtà articolata in circa seimila “luoghi” in tutto il Paese, e che oggi, come ha sottolineato il sottosegretario della Cei monsignor Domenico Pompili, presentando ieri il testo a Roma con i vescovi Claudio Giuliodori ed Enrico Solmi, presidenti delle due Commissioni, vanno «sostenuti» per «ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città».

È stato Pompili a ricordare, citando il libro di Giuseppe Rusconi L’impegno, il “valore” in termini economici del servizio offerto dagli oratori, osservando inoltre come «dietro la ripresa dell’interesse intorno agli oratori non c’è semplicemente un’emergenza, ma la sfida di sempre è quella di offrire un contesto che sia promettente per la relazione interpersonale, in una stagione a forte impatto digitale e quindi debilitata sotto il profilo della fisicità». In questo senso, oggi l’oratorio va oltre la «nostalgia di una esperienza fatta di polverosi campi di calcio, teatro e musica, amicizie ed escursioni al mare o in montagna», legata all’adolescenza. Al contrario, sulla linea tracciata dagli orientamenti pastorali per il decennio in corso, centrati sull’emergenza educativa, può essere «un territorio fisico che insieme alla casa e al quartiere sia un luogo di radicamento, a partire dal quale proiettarsi in un mondo più ampio senza perdere il senso del legame, delle radici, della gratitudine e senza dissolvere l’identità coltivandola grazie alle nuove aperture tecnologiche».

Non è allora un caso, come sottolineato da Giuliodori, se oggi «la domanda delle famiglie è fortissima». Dagli anni Settanta, e fino agli inizi dei Novanta, «c’è stata una stagione – ha ricordato il vescovo – in cui lo sviluppo sociale ha fatto nascere tante attività, ma molto parcellizzate, costringendo i genitori a correre per portare i loro ragazzi a far sport, musica, a imparare le lingue. Tante proposte – ha aggiunto – che sono competenze offerte ai ragazzi, ma quello che mancava era l’apporto di una educazione integrale». Oggi, invece, «i genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere». Di qui il rilancio dell’attenzione all’oratorio, dove «ci sono attività strutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona e alla sua libera espressività», come risposta all’esigenza «di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi». Opportunità, insomma, e insieme sfida; tanto più esaltante, nel porre per la prima volta a confronto una realtà “antica” come l’oratorio con la generazione dei nativi digitali, cosa che impone, per Giuliodori, un’attenta formazione dei formatori che «possa partire anche dai seminari». In tutto questo, gli oratori restano «un luogo libero di accoglienza e gratuità – ha osservato Solmi – dove i ragazzi possono andare senza spendere, dove trovano mamme e insegnanti disponibili, dove possono giocare in modo libero e non griffato, con quello che hanno addosso». Per il presule il «punto di forza» degli oratori è «la relazione che nasce dai talenti che ognuno mette in campo», a partire da «un progetto molto preciso della comunità, che ha alle spalle una lunga tradizione e che va giocato per l’oggi». «Se l’oratorio funziona, ci vuole la rete, ma funziona anche se manca la rete», ha rilevato Solmi, riferendosi «sia alla rete del campo di calcio che alla “rete massmediale”», elemento da «intercettare per stare al passo con i “nativi digitali”».

Salvatore Mazza – avvenire.it

 

Oratori, sale la domanda In tempo di crisi risorsa per la famiglia

Un contributo alla società civile di circa 210 milioni di euro: tanto offrono “in termini di servizi e di opportunità”, gli oratori. Veri e propri “laboratori di talenti”, come sancisce la nota pastorale presentata oggi dalla Commissione Cei per la cultura e le comunicazioni sociali e dalla Commissione per la famiglia e la vita. Monsignor Domenico Pompili, sottosegretario della Cei, ha invitato a “sostenere” gli oratori per “ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città”. Per Pompili, l’oratorio, oggi, va oltre la “nostalgia di una esperienza fata di polverosi campi di calcio, teatro e musica, amicizie ed escursioni al mare o in montagna”, legata all’adolescenza: può essere, invece, “un territorio fisico che insieme alla casa e al quartiere sia un luogo di radicamento, a partire dal quale proiettarsi in un mondo più ampio senza perdere il senso del legame, delle radici, della gratitudine e senza dissolvere l’identità coltivandola grazie alle nuove aperture tecnologiche”.

L’oratorio “non è una attività economica”, e dunque “non risente direttamente della crisi”, ma è pur vero che in questi tempi di crisi “la domanda delle famiglie è fortissima”. Lo ha detto monsignor Claudio Giuliodori, presidente della Commissione Cei per la cultura e le comunicazioni sociali, rispondendo questa mattina alle domande dei giornalisti nel corso della presentazione della Nota Cei sugli oratori. “C’è stata una stagione, negli anni Settanta, Ottanta e anche inizio Novanta – ha ricordato il vescovo – in cui lo sviluppo sociale ha fatto nascere tante attività, ma molto parcellizzate, costringendo i giovani a correre per portare i loro ragazzi a far sport, musica, a imparare le lingue. Tante proposte che sono competenze offerte ai ragazzi, ma quello che mancava era l’apporto di una educazione integrale”. Oggi, invece, “i genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere”. Di qui il rilancio dell’attenzione all’oratorio, dove “ci sono attività strutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona e alla sua libera espressività”. Cresce, insomma, nelle famiglie “l’esigenza di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi”.

L’oratorio è “un luogo dove con poco si fa tanto”, e nonostante la “contrazione” dei contributi in loro favore restano “un luogo libero di accoglienza e gratuità, dove i ragazzi possono andare senza spendere, dove trovano mamme e insegnanti disponibili, dove possono giocare in modo libero e non griffato, con quello che hanno addosso”. È la descrizione dei 6mila oratori italiani, dove domina “tutto un mondo di volontari silenziosi”, fatta da monsignor Enrico Solmi, presidente della Commissione Cei per la famiglia e la vita. Il loro punto di forza: “la relazione che nasce dai talenti che ognuno mette in campo”, a partire da “un progetto molto preciso della comunità, che ha alle spalle una lunga tradizione e che va giocato per l’oggi”. “Se l’oratorio funziona, ci vuole la rete, ma funziona anche se manca la rete”, ha affermato il vescovo riferendosi sia alla rete del campo di calcio che alla “rete massmediale”, elemento da intercettare per stare al passo con i “nativi digitali”. In oratorio, è la tesi di mons. Solmi, “le cose funzionano quando vediamo che con poco si fa tanto”. Indispensabile, per il relatore, l’“alleanza educativa” con la famiglia: “Gli oratori sono i luoghi dove sono accolti i figli di tutti, anche quelli che hanno un disagio magari proprio in famiglia, e che nell’oratorio trovano un luogo per uscire da un clima pesante che li rimbalza da un genitore all’altro”.

avvenire.it

Oratorio: è la casa di tutti: qui si può crescere insieme

Molteplici iniziative: «Non si vive di solo catechismo, e infatti noi offriamo feste, iniziative, teatro, sport, cinema e vacanze»

Don Giuseppe Baccanelli, appena ordinato prete nel 2007, è stato destinato a Lumezzane Pieve come curato con l’incarico di seguire la pastorale giovanile: in altre parole, per fare il curato dell’oratorio, grazie al quale, per una lunga tradizione catechistica e associativa, si sono formate generazioni di lumezzanesi. «Questa tradizione si mantiene viva – dichiara soddisfatto don Giuseppe – e il nostro oratorio è un ganglio vivente della comunità della Pieve, frequentato da ragazzi, giovani, famiglie e anziani. Per tutti c’è un luogo, tante iniziative e molteplici forme di coinvolgimento. L’oratorio San Filippo Neri è la casa di tutti». Cominciamo con l’analizzare i momenti formativi ed educativi dell’oratorio. «L’oratorio è un momento fondamentale della nostra comunità, che è la porzione di chiesa operante a Pieve. Ed è il luogo nel quale noi, sacerdoti ed educatori laici, iniziamo alla fede i ragazzi e gli adolescenti. Svolgiamo quella che si chiama l’Iniziazione cristiana. I ragazzi dalla prima elementare alla prima media che la frequentano sono circa 300, e sono seguiti da una settantina di catechisti. I ragazzi che seguono il percorso dell’Azione Cattolica Ragazzi (Acr) sono seguiti da una ventina di catechisti. I genitori di questo consistente gruppo di ragazzi avviati ai sacramenti della Cresima e dell’Eucarestia si ritrovano la domenica pomeriggio con circa 35 animatori, per riscoprire il senso della loro scelta cristiana e genitoriale. I ragazzi della seconda e terza media invece sono un centinaio, seguiti da una quindicina di educatori. Gli adolescenti, (attenzione al calo!), sono una cinquantina, ed hanno i loro educatori. Dopo le elementari cerchiamo di dare molta importanza al gruppo, nel quale è più facile che, insieme al nascere delle amicizie, si approfondiscano le scelte di vita futura». È il vecchio catechismo aggiornato, con l’aggiunta dei genitori. O c’è dell’altro? «Se questa è l’attività fondante dell’oratorio sono presenti, tuttavia, una serie di aggregazioni che lo vivacizzano. C’è, per esempio, un gruppo di una ventina di giovani che si ritrovano una volta al mese per programmare iniziative di animazione rivolte ai più piccoli. Un gruppo di genitori, invece, denominato “Domenicando”, si dedica sempre ai ragazzi movimentandone le domeniche, organizza lavoretti per gli anziani e la festa dell’ultimo dell’anno. Un altro gruppo, composto dai papà dell’Iniziazione cristiana, denominato i Papaika, si occupa del Carnevale e del “rogo della vecchia”. Ma l’oratorio non vive di solo catechismo; è, come dicevo, un momento educativo e aggregativo. Niente è lasciato al caso perché il CondOr (Consiglio dell’Oratorio), attivo dagli anni Novanta, coordina e gestisce la vita ordinaria e straordinaria della struttura. Sono presenti anche due compagnie teatrali, quella storica dialettale della parrocchia e la “Fior.Di. Norvegesi” (simbolo: la mucca con gli stivali) composta da un nucleo che scrive copioni di pièces teatrali per ragazzi, giovani e sposati. Un nutrito gruppo sportivo, l’Uso Aurora Lumezzane, con 250 tesserati, garantisce a tutti la possibilità di giocare a calcio. E abbiamo anche una squadra femminile. Inoltre, quasi a completare il complesso e articolato quadro delle nostre iniziative, c’è il “Gruppo Cinema” che cura la programmazione e la gestione della sala cinematografica Lux. Per tutte queste attività abbiamo una capiente struttura con 9 aule di catechismo, due saloni, una cucina per le feste (valido il supporto degli anziani, che nell’oratorio hanno la loro sede, “La Büsa”), un campo di calcio di sabbia, una piastra polivalente e un campo in sintetico e il teatro Lux con 420 posti a sedere e bar indipendente». Dev’essere un oratorio molto vivo; se poi si aggiungono le iniziative dell’estate… «Iniziamo con la prima settimana sbarazzandoci dei compiti delle vacanze. Seguono tre settimane di Grest: vi partecipano 250 ragazzi seguiti da 80 animatori selezionati. Subito dopo alcune mamme organizzano due settimane di scuola di vita familiare (cucito, cucina, eccetera). È poi la volta dei campi scuola per le elementari e le medie in montagna; al mare, invece, per gli adolescenti. L’avvio dell’anno catechistico è invece segnato dai tre giorni della festa di San Luigi». G.B.M.

bresciaoggi

Oratorio specchio della comunità

Perché gli oratori sono una specificità solo italiana? E’ la domanda che si è posto il responsabile del Forum degli oratori italiani don Marco Mori aprendo i lavori del convegno conclusivo (Voglia di Oratorio) di due giorni di approfondimento svoltosi presso il Seminario di Fermo incentrati su progetti, azioni e connessioni tra oratori, associazioni, movimenti e pastorali. E’ il fattore comunità – è la risposta di Mori – che caratterizza nel profondo l’azione degli oratori, allo stesso tempo specchio delle parrocchie e delle comunità; non uno uguale all’altro, espressioni della genialità dei territori: a Scampia tirano fuori i ragazzi dalla camorra, a Milano 8 mila e 500 bambini frequentano il dopo scuola promosso dagli oratori. Le decisioni sul “che cosa fare” sono assunte in un fecondo rapporto tra Chiesa e società, superando l’individualità. L’oratorio pone al centro un processo educativo sulla realtà, aperto a tutti, a fronte della crescente e invadente virtualità. Tali ambienti sono cresciuti tanto nella dimensione pubblica: poche le regioni che non hanno una legge sugli oratori e in futuro, forse, si esprimerà anche il Parlamento. Questo rapporto proficuo Chiesa-Istituzioni è un bene di tutti, espressione comune di tutte le parti, fattore di reale convergenza, esercizio di vera laicità in una dimensione popolare.

Il filo rosso della discussione sviluppatasi nelle prime due sessioni del convegno e una istantanea della realtà marchigiana sono stati tratteggiati dal sociologo Massimiliano Colombi, docente dell’Istituto Teologico Marchigiano, che ha curato la supervisione scientifica dell’iniziativa. Nelle Marche gli oratori hanno superato quota 300, distribuiti nel reticolo urbano delle 13 diocesi e delle 824 parrocchie. Nel 2011 sono nate 42 nuove strutture e si è lavorato per rafforzare in qualità buona parte delle realtà esistenti. Gli animatori e gli aiuto superano le quattro mila unità, un impegno molto rilevante e significativo, non improvvisato. Nel confronto sono state condivise immagini di oratorio pensato come ponte, come tessuto, come cortile aperto, spazio di servizio alle famiglie in cui si realizza concretamente anche l’integrazione tra religioni e culture diverse. La scelta del Lab-oratorio è motivata dalla continua ricerca di equilibrio e di vie originali, come apprendisti-artigiani in un’epoca di forti e continui cambiamenti.

Per il prof. Ivo Lizzola, pedagogista dell’Università di Bergamo, nell’oratorio come nelle Università s’incontrano le generazioni al momento della transizione e della ricerca di identità. Gli adolescenti sono accompagnati dagli adulti verso la responsabilità, una specie di iniziazione in cui la dimensione laica e quella antropologica si fondono, perché la vita è una dimensione unica. Per gli adulti l’oratorio è anche il luogo dove si espongono con i gesti, che devono generare occasioni di reciprocità. Che cosa raccontano di sé gli adulti (tempo delle tutele) ai ragazzi espressione di un tempo delle incertezze? Anche lo sport è occasione di responsabilità, non solo di competizione, e nessuno deve andare perso. L’oratorio non può essere ripetitivo e ogni storia va ascoltata; sulla dimensione dei problemi (handicap in particolare) può partire una rete tra famiglie.

Il vice presidente del governo regionale, Paolo Petrini, ha confermato, pur in una fase di grande difficoltà della finanza pubblica, la scelta della giunta regionale di rafforzare l’impegno finanziario a favore delle politiche sociali con uno stanziamento di 10 milioni di euro: l’obiettivo primario rimane la salvaguardia della coesione della comunità marchigiana, cancellando le disuguaglianze e accorciando le differenze. La dotazione della legge sugli oratori dall’originario stanziamento di 450 mila euro è salita a 600 mila, che rimane confermata nel bilancio 2013. Per Petrini l’oratorio è un luogo centro di gravità per avvicinare le generazioni.

Profonda umanamente quanto efficace sul piano pastorale la testimonianza di mons. Giancarlo Vecerrica, vescovo di Fabriano-Matelica, delegato dalla Conferenza Episcopale Marchigiana alla pastorale giovanile e agli oratori. Il presule ha affermato come la sua azione di uomo di Chiesa sia stata orientata su tre scommesse: missionarietà, vocazione, oratori, parole eterne di cristianesimo, sfide sicuramente vinte. Ha richiamato storie di giovani dalle quali emerge il disperato bisogno di trovare fiducia negli adulti (educatori), che a loro volta debbono credere nei giovani, superando giudizi affrettati che possono derivare dall’estetica delle attuali mode. Occorre pertanto costruire con azioni incessanti luoghi e possibilità di aiuto e di sostegno ai giovani raccogliendo concretamente l’esortazione del documento “Educare alla vita buona del Vangelo” (Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020), paragrafo 42. Ha poi richiamato gli insegnamenti di don Milani e don Giussani, due vite spese per l’amore verso le persone, ad imitazione di quello di Dio.

Ha infine incoraggiato i vescovi e il governo regionale a continuare l’impegno a favore degli oratori, una scelta che nel tempo sarà ancor più valorizzata: grazie a mons. Luigi Conti (presidente della CEM), al presidente della giunta regionale Gian Mario Spacca e a don Francesco Pierpaoli, coordinatore del Forum degli oratori marchigiani, è nata nel 2008 una legge che ha generato una nuova storia, occasione per tornare ad essere la fucina degli uomini e delle donne nuovi.

Durante il convegno è stato presentato da don Francesco Pierpaoli il volume “Voglia di Oratorio – Per accompagnare nella crescita umana e spirituale le nuove generazioni” edito dalla Conferenza Episcopale Marchigiana in collaborazione con l’Associazione Amici del Centro Giovanni Paolo II e del Santuario di Loreto. Il libro racchiude il percorso compiuto dagli oratori a partire dal 2008 e i risultati di una ricerca che ha coinvolto 8 Diocesi. La pubblicazione è stata finanziata dalla Regione Marche attraverso i fondi della L.R. 31/2008 che comprendono anche il sostegno all’attività di formazione e ricerca, finalizzate a realizzare strutture sempre più rivolte al dialogo generazionale e alla riflessione sugli stili di vita. Pierpaoli ha posto in rilievo il significato delle tre dimensioni in cui si articola il prodotto editoriale (ecclesiale, pedagogica,istituzionale) e sottolineato alcuni aspetti significativi: tra i 16.534 ragazzi coinvolti nella ricerca 634 sono di religione musulmana, 10 ebrei e 47 di altre confessioni, fenomeno che rispecchia in parte il quadro dell’immigrazione marchigiana.

informazione.tv

Mio oratorio amarcord

In un paese dell’alto Milanese gli svaghi principali della popolazione maschile erano concentrati in tre luoghi: gli oratori, i bar e i garage. Villa Cortese, come tutti i paesi d’Italia, aveva un oratorio. L’oratorio era un luogo dove i bambini stavano al sicuro, dove potevano giocare ininterrottamente fino a quando non diventava buio. All’oratorio si poteva giocare a calcio, a pallavolo, a basket (quelli più alti), a nascondino, a bandiera, a strega comanda color, a mondo, a ce l’hai, alla lotta, al calciobalilla, a rubamazzetto. All’oratorio si imparavano i nomi degli Apostoli, chi era re Erode, e quanti sono i sacramenti. Di oratori ce ne erano di tutti i tipi: con il campo in erba, con la terra battuta, con l’asfalto, il cemento, con il bar che vendeva la gazzosa e la spuma nera, le stringhe di liquirizia e i «tira e molla» di zucchero. Il mio aveva un campo da calcio a 11 in erba; il pomeriggio si presentavano tutti i ragazzi del paese, poco più di un centinaio, ci si divideva omogeneamente per età, poi i capitani facevano a pari e dispari e sceglievano le squadre. Quindi ogni gruppo si prendeva uno spicchio di campo, e per fare i pali delle porte si mettevano i maglioni, o il cappotto, se era inverno; c’erano delle volte che sul campo si giocavano anche otto partite contemporaneamente. Quelli che non giocavano a pallone, avevano a disposizione un pratone dove si facevano tutti gli altri giochi, oppure si scambiavano le figurine, o ci si menava. Alle 5 del pomeriggio suonava una campana e tutti dovevamo correre nella chiesetta, dove don Giancarlo interrogava i più testoni sullo Spirito Santo e sulla vita di don Bosco, si recitavano ad alta voce l’Ave Maria e il Padre Nostro. Poi si riprendeva a giocare fino a quando non faceva buio, e il don, per convincerci che dovevamo andare a casa, doveva darci qualche scappellotto. Quando si arrivava a casa la mamma, anziché salutarci, ci prendeva a scapaccioni, perché eravamo in ritardo e i pantaloni erano tutti sporchi di verde.

L’oratorio aveva una squadra di calcio iscritta al torneo di terza categoria; tutto il paese sognava di vincere il campionato per passare nella categoria superiore. Avvenne solo una volta di passare in seconda categoria e tutto il paese si riversò in strada a far festa come quando l’Italia vinse il campionato del mondo. Quella sera il don, tra un brindisi e l’altro, dichiarò che si puntava almeno alla serie B, il sindaco si trovò d’accordo e promise di far costruire le docce nuove negli spogliatoi. Il don, che ufficialmente non era il mister, si comportava come fanno certi presidenti di calcio: scelgono i giocatori, suggeriscono chi deve giocare, indicano il modulo tattico. Il credo tattico di don Giancarlo era: non si gioca per divertirsi ma per vincere, bisogna essere miti e caritatevoli, ma non quando c’è il derby contro il Busto Garolfo. Aveva un suo decalogo comportamentale: chi bestemmiava non veniva convocato per la partita della domenica, e chi veniva beccato al cinema a baciarsi con una ragazza saltava almeno due partite. Come tutti i presidenti, il don aveva i suoi pupilli. Un anno fece giocare un centravanti solo perché sapeva a memoria tutti i vizi capitali e le virtù teologali. Solo che non segnava nemmeno a porta vuota. Per tre anni di fila la squadra è arrivata in fondo alla classifica perché il don si era fissato di far giocare Marberti.
Marberti da piccolino aveva avuto la poliomielite, e come conseguenza si ritrovava una specie di protesi contenitiva per la gamba, fatta di quattro ferri. Come tutti i bambini, amava il calcio e, fin da bambino, il suo sogno era fare il portiere. Il don lo fece schierare come titolare nel campionato 1964-65, perché, come spiegò negli spogliatoi, «a calcio devono poter giocare tutti», perché bisognava «credere nei miracoli» e, soprattutto, perché «Marberti, da fermo, è dotato di un colpo di reni eccezionale». In quella stagione calcistica non avvennero miracoli, e a furia di colpi di reni (perché gli avversari, maligni, tiravano tutti all’incrocio dei pali) al povero Marberti venne il mal di schiena. Il mio oratorio aveva anche un teatro, dove la domenica pomeriggio don Giancarlo proiettava un film: I dieci comandamenti, Ben Hur o Quo vadis; il massimo della trasgressione era un western. Una volta all’anno, don Giancarlo convocava nel suo ufficio tre o quattro bambini e gli faceva leggere dei copioni teatrali. Io mi ricordo che ridevamo a crepapelle senza riuscire a fermarci, proprio come quando succedeva durante la messa; allora don Giancarlo doveva darci qualche scappellotto per farci smettere, proprio come faceva in chiesa. Dopo una settimana passata a ridere e a prendere scappellotti, il don ci portava in teatro e ci faceva salire sul palco, dove recitavamo a memoria quello che avevamo letto. A recitare assieme a noi c’erano anche diversi adulti, uomini e donne, che tanto per cambiare ridevano anche loro a crepapelle, e il don doveva guardarli negli occhi per farli smettere. Dopo due giorni di prove, la domenica sera si faceva lo spettacolo a cui assisteva tutto il paese, con il sindaco e il parroco seduti in prima fila. In ogni recita c’era sempre un bambino o un adulto che si fermava in mezzo al palco e diventava tutto rosso. Allora il don entrava in scena, accolto da un applauso, diceva qualcosa all’orecchio di quello che non ricordava la parte, e questi ripartiva sollevato e baldanzoso.

 

Giacomo Poretti – avvenire.it