Per una riconciliazione liturgica

di: Andrea Grillo e Zeno Carra

Le Edizioni Dehoniane Bologna hanno pubblicato il 19 giugno 2020 l’e-book Oltre Summorum Pontificum. Per una riconciliazione liturgica possibile, nel quale 6 teologi – oltre ai due curatori, John Baldovin (Boston), Martin Kloeckener (Friburgo), Arnaud Join-Lambert (Lovanio) e Benedikt Kranemann (Erfurt) – scrivendo nella loro lingua madre rispondono a tre domande sugli sviluppi della liturgia cattolica e sulla necessità che venga superato lo «stato di eccezione» che in essa è stato introdotto con il motu proprio Summorum Pontificum (SP). Così la «pace liturgica» sembra ormai possibile solo «oltre» questo documento. Contemporaneamente, una inchiesta, voluta da papa Francesco, ha posto a tutti i vescovi cattolici nove domande sull’impatto di SP sulla vita ecclesiale e sulla formazione. Il libro vuole essere anche un aiuto ai vescovi nel rispondere alle domande del questionario ufficiale. I due curatori spiegano qui di seguito il motivo che li ha spinti a scrivere e a far scrivere il libro. Questi testi non fanno parte del libro, ma sono stati scritti in occasione della presentazione.

copertina
Una riconciliazione possibile (z.c.)

Nella stagione ecclesiale presente, in cui diventano sempre più percepibili spaccature, fazioni e schieramenti, in cui spesso le posizioni si decidono prima di pensare seriamente a ciò che c’è in gioco, in cui molto, troppo si stilizza precipitosamente nella dinamica del «pro o contro», suona come appello profetico la parola «riconciliazione».

Essa è stata recentemente invocata dal cardinale Kurt Koch per un ambito che nei moti della vita ecclesiale non è indifferente: la liturgia.

Viene invocata come via necessaria per sanare il tessuto della chiesa, a fronte della costatazione che ciò che voleva essere strumento per la pace ha forse sprigionato effetti indesiderati. Il motu proprio Summorum Pontificum, di tredici anni or sono, voleva essere fattore di più larga accoglienza delle istanze di una parte del popolo di Dio, nonché restituire al suo insieme ciò che si stimava potesse essere risorsa preziosa per la fede e la spiritualità dei cattolici. Si auspicava che la più ampia concessione della celebrazione secondo il messale di Giovanni XXIII potesse giovare alla celebrazione ordinaria secondo il messale romano promulgato da Paolo VI.

Dopo tredici anni la situazione non mostra tanto gli effetti auspicati: in taluni settori del cattolicesimo questa misura legislativa ha fomentato irrigidimento ed oltranzismo; in molti la frequentazione della forma straordinaria spesso non ha contribuito a vivere meglio il regime liturgico ordinario della chiesa, ma ha fatto sorgere o ha acuito il disagio di stare in esso. Taluni sono giunti addirittura ad auspicare che il frutto del provvedimento sia una progressiva sostituzione del novus ordo con il vetus ordo. Anziché costruire pace il motu proprio forse sta contribuendo ad allargare gli strappi nel tessuto della chiesa.

E non può che essere così: se la liturgia fa la chiesa, diverse liturgie fanno diverse chiese. Quel rito che il Concilio Vaticano secondo chiese di riformare, liberalizzato, ora va plasmando relazioni, coscienze, spiritualità ad esso conformi. Allargando il divario con quanto della chiesa il rito riformato va facendo.

Si può sbrigativamente dire: «è stato un errore: si faccia marcia-indietro».

Si può anche tentare di andare avanti, superando quanto ora, a distanza di anni, si vede come fallimentare, e cercando la via per ottemperare all’istanza positiva del provvedimento: ascoltare empaticamente i rilievi delle criticità e migliorare l’esistente. Cercare cioè la via della riconciliazione che sola, nei conflitti, riapre la strada.

L’e-book plurilingue che esce oggi a firma di sei autori si colloca proprio qui: mette a tema l’idea di «riconciliazione liturgica» e abbozza vie possibili per una riconciliazione che si vuole ecclesiale. Ma soprattutto i sei autori, da percorsi e prospettive diverse, riconoscendosi reciprocamente e mettendo in comune idee non sempre componibili, tentano un esercizio in atto di quell’ascolto reciproco e dialogo senza i quali nessuna riconciliazione è possibile. (z.c.)

Una riconciliazione bene intesa (a.g.)

Nel libro si tratta di riprendere le fila di una “pace liturgica” che esige uno sguardo lungimirante, non solo verso il futuro, ma anche verso il passato. Vi è stata, infatti, una recente stagione nella disciplina liturgica ecclesiale, nella quale si è potuto ritenere che la «pace» fosse generata dal riconoscere a ciascuno il diritto di celebrare come voleva. Non era difficile prevedere che, mediante uno strumento concepito come «esercizio di libertà», si sarebbe generata la possibilità di «immunizzarsi dalla riforma liturgica».

Ora, ed è qui il punto nevralgico di tutta questa vicenda, lo strumento della «pace liturgica» non può essere diverso dal Concilio Vaticano II e dalla sua attuazione. Lungimiranza vuole che si riconosca apertamente, ed universalmente, che la via verso la «pace» passa attraverso la recezione del Concilio, non attraverso la sua elisione, la sua rimozione o addirittura la sua contestazione.

Per questo il libro offre un quadro molto articolato degli stili e delle modalità con cui viene pensata oggi questa opera di «riconciliazione», che il Concilio Vaticano II ha inaugurato, e alla cui scuola occorre proseguire. Perciò non è esagerato riconoscere come «stato di eccezione» la condizione ecclesiale che è stata generata dal MP Summorum Pontificum: per 13 anni, dal 2007, la concessione di una «duplice forma» del rito romano ha introdotto un rischioso parallelismo tra forme, che non ha portato la pace, ma la guerra: e dietro le liturgie diverse si celavano spesso diverse chiese.

Per uscire dallo stato di eccezione bisogna fare tre passaggi, che costano non poco:

bisogna ammettere che la forma del rito romano può essere sincronicamente solo una, mentre diacronicamente se ne possono contare diverse;

bisogna spostare la tensione dalla differenza tra due forme conflittuali ai diversi registri interni ad un’unica forma, che meritano di essere valorizzati;

occorre riconoscere che, per affrontare tali questioni, non sono sufficienti motivi di «contenuto», ma anche cura e attenzione per le dimensioni «formali», «rituali» e «simboliche» della tradizione.

«Pace liturgica» non è né la rivendicazione di restare immuni dal Concilio, né la pretesa che la approvazione dei nuovi ordines abbia risolto la «questione liturgica». Se riconosciamo che la nostra incapacità rituale risale almeno ad A. Rosmini e a P. Guéranger, che già la denunciavano nella prima metà del 1800, non ci illuderemo di aver risolto la questione né sostituendo ai riti del 1969 quelli del 1962, né accettando che possano agire in parallelo gli uni e gli altri.

Ci resta solo una via: la recezione comune di un’unica forma rituale, la cui forma verbale e forma simbolica sappia assumere una nuova evidenza e una nuova autorità nel corpo ecclesiale. Per uscire dallo stato di eccezione occorre restituire autorità alla forma rituale comune e ai vescovi che ne custodiscono la efficacia formale e sostanziale.

Un forma del rito romano, su cui un vescovo diocesano non possa esercitare la propria autorità, è appunto il frutto e insieme la causa di quello «stato di eccezione» che chiede oggi di essere superato. In questa direzione si muovono, con diversi stili e linguaggi, i brevi ma preziosi saggi di questo volume. (a.g.)

settimananews.it

Arriva il «nuovo» Padre Nostro, ma per la Messa ci vorrà un po’

Anziché “Non ci indurre in tentazione” diremo “Non abbandonarci alla tentazione”, più fedele all’originale. Facciamo il punto con il vescovo Claudio Maniago

Arriva il «nuovo» Padre Nostro, ma per la Messa ci vorrà un po'

da Avvenire

Per il “nuovo” Padre Nostro ci siamo quasi ma non ancora. No, non si tratta di un gioco di parole ma di combinare una crescente attesa con le esigenze di precisione e prudenza che accompagnano un cambiamento vero, destinato a incidere nel profondo della vita comunitaria. Come noto infatti l’Assemblea generale della Cei lo scorso novembre ha approvato la traduzione italiana della preghiera insegnata da Gesù in cui la vecchia invocazione: “Non ci indurre in tentazione” viene sostituita da “Non abbandonarci alla tentazione”.

Novità anche per il “Gloria” in cui al posto del “Pace in terra agli uomini di buona volontà” si dirà “Pace in terra agli uomini, amati dal Signore”. Cambiamenti che, ottenuta la confirmatio, cioè il via libera della Santa Sede, rientrano in un lavoro di ben più ampio respiro come la traduzione del Messale Romano, giunto nel 2002 alla sua terza edizione “tipica”, in latino. E la cui consegna, in italiano, alle parrocchie, non dovrebbe tardare più di tanto. «La stampa del Messale è un’operazione molto delicata – sottolinea monsignor Claudio Maniago vescovo di Castellaneta e presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia – perché si tratta del libro più importante della nostra liturgia, che riguarda l’Eucaristia, la Sua celebrazione. L’équipe, la “macchina” chiamata a occuparsene sta lavorando attivamente. Il libro dev’essere solido ma anche facilmente utilizzabile e bello sia sotto il profilo grafico che dell’apparato iconografico. Tutti aspetti che richiedono la massima attenzione».

Una data precisa per la pubblicazione non c’è ancora.
No, si sta lavorando alacremente per averlo quanto prima, però è evidente che trattandosi di un libro così prezioso ci sono dei passaggi tecnici indispensabili, per esempio la correzioni di bozze, da fare anche due o tre volte. In modo da evitare errori.

Perché il Messale è così importante?
Perché è un libro che non soltanto guida la celebrazione ma fa da norma alla stessa. Lì troviamo davvero quello che è indispensabile. Una realtà importante e preziosa come la celebrazione eucaristica non può essere affidata alla fantasia, per quanto fervida, di un sacerdote, di un vescovo, di una comunità ma deve farne emergere l’originalità nell’ambito di una comunione ecclesiale che possa far riconoscere sempre la Chiesa, in ogni celebrazione cui si partecipa.

Questa è la terza edizione del Messale Romano.
Esatto, che arriva in italiano circa 16 anni dopo la sua editio typica. Un tempo lungo perché come si sa la traduzione è un lavoro molto delicato e importante, che deve rispettare il senso contenuto nelle parole, che non va tradito. Di qui la necessità del contributo di tante persone. Non bastano un latinista e un italianista ma ci vogliono teologi, biblisti, liturgisti.. E posso dire che per questo lavoro è stata allestita un’équipe di altissimo livello, con alcuni dei migliori specialisti.

Un impegno lungo e complesso che però dimostra l’importanza di lavorare insieme.
Certo, nelle traduzioni si incontrano e confrontano anche differenti scuole di pensiero. Ad esempio quando si tratta di testi biblici sono gli esegeti che in buona parte esprimono pareri e danno indicazioni. Tuttavia per la scelta finale, senza tradire il significato dei testi, si deve arrivare a una formulazione accessibile al popolo di Dio. In particolare per il Padre Nostro l’attenzione si è concentrata soprattutto sulla frase, sull’invocazione “Non indurci in tentazione”. Un passaggio ostico alla comprensione immediata della gente su cui il Santo Padre era più volte intervenuto proprio perché appare contrario al senso della preghiera stessa, al volto paterno di Dio che invece, secondo la precedente formulazione, sarebbe addirittura all’origine del nostro cadere nelle tentazioni. La nuova traduzione recupera la dimensione paterna di un Dio che non ci abbandona neppure nel momento, che non viene risparmiato a nessuno, della tentazione.

Più volte il Papa è intervenuto proprio sulla necessità di una traduzione più adeguata. Il motu proprio “Magnum principium” appare molto significativo in tal senso.
Soprattutto ha ricollocato il giudizio ultimo su una traduzione nel luogo dove anche il Concilio l’aveva messo, cioè la Conferenza dei vescovi, coloro che hanno la prima responsabilità, anche in ordine alla celebrazione, della liturgia. Ha ridato ai vescovi una responsabilità che è loro propria, insita nel carisma episcopale, quella cioè di moderare la liturgia. Anche per questo parlando della traduzione del Messale sono stati importanti i vari passaggi attraverso il Consiglio permanente e l’Assemblea dei vescovi che ha dovuto approvarla pezzo per pezzo fino al sì definitivo del novembre scorso. I documenti precedenti come l’istruzione Liturgiam authenticamche regolava le traduzioni prima dell’ultimo motu proprio avevano invece a cuore soprattutto una grande fedeltà al testo originario, principio che peraltro rimane importante, che non può venire meno nella tradizione ecclesiale.

Anche se il testo della preghiera ora è più in sintonia con quanto insegnato da Gesù, bisognerà vincere abitudini consolidate nel tempo. Vi aspettate un po’ di sconcerto da parte del popolo di Dio?
Nel Messale i vescovi hanno fatto la scelta di cercare il più possibile di mantenere, soprattutto per quanto riguarda la parte attiva dell’assemblea come le risposte e le acclamazioni, il testo invariato. Quello che si creerà di fronte al Padre Nostro e al Gloria credo sarà uno sconcerto facilmente superabile, anche in virtù di una spiegazione che comunque sarà fatta. La pubblicazione del Messale avrà bisogno di un’attenta operazione di accompagnamento nelle Chiese locali.

Occorrerà anche lavorare sulla pastorale liturgica?
Assolutamente sì. I vescovi italiani vogliono che la pubblicazione del nuovo Messale Romano sia un’occasione preziosa per rivedere e rilanciare la pastorale liturgica, in particolare per quanto riguarda la celebrazione dell’Eucaristia, che ha bisogno di un’attenzione sempre rinnovata perché non venga mai meno la consapevolezza di quelle che sono le dinamiche celebrative, le sequenze che la riforma del Vaticano II ha ricollocato in una sua logica e una tradizione di preghiere e canti che sono patrimonio intangibile della Chiesa. Da questo punto di vista saranno approntati anche sussidi, ci saranno operazioni per stimolare ogni Chiesa locale a cogliere questa novità come un’occasione per il rinvigorimento dello spirito di partecipazione.

Abbiamo parlato finora di Messale Romano, ma che tipo di rispondenza ci sarà nella liturgia ambrosiana?
Evidentemente, pur con i percorsi propri del rito ambrosiano, dovranno esseri recepiti tutti quelli che sono i testi comuni presenti in entrambi i riti. Ma si sta già lavorando anche in questo senso.

Tornando alla domanda iniziale, quanto dovremo aspettare per recitare il nuovo Padre Nostro a Messa?
Non ho una risposta precisa. Penso però che sia difficile arrivare alla pubblicazione del Messale entro la fine di quest’anno. Non credo comunque che si vada molto più in là, perché, ripeto, si sta lavorando alacremente.

Da sapere / Un percorso lungo oltre sedici anni

Dopo l’approvazione, arrivata nel novembre 2018, della plenaria dei vescovi, la nuova edizione italiana, la terza, del Messale Romano ha ottenuto il decisivo via libera del Papa. Francesco ne ha approvato la promulgazione a seguito del giudizio positivo della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Durante l’Assemblea generale del maggio scorso è stato il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, ad annunciare l’avvenuta “confirmatio” della Santa Sede, che ha concluso così un lavoro di studio e miglioramento dei testi durato oltre 16 anni. Come detto tra le novità introdotte ci sono traduzioni più efficaci e fedeli al senso originario del “Padre Nostro” e del “Gloria”. In particolare nella preghiera insegnataci da Gesù l’invocazione “Non ci indurre in tentazione” lascia al posto a “Non abbandonarci alla tentazione” e all’espressione “come noi li rimettiamo” viene aggiunto un “anche”: “come anche noi…”. Per quanto riguarda il “Gloria”, poi, “Pace in terra agli uomini di buona volontà” viene sostituito dalla nuova formulazione: “Pace in terra agli uomini, amati dal Signore”. (Red.Cath.)

Liturgia / IL PAPA DA’ IL VIA LIBERA AL NUOVO MESSALE IN ITALIANO

Avvenire

Durante la prima giornata di lavori dell’Assemblea generale della Cei, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha annunciato ai vescovi italiani che il Papa ha autorizzato la promulgazione della nuova edizione in italiano del Messale Romano dopo che è giunta laconfirmatio della Santa Sede. Non c’è ancora una data fissata. Pertanto è ancora prematuro sapere quando cambieranno alcune formule con cui viene celebrata l’Eucaristia nella lingua italiana. Probabilmente saranno necessari ancora diversi mesi.

La traduzione italiana della III edizione del Messale Romano era stata approvata lo scorso novembre dall’Assemblea generale straordinaria della Cei. Fra le novità introdotte quella sul Padre Nostro: non diremo più «e non ci indurre in tentazione» (Dio non può indurre in tentazione), ma «non abbandonarci alla tentazione». E intoneremo il Gloria sostituendo al classico «pace in terra agli uomini di buona volontà», il nuovo «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Sono due tra le più significative modifiche che giungono al termine di un percorso durato oltre 16 anni. Un arco temporale in cui «vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della Presentazione del Messale». Nelle intenzioni della Cei, infatti, la pubblicazione della nuova edizione non è solo un fatto “editoriale”, ma «costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica». L’entrata in uso del nuovo Messale verrà accompagnata con una sorta di «riconsegna al popolo di Dio», tramite un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.

Aspettando il nuovo Messale. Per molti o per tutti?

Senza entrare nelle discussioni sul nuovo Messale, non è fuor di luogo ricordare la sensibilità dei cristiani d’Italia, abituati a un preciso linguaggio…

"Ogni parola porta in sé una straordinaria potenza emotiva..."

“Ogni parola porta in sé una straordinaria potenza emotiva…” (foto CENSI)

Da ragazzo, un compagno di liceo, carissimo amico, dall’intelligenza acuta e dotato di un penetrante spirito di osservazione, si divertiva ogni tanto a mettermi in imbarazzo con un giochetto linguistico. Mi diceva: «Tu sai che io ti ritengo un tipo intelligente e non dubiti della stima che ho di te; ma vuoi vedere che se ti chiamo stupido, tu diventi rosso lo stesso?». Detto fatto, seguiva un qualche suo apprezzamento beffardo sul mio conto e sul mio volto il previsto istantaneo rossore. Da grande, poi, mi sono anche interessato di comunicazione e di studi linguistici, per capire meglio cos’è la comunicazione della fede, e ho imparato dagli esperti che la parola non è solo veicolo di un’idea. Ogni parola porta in sé, per il solo fatto di essere pronunciata, una straordinaria potenza emotiva, capace di fare il suo gioco indipendentemente da qualsiasi spiegazione che le si dia sul piano della definizione concettuale e da qualsiasi successiva precisazione del significato che si è inteso darle. Lo dimostrano molte liti nate da una sola parola detta male, anche al di là delle intenzioni, che guastano i rapporti umani. Quando uno si è sentito offeso da una parola detta, molte volte non c’è spiegazione che giovi. Dire: «Ma io non intendevo… Io volevo dire un’altra cosa… Non avevo l’intenzione di…», in mille casi non serve.

Pensieri e preoccupazioni

Ebbene, a questo fenomeno umano mi sento richiamato ogni volta che leggo, ascolto e, tante volte, io stesso (per esempio nella recitazione dei testi liturgici) mi ritrovo a pronunciare parole e frasi che, per quanto perfette nel loro significato, rischiano di lasciare totalmente insensibili, o peggio, di produrre nell’animo di chi ascolta effetti contrari a quelli desiderati. Sono questi i pensieri e le preoccupazioni che non riesco a evitare quando immagino le reazioni che l’eventuale cambiamento delle parole della consacrazione del calice, da «versato per tutti» a «versato per molti», se venisse attuato, potrebbe suscitare nell’animo di molti e invadere la pubblica opinione. È facile pensare che, oltre alle parole in sé stesse, sarà il fatto di averle cambiate a suscitare molti turbamenti. Alcuni mesi fa, ho potuto vedere come già sia stata sentita la possibile nuova formulazione eucaristica dall’ignoto graffitaro che, nei pressi della chiesa di Santa Croce a Pisa, ha messo in pubblico la sua rabbia – immagino per essersi sentito escluso in qualche maniera dal suo circolo – scrivendo sul muro: «Acli: per molti, non per tutti!». L’impressione negativa, che il temuto cambiamento susciterebbe, non potrebbe essere bilanciata neanche dalla più diffusa e dalla più efficace delle spiegazioni possibili. Già sul piano di un freddo ragionamento, non sarebbe facile convincere le persone che, dicendo “per molti” invece che “per tutti”, non si intende escludere che davvero Gesù abbia versato il suo sangue per tutti. È il fatto di voler cambiare una delle espressioni più sacre del parlare cristiano, che da cinquant’anni ormai il popolo italiano è abituato a sentire, che rischia di produrre una diffusa reazione emotiva praticamente impossibile da contrastare.

L’indispensabile catechesi

Oltre alla sua oggettiva difficoltà, bisogna anche tenere presente che l’indispensabile catechesi che, ovviamente, ogni pastore di Chiesa è pronto a mettere in opera, raggiungerebbe solo quel 30% d’italiani che partecipano alla messa domenicale. Quella più approfondita, che si svolgerebbe nelle riunioni parrocchiali e nelle catechesi per gli adulti, raggiunge, come tutti sanno, solo sparute minoranze di devoti. Per la grande massa della popolazione e per i moltissimi che si affacciano ogni tanto alle celebrazioni liturgiche per il matrimonio dell’amico o il funerale del nonno, la sola “catechesi” sarebbe – ahimè! – quella ammannita dalla televisione e dai giornali: con quale spirito e quali valutazioni è facile prevedere. Coloro che più rischiano di soffrirne, al punto di poter subire la spinta a ritrarsi da un eventuale moto di avvicinamento alla fede, sono proprio coloro ai quali, più che a chiunque altro, siamo debitori del Vangelo: ai più lontani dalla fede. Penso al carcerato (me lo raccontava giorni fa il cappellano del carcere) che, letta sui giornali la notizia del possibile cambiamento, gli diceva: «Allora per me no, per me Gesù non ha dato la vita, ma solo per i molti che sono fuori da queste mura! ». Penso ai tanti anticlericali o indifferenti o atei che sentono nel loro animoun germe di desiderio di fede e che potrebbero risultare dissuasi dall’accostarsi alla Chiesa. Di ciò tutti nella Chiesa portiamo la responsabilità. Agito in me queste preoccupazioni ben consapevole che il Signore e la sua Parola sono e saranno sempre “segno di contraddizione”. Noi suoi discepoli, noi sua Chiesa, non possiamo lasciarci condizionare nella nostra testimonianza dalla paura di suscitare contraddizioni nello spirito umano e nella società che ci circonda. Non possiamo fare a meno di predicare il giudizio di Dio sulla responsabilità dell’uomo nell’accogliere la sua Parola. L’amore per i fratelli, però, ci spinge a spianare loro la strada, il più possibile, perché possano sentirsi desiderati e accolti dalla comunità dei credenti.

La traduzione

È ciò che hanno fatto a loro tempo i vescovi italiani quando pubblicarono la prima traduzione del Messale di Paolo VI, adottando – fra le diverse traduzioni del pro multis del Messale latino che sulla base di una valida esegesi del corrispondente testo evangelico risultavano possibili – l’espressione italiana “per tutti”. Era questa, del resto, l’espressione più coerente con le parole che si rivolgono al Padre nella Preghiera eucaristica IV: «Nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro»; con quelle della II Preghiera eucaristica della riconciliazione: «Ti sei fatto vicino ad ogni uomo»; e con quelle che si pronunciano nella Preghiera eucaristica V/d: «Offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo Regno». Tutti sappiamo quanto sia complesso il problema della traduzione e, soprattutto, quello di tradurre dal greco e dal latino alle lingue vive, parlate oggi, in una continua evoluzione dei significati e della potenza emotiva delle parole. Non stupisce, quindi, che la questione delle traduzioni liturgiche susciti dovunque innumerevoli dibattiti. Non mancano anche in Italia varietà di opinioni e vivacità di proposte in vista della nuova edizione del Messale che, attualmente, dopo l’approvazione dei vescovi, è all’esame della Santa Sede per la necessaria recognitio. Il libretto di Francesco Pieri (Per una moltitudine, Dehoniane 2012) ne dà un’accurata esposizione e offre una possibile soluzione intermedia fra le diverse proposte. Pluralità di pensieri, diversità di preoccupazioni, accenti posti diversamente su questo o quel particolare, non dovrebbero essere reputati da nessuno come fenomeni negativi. In virtù della sua cattolicità, nella Chiesa «le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità».

Le diversità poi si moltiplicano «legittimamente in seno alla comunione della Chiesa», poiché sono le molte diverse «Chiese particolari, con proprie tradizioni», che ne compongono la vitalità, «rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13). Unità nella diversità delle forme Il ministero papale cura l’unità e tutela le varietà legittime, perché si rapporta costantemente al collegio episcopale il quale, «in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo» (LG 22). Ora, l’unità della Chiesa si realizza nella moltitudine delle forme linguistiche della medesima fede e in questo gioco fra diversità e unità, nelle espressioni verbali della fede, è ovvio pensare che si debba partire dal giudizio dei vescovi che vivono all’interno di un determinato popolo, ne parlano ogni giorno la lingua, ne conoscono tutte le inflessioni particolari e sono in grado di vagliarne la potenza comunicativa.

Preso atto di questa competenza, difficilmente estensibile ad altri che parlano altre lingue, il vaglio che la Santa Sede opera nell’atto della recognitio dei testi liturgici resta necessario, per assicurarne l’accoglienza nel concerto della Chiesa cattolica, conferendo l’ultima e suprema garanzia della loro ortodossia. Ora, nel caso italiano, la garanzia dell’ortodossia dell’espressione «versato per tutti» è già stata data nelle precedenti edizioni del Messale in italiano e non ha più bisogno di essere messa in discussione. Fra l’altro, già la lettera della Congregazione per il culto del 2006, come la recente lettera del Papa ai vescovi tedeschi, confermano la validità della formula più diffusa nelle diverse traduzioni, corrispondente al nostro “per tutti”. Ne risulta quasi ovvio il fatto che la Conferenza episcopale italiana, con il consenso della stragrande maggioranza dei vescovi, ne abbia proposto la conservazione nella nuova edizione del Messale. Né si va lontano dal vero se si suppone che nel popolo di Dio ci siano, ampiamente condivisi, il desiderio e la speranza di poter continuare, da parte dei preti a pronunciare e da parte degli altri fedeli a sentir dire nella Chiesa, che il corpo immolato di Gesù e il suo sangue versato, pur dovendo ciascuno esaminare la propria coscienza prima di riceverli, sono un dono offerto a tutti.

Severino Dianich

vita pastorale gennaio 2013