Per non dimenticare don Fabrizio … L’amore per la Parola di Dio

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don Fabrizio Crotti nel suo studio pronto per la registrazione settimanale del Commento alle letture della Domenica… La Direzione di una grande e famosa Casa Editrice lo contattò per realizzare un libro delle sue omelie (il Direttore le aveva trovate originali e radicate nella Scrittura e nella Teologia)… Rifiutò con molto garbo la richiesta… ritenendosi non adatto a scrivere e pubblicare per un libro…!

Riproponiamo il video di un suo ultimo commento online (in basso)

 

Pasqua di Risurrezione Anno B. Il sepolcro vuoto, annuncio di una vita indistruttibile

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. […]

Una tomba, un giardino, una casa e un andare e venire di donne e di uomini. Maria di Magdala esce di casa quando è ancora notte, buio nel cielo e buio nel cuore. Non ha niente tra le mani, solo il suo amore che si ribella all’assenza di Gesù: «Amare è dire: tu non morirai!» (G. Marcel). È pieno di risonanze del Cantico dei Cantici il Vangelo del mattino di Pasqua: ci sono il giardino, la notte e l’alba, la ricerca dell’amore perduto, c’è la corsa, le lacrime, e il nome pronunciato come soltanto chi ama sa fare.
Maddalena ha un gran coraggio. Quell’uomo amato, che sapeva di cielo, che aveva spalancato per lei orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Tutto finito. Ma perché Maria si reca al sepolcro? «Perché si avvicinò alla tomba, pur essendo una donna, mentre ebbero paura gli uomini? Perché lei gli apparteneva e il suo cuore era presso di lui. Dove era lui, era anche il cuore di lei. Perciò non aveva paura» (Meister Eckhart).
E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente, nel fresco dell’alba. E fuori è primavera. Il sepolcro è aperto come il guscio di un seme. E vuoto.
Maria di Magdala corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo. È sempre lei, la donna forte accanto alla croce, stordita in faccia al sepolcro vuoto, sempre nominata per prima negli elenchi delle donne che seguono Gesù, è lei che rimette in moto il racconto della fede.
Sugli apostoli era piombato un macigno. Il dolore a unghiate aveva scavato il cuore. Ma loro hanno comunque fatto una scelta intelligente: stanno insieme, non si separano. Uno da solo può essere travolto, insieme invece si fa argine, insieme si può correre e arrivare più lontano e più in profondità: uscirono allora Simon Pietro e l’altro discepolo e correvano insieme tutti e due…
Insieme arrivano e vedono: manca un corpo alla contabilità della morte, manca un ucciso ai conti della violenza. I loro conti sono in perdita. Quell’assenza richiede che la nostra vista si affini, chiede di vedere in profondità. «Non è qui» dice un angelo alle donne. Che bello questo «non è qui». Lui è, ma non qui; lui è, ma va cercato fuori, altrove; è in giro per le strade, è in mezzo ai viventi; è «colui che vive», è un Dio da sorprendere nella vita. È dovunque, eccetto che fra le cose morte. È dentro i sogni di bellezza, in ogni scelta per un più grande amore, è dentro l’atto di generare, nei gesti di pace, negli abbracci degli amanti, nella fame di giustizia, nel grido vittorioso del bambino che nasce, nell’ultimo respiro del morente. E chi vive una vita come la sua ha in dono la sua stessa vita indistruttibile.
(Letture: Atti 10,34a.37-43; Salmo 117; Colossesi 3,1-4; Giovanni 20,1-9)

di Ermes Ronchi – Avvenire

DOMENICA DI PASQUA – RISURREZIONE DEL SIGNORE (ANNO B) Foglietto, Letture e Salmo

Grado della Celebrazione: SOLENNITA’
Colore liturgico: Bianco

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Che cos’è che fa correre l’apostolo Giovanni al sepolcro? Egli ha vissuto per intero il dramma della Pasqua, essendo molto vicino al suo maestro. Ci sembra perciò inammissibile un’affermazione del genere: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura”. Eppure era proprio così: non meravigliamoci allora di constatare l’ignoranza attuale, per molti versi simile. Il mondo di Dio, i progetti di Dio sono così diversi che ancor oggi succede che anche chi è più vicino a Dio non capisca e si stupisca degli avvenimenti.
“Vide e credette”. Bastava un sepolcro vuoto perché tutto si risolvesse? Credo che non fu così facile. Anche nel momento delle sofferenze più dure, Giovanni rimane vicino al suo maestro. La ragione non comprende, ma l’amore aiuta il cuore ad aprirsi e a vedere. È l’intuizione dell’amore che permette a Giovanni di vedere e di credere prima di tutti gli altri. La gioia di Pasqua matura solo sul terreno di un amore fedele. Un’amicizia che niente e nessuno potrebbe spezzare. È possibile? Io credo che la vita ci abbia insegnato che soltanto Dio può procurarci ciò. È la testimonianza che ci danno tutti i gulag dell’Europa dell’Est e che riecheggia nella gioia pasquale alla fine del nostro millennio.

 

Commento al vangelo della Trasfigurazione

Solitamente nel vangelo odierno si vede:
– Un’anticipazione della gloria di Cristo (cf in Gv 12,28 1a voce del Padre: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!»). Il suo volto è trasfigurato, come più tardi lo sarà il volto del risorto, che richiederà del tempo per essere riconosciuto.
– Un sostegno alla fede degli apostoli. Pietro, Giacomo e Giovanni saranno i testimoni dell’agonia, quando Gesù in persona, e non più gli apostoli, «cominciò a provare tristezza e angoscia… si prostrò con la faccia a terra» (Mt 26,37-39). Poco prima della Trasfigurazione, Pietro aveva confessato la fede in Gesù Figlio di Dio: la voce del Padre viene a confermare questa professione di fede e il commento fattone da Gesù: «Il Padre mio che sta nei cieli (te l’ha rivelato)» (Mt 16,13-20).

Ma questa fede di Pietro era ancora molto debole
Poco dopo la sua «confessione», egli aveva manifestato la sua totale incomprensione del mistero della croce e Gesù l’aveva trattato come «Satana» (Mt 16,13-23). Forse questo contesto di tensione fra Pietro e Cristo può spiegare il timore menzionato da Matteo. Timore sacro che l’incontro col divino provoca nell’uomo, e che Gesù viene amichevolmente a placare con un gesto fraterno notato solo da Matteo.
– Una conferma della natura di Gesù e della sua missione profetica: «Il Figlio mio… ascoltatelo».
Una lettura più approfondita ci mostra Gesù come:
– L’erede di tutto l’Antico Testamento. Lo attestano la presenza di Mosè e di Elia, i due grandi profeti, i due testimoni (che ritroviamo in Ap 11,3); e anche i due la cui morte supera la sorte comune (la tomba di Mosè non fu mai ritrovata ed Elia fu portato via su un carro di fuoco).
– «Il profeta» annunciato dal Deuteronomio che prenderà il posto di Mosè: «Un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (Dt 18,15, citato in At 7,37). Come il volto di Mosè era raggiante alla sua discesa dal Sinai (Es 34), il volto di Gesù «brillò come il sole». Questo particolare è proprio di Matteo, mentre Marco e Luca si accontentano di affermare che il volto di Gesù cambiò aspetto.
– Colui che sta preparando la nuova Pasqua. L’«alto monte», il sopraggiungere della nube, il timore che essa provoca ricordano il Sinai; le tende che Pietro vuol costruire ricordano il deserto.

Il racconto della Trasfigurazione in Matteo
Pur dipendendo da Marco (9,2-10), Matteo rielabora i dati della tradizione in forma abbastanza libera, accentuando soprattutto i tratti letterari «apocalittici» nel suo racconto e attingendo non poco da Daniele (cf 10,1-11, ecc.): così, ad esempio, il volto di Gesù diventa luminoso come il sole e le sue vesti come la luce; i discepoli cadono bocconi a terra assaliti da timore; Gesù li tocca e li rincuora, invitandoli ad alzarsi e a non temere, ecc. Tutto questo serve a creare il senso del mistero e della «trascendenza». Gesù si manifesta come uno che appartiene a un «mondo» e a una realtà diversi da quelli della nostra esperienza. Il «regno di Dio», sia pure per un attimo, in lui si manifesta in totalità e pienezza con tutti i «segni» che lo costituiscono e lo caratterizzano.
Quel «regno di Dio», a cui non soltanto rendono testimonianza i più significativi personaggi del pessato, come Mosè ed Elia, ma di cui fanno anche parte: il che equivale a dire che esso è una realtà «omnicomprensiva» che, pur trovando in Cristo la sua pienezza, si compone e si arricchisce della presenza e dell’apporto di tutti. In questo senso è evidente che Cristo da solo non basta a costituire il regno di Dio!
Il mistero non è però sufficiente a spiegarsi da solo: nelle visioni apocalittiche, infatti, ricorre come costante letteraria il suono di una «voce» che viene dal cielo a illustrare il senso delle cose e dei personaggi in gioco, proprio come capita nel nostro caso: «Ed ecco una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”» (Mt 17,5).
Ciò nonostante il senso del mistero rimane, per il semplice fatto che subito dopo i tre discepoli, che Gesù aveva prescelti per questa singolare esperienza, e cioè Pietro, Giacomo e Giovanni, si ritrovano davanti al Gesù di tutti i giorni: «All’udire ciò i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore, ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: “Alzatevi e non temete”. Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo» (vv. 6-8). Quello che avevano visto e udito sembrava loro niente più che un incantesimo, o un’illusione!
Tanto più che Gesù stesso interviene per proibire di divulgare questo fatto prima della sua Risurrezione: «E mentre discendevano dal monte Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”» (v. 9).

La Trasfigurazione come «anticipazione» della gloria pasquale
Perché questa proibizione? La ragione non è per niente chiara. Io ritengo che il motivo sia da ricercare nel fatto che la Trasfigurazione, per un verso è come un’anticipazione, sia pure ancora incerta, del mistero della Risurrezione che immette già nella gloria definitiva del mondo «futuro»; e, per un altro verso, solo attraverso la futura esperienza della Risurrezione i discepoli di Gesù potevano afferrare il mistero di quei pochi attimi di gloria e di felicità, che Pietro era stato invece tentato di prolungare all’indefinito: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia» (v. 4).
Bisognava perciò attendere la Risurrezione per penetrare fino in fondo il mistero e comprendere la «continuità» fra il Gesù «terreno» e il «Signore della gloria». La Trasfigurazione rappresenta precisamente l’anello di saldatura fra le due esperienze che gli Apostoli hanno avuto di Cristo: dal sepolcro non è venuto fuori un personaggio fantastico, inventato dalla immaginazione amorosa dei suoi discepoli e neppure creato dalla onnipotenza di Dio, ma un personaggio «concreto» che, se soltanto adesso rifulge della «gloria» abbagliante della divinità, questa «gloria» la possedeva già prima, come mostra appunto l’evento misterioso della Trasfigurazione. Per questo molti studiosi parlano di essa come di una esperienza pasquale «anticipata».
Tutto questo si capisce anche meglio se si pensa alla precisa collocazione del nostro testo. Esso viene subito dopo l’annuncio della passione e morte del Figlio dell’uomo, dopo le rimostranze di Pietro e l’invito ai discepoli a seguire il Maestro sulla via della croce: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,21-28). Con ciò si vuol dire che al di là della passione esiste per Gesù un futuro di gloria e che in lui non c’è frattura tra la sua missione di Servo sofferente di Jahvè e quella di giudice glorioso ed escatologico, che gli compete in quanto «Figlio dell’uomo» già predetto da Daniele (7,13-14).
Solo l’esperienza di Pasqua poteva perciò aiutare i discepoli a mettere insieme questi due aspetti così contrastanti dell’unica personalità e dell’unica esperienza salvifica di Cristo.
Tutto questo, del resto, non è facile neppure per noi dopo duemila anni di cristianesimo, almeno a livello esistenziale. Ed è per questo che la voce, che proclamò solennemente al mondo Gesù come «Figlio prediletto» del Padre (cf Is 42,1 e Mt 3,17), aggiunse anche: «Ascoltatelo» (v. 5).
Il riferimento corre qui al Profeta futuro, atteso come un secondo Mosè, per proclamare al popolo la Parola ultima e definitiva di Dio: «Il Signore tuo Dio susciterà per te… un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (cf Dt 18,15).
L’«ascoltare», però, ha un’ampiezza ben più vasta, come risulta da tutto il contesto: è la capacità di accettare Cristo, alla luce della fede, come colui nel quale si incrocia il mistero della umiliazione e della gloria, della sofferenza fino alla morte e della risurrezione, e di seguirlo su questa via di apparente contraddizione ma di profonda armonia di valori e di esperienze vitali. È un «ascoltare» che si traduce in un «riesperimentare» e in un «rivivere».

Occorre essere esperti di tenebre per comunicare la speranza.

Il viaggio della vita terrena ha come meta ultima la vita, la casa del Padre, la comunione perfetta.
C’è l’invito ad essere viandanti, non nomadi.

Il viandante va, ha nel cuore la nostalgia per ciò che ha lasciato, ma anche la passione e la premura di raggiungere la meta.
Il viandante si mette in marcia con un carico leggero perché la strada è lunga ed egli lo sa, però può diventare benedizione per chi incontra.
Il viandante è obbediente ad una chiamata e lungo il cammino impara ad ascoltare il ritmo della vita della strada, e ciò che compie non è per la sua brama, per la sua volontà, ma perché nell’ascolto attento entra nella realizzazione del progetto di Dio.

Tutto questo va fatto in un percorso di speranza.
La speranza è come quella luce sul monte della trasfigurazione.
Luce che subito si spegne perché bisogna riprendere la strada nella notte.
Ma intanto quella luce si è accesa e tu sai che c’è.
Per avere la speranza e poterla comunicare bisogna essere esperti di tenebre.
Per questo, la luce del Tabor viene fatta risplendere mentre si cammina verso la croce di Gesù.
Anche chi ritiene di non avere la fede, e non porta ancora dentro di sé la luce del Risorto, può essere in grado di sperare.
E lo può proprio perché, nella sua strada di notte, qualcosa è venuto a spezzare per un momento le tenebre,
e la luce di quell’istante è diventata la forza segreta del suo cammino che è, nello stesso tempo,
nel buio della notte e nell’attesa paziente di un’alba luminosa della storia.

L’ultima decisiva partenza di ogni uomo è quella che si lascia alle spalle ogni sicurezza e si abbandona a Dio per un futuro che è solo promessa.

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