Donne nella Chiesa, presenza più incisiva

Si è svolto nel mese di dicembre, il convegno «Trascendenza ed esperienza nell’orizzonte di una fede incarnata. IV tavola rotonda Donne e religioni», presso la Fondazione Scienze Religiose Giovanni XXIII a Bologna, organizzato dall’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD).

L’Osservatorio nasce nel marzo del 2019 con la firma di un protocollo d’intesa da parte di donne appartenenti alle fedi religiose cristiana, ebraica, mussulmana, buddhista, induista «unite nel comune obiettivo di operare contro ogni tipo di violenza nei confronti delle donne e per la loro promozione all’interno delle loro Comunità di fede e nella società» (dallo Statuto).

Tra i vari interventi proposti durante la tavola rotonda, nella quale hanno preso la parola donne appartenenti a religioni diverse, segnalo quelli di Cettina Militello, Carla Galetto e Paola Cavallari. Nel suo intervento la teologa cattolica Cettina Militello ha ricordato che la profezia delle donne nella vita della Chiesa italiana è visibile a diversi livelli. Se è vero che «il problema nella Chiesa cattolica è stato il discernimento dello spirito profetico gestito dalla gerarchia maschile», è pur vero che c’è stato negli ultimi decenni tutto un fermento, che rivela segni positivi della presenza delle donne nella Chiesa e nella società italiana. Si va, allora, dalla presenza di donne nelle cattedre di Teologia, alla testimonianza in forma di martirio delle religiose morte in Africa a causa dell’ebola. Significativa è anche la costituzione del Coordinamento delle teologhe italiane, con una notevole e qualificata produzione teologica.

Incisivo e con uno stile biografico è stato l’intervento di Carla Galetto, appartenete alla comunità di base di Pinerolo.

«Abbiamo attivato una comunità di base – ha raccontato Carla – un percorso radicalmente nuovo, uomini e donne insieme. Abbiamo creato un rapporto con femministe che ci ha permesso di entrare in dialogo con varie realtà di base e teologiche.

Ci siamo confrontate a lungo sulla nostra differenza sessuale e abbiamo deciso di uscire da un sistema maschile precostituito».

Secondo Carla, il percorso intrapreso ha prodotto nel tempo alcuni cambiamenti negli uomini, un cammino di autocoscienza maschile e ciò ha permesso di provocare nuove riflessioni su temi delicati come la prostituzione. Da ultimo, segnalo l’intervento della teologa Paola Cavallari, animatrice dell’OIVD. Dopo aver ricordato che «divenire coscienza non è tendere all’indipendenza, ma va compreso nel percorso di farsi strada di un sé a fatica», la Cavallari ha ricordato la testimonianza di tre donne che, per la loro testimonianza possono essere considerate delle vere e proprie profetesse dei giorni nostri, vale a dire: Ivone Gebara, Carla Lonzi e Anna Deodato. I tanti interventi in sala hanno testimoniato il valore delle relazioni proposte.

Lavoro, in Italia sono oltre 7 milioni le donne ‘inattive’

Randstad Research, rappresentano il 43% nella fascia 30-69 anni. Il tasso di inattività è fermo dal 1990 ad oggi e riguarda soprattutto il Sud con il 58% delle donne inattive

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In Italia le donne inattive tra i 30 e i 69 anni sono oltre 7 milioni. Un numero troppo alto, se si considera che rappresentano il 43% delle donne in questa fascia d’età, mentre nella media Ue le donne che non lavorano né cercano occupazione sono il 32%, in Germania il 24% e in Svezia 19%.

Troppe se rapportate al numero di poco più di 20 milioni di occupati.

E un numero notevole sia a livello sociale che economico: la maternità comporta conseguenze sulla scelta ma l’inattività si prolunga oltre il periodo in cui scelgono di concentrarsi sulla famiglia, per l’assenza di supporti. E’ quanto risulta in una ricerca di Randstad Research.

Si tratta nel complesso di “un fenomeno apparentemente immutabile, se si considera che a livello aggregato il tasso di attività è rimasto fermo dal 1990 ad oggi, che colpisce soprattutto il Sud e le isole, dove più di una donna su due (il 58%) è inattiva, mentre al Nord tre su dieci. Nella fascia di età 30-69 anni le donne inattive sono in stragrande maggioranza casalinghe a tempo pieno (4,5 milioni), per scelta o “obbligate”, come conseguenza di scoraggiamento per le barriere all’ingresso e al reingresso nel mercato del lavoro. E poi pensionate (2,5 milioni, tra pensioni di anzianità, sociali e di invalidità), con una prospettiva della terza età più incerta degli uomini, a causa di pensioni inferiori, raggiunte in età più giovane. Il tasso di inattività femminile è fortemente legato all’età: dal 70,6% delle donne attive tra i 35 e i 44 anni si scende al 47,4% tra i 55 e i 64 anni. Quali soluzioni? In un paese in cui la spesa pubblica in asili nido è solo lo 0,08% del Pil, tra le più basse d’Europa, l’investimento da 4,6 miliardi di euro previsto dal PNRR per aumentare di quasi 265 mila posti i servizi della prima infanzia va nella giusta direzione. Ma per completare lo sforzo, servirebbero congedi parentali meglio distribuiti e un sistema fiscale che non penalizzi il lavoro del secondo lavoratore della famiglia. L’uguaglianza di genere nella cura dei bambini può essere promossa attraverso il diritto individuale a un congedo non trasferibile, ben remunerato e di uguale durata per donne e uomini. Un altro ambito in cui investire è quello della formazione. Anche perché per le donne, il livello di istruzione sembra avere un’importanza particolarmente alta, più che per gli uomini, a discapito dell’esperienza e di altri fattori che possono contribuire all’occupabilità.
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PROGETTO REFLEX La community di welfare aziendale per donne e famiglie

L’Intelligenza artificiale al servizio delle donne e delle imprese. Questo in sintesi il senso dell’applicativo digitale per la conciliazione vita-lavoro realizzato nell’ambito del progetto ‘ReFlex – la Community di welfare aziendale’, presentato ieri a Roma.

ReFlex è finanziato dalla Commissione europea e cofinanziato dal Dipartimento per la Politica della famiglia della presidenza del Consiglio dei ministri. Le attività progettuali di carattere scientifico sono realizzate dal-l’Istituto per la Ricerca sociale e l’Università degli studi Roma Tre. L’obiettivo del progetto è quello di incoraggiare la promozione di azioni di welfare aziendale per favorire il superamento del divario di genere attraverso un maggiore equilibrio tra vita lavorativa e vita personale, la condivisione del lavoro di cura familiare e il supporto alla genitorialità, diventando in futuro un punto di riferimento per tutte le imprese italiane.

Come spiegano gli organizzatori in una nota, sullo sfondo c’è la necessità di ricostruire un modello sociale che non ha funzionato. Infatti, lo schema del «distinguere le esperienze personali, in modo sconnesso, tra la vita familiare, lavorativa, delle relazioni pubbliche, su cui per anni abbiamo costruito il nostro Paese non ha retto all’esperienza drammatica della pandemia. Questa ha messo in luce quanto invece oggi sia necessario ricostruire le connessioni, l’integrazione tra le nostre esperienze di umanità ». «Questo progetto va esattamente su questa linea, ovvero sulla necessità di attuare delle politiche che sappiamo ricomporre in modo organico, coerente, sistemico l’esperienza di vita delle donne e degli uomini », ha detto Elena Bonetti, ministra per le pari opportunità e la famiglia. Il ricostruire le connessioni richiama al tema delle alleanze. La ministra rispondendo ad una domanda sull’argomento ha sottolineato che: «È il momento in cui le politiche pubbliche devono sempre più attivare alleanze sociali. Perché, lo ha detto più volte il presidente Mattarella, la pandemia ci ha insegnato che solo nel consolidare l’elemento di solidarietà e corresponsabilità sociale e comunitaria, possiamo non solo emergere da questo momento drammatico, ma ricostruire un percorso di un futuro che sia davvero migliore. Credo che in questa dinamica, soggetti differenti, mondo dell’accademia, delle imprese e delle politiche pubbliche, debbano attivare dei processi che permettano a ciascuno di poter contribuire alla ripartenza dello sviluppo complessivo».

Luca Pietromarchi, rettore dell’università di Roma Tre, ha spiegato il ruolo della ricerca scientifica nel progetto: «L’ateneo con il suo dipartimento di ingegneria si pone come raccordo tra la famiglia e le aziende. Tra le esigenze della donna che lavora e le necessità dell’impresa che la impiega. In questa applicazione si potrà trovare tutto quello che il mondo del lavoro e del welfare offrono come opportunità per coniugare maternità, lavoro a casa, asili nido e molto altro. Tutto ciò è governato da un’applicazione che abbiamo messo a punto nei nostri laboratori di intelligenza artificiale».

Infine, gli inventori di questo strumento, Francesco Riganti Fulginei e Antonio Laudani di Roma Tre hanno spiegato che questa App è accessibile sia da sito web che da cellulare e grazie ad un algoritmo studiato ad hoc andrà sempre migliorandosi con dati, contenuti e servizi.

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Donne. Un reddito di libertà per le vittime di violenza. Che nessuno può (ancora) usare

Il dispositivo del governo prevede 400 euro al mese per un anno: già stanziati 3 milioni di euro. Mancano, però, i decreti attuativi e i fondi restano al palo. I centri: «Così non possiamo aiutarle»
Un reddito di libertà per le vittime di violenza. Che nessuno può (ancora) usare
Avvenire

Si chiama “reddito di libertà” e in giorni di nuovi, efferati femminicidi, sembra quasi fuori luogo parlarne. Che c’entrano i soldi, con la violenza di un uomo? «Servono misure restrittive ancora più stringenti, serve applicarle con immediatezza e competenza» ripetono i politici e le associazioni dopo i fatti di Catania, con Vanessa presa per i capelli e ammazzata a colpi di pistola dal suo ex. E invece anche i soldi servono, perché tantissime donne dai propri mariti, compagni, o ex non riescono a liberarsi perché non possono farlo. Non hanno le disponibilità per comprare una casa dove andare a vivere senza di loro, non hanno i risparmi che consentano loro di staccarsi dal lavoro per un certo periodo e intraprendere un percorso in un centro antiviolenza, più spesso non sanno come mantenersi assieme ai figli, specie se piccoli. Si resta schiave, allora. E si finisce per morirne.

Il governo, sensibilizzato da chi con le vittime lavora ogni giorno, negli ultimi anni ha fatto passi da gigante nel riconoscere anche il peso della violenza economica e il risultato, lo scorso dicembre, è stato lo stanziamento di fondi nella legge di Bilancio destinati proprio all’erogazione di un reddito di libertà: 3 milioni di euro, da dividere in tranche da 400 euro mensili, erogabili (fino al massimo di un anno) alle donne maltrattate che si siano rivolte a un centro specializzato. Non molti, a dire il vero: fatti due conti, basteranno per il sostegno di 625 progetti, contro le oltre 20mila richieste d’aiuto di cui per esempio solo la rete Dire dei centri antiviolenza si fa carico ogni anno. «Ma il segnale è davvero positivo – spiega Cristina Carelli, che di Dire è consigliera nazionale per la regione Lombardia, oltre che coordinatrice generale della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) – e noi vogliamo guardare a questo. Le istituzioni hanno finalmente capito che la violenza agisce su più piani: quello psicologico, quello sociale e quello economico appunto. E che le intenzioni, da sole, non bastano. Spesso le donne non possono materialmente allontanarsi dalla violenza: le case rifugio, che pure noi mettiamo a disposizione, sono una soluzione drastica che in molti casi potrebbe essere evitata, se solo ci fosse la possibilità di affittare una stanza o una casa in cui vivere al sicuro».

Sul dispositivo, che è entrato in Gazzetta ufficiale a fine luglio, le aspettative sono dunque alte: «Anche il nome che gli è stato dato, “reddito di libertà”, incarna perfettamente l’obiettivo dei percorsi che mettiamo in campo – continua Carelli –: quello di liberare le donne, restituendo loro l’autonomia e la dignità di persone che la violenza ha tolto e che toglie sempre». Peccato che manchino ancora i decreti attuativi per poterne fare richiesta: tutte le indicazioni, cioè, che concretamente permettano ai centri di aprire le pratiche, mettendosi in dialogo con l’Inps (l’ente erogante) e coi servizi sociali (il terzo soggetto che deve entrare in campo per certificare il reale stato di fragilità della donna): «Il dispositivo c’è – spiega insomma Carelli –, ma non sappiamo ancora come attivarlo. Senza contare la criticità legata proprio al ruolo dei servizi sociali: noi operatrici siamo ovviamente disponibili a tutte le interlocuzioni necessarie con questi ultimi, ma il rischio è che i tempi si allunghino in maniera insostenibile (sappiamo benissimo che difficoltà scontino i servizi in termini di risorse e personale) e che non ci sia la formazione adeguata a comprendere la reale vulnerabilità delle donne con cui lavoriamo». Per intendersi, ed è il caso più frequente: le donne che hanno una casa in comproprietà col maltrattante nella maggior parte dei casi non hanno la possibilità economica di affittare o di acquistare un’altra casa dove andare a vivere per sfuggire alle violenze «ma se si guardasse solo all’Isee, in questo caso non verrebbe affatto certificata la realtà della loro situazione». Così, delle 500 donne mediamente seguite al Cadmi di Milano «almeno 200 avrebbero tutti i requisiti per ricevere il reddito di libertà. La nostra speranza, ovviamente, è che abbiano la possibilità concreta di riceverlo». Che per ora, tuttavia, non c’è.

Al di là dei pasticci burocratici (l’Inps proprio in queste ore si sta confrontando con la rete dei centri antiviolenza per mettere a punto i decreti attuativi vacanti, che si spera vengano emanati al più presto), il tema della formazione di chi è chiamato a “certificare” la violenza subita resta cruciale «e purtroppo irrisolto. Lo abbiamo visto anche nel caso della giovane di Catania, lo vediamo ripetersi come un triste copione in tutti i femminicidi a cui assitiamo – conclude Carelli –. Troppi dei soggetti istituzionali coinvolti non sono ancora in grado di riconoscere i segnali della violenza: medici, poliziotti, giudici. Possono esserci le migliori leggi del mondo, ma il sistema va messo ancora a punto. E può esserci anche la denuncia, ma la denuncia da sola non basta se la donna viene lasciata sola, se la denuncia cioè non entra in una rete strutturata di aiuto che mette insieme tutte le azioni e le valutazioni volte a valutare i rischi». Dalla violenza si esce – «e si esce per davvero, è altissima la percentuale di riuscita dei percorsi nei nostri centri» – solo insieme.

Arriva il Vax day per l’Italia, le donne protagoniste

311 giorni dopo la scoperta all’ospedale di Codogno del ‘paziente uno’, il 38enne Mattia Maestri, oltre due milioni di contagiati e quasi 72mila morti, arriva finalmente il Vax Day: le prime 9.750 dosi del farmaco anti Covid sono in Italia per essere somministrate a operatori sanitari, personale e ospiti delle Rsa, le due categorie prioritarie individuate dal governo. “Intravediamo il primo spiraglio di luce dopo una lunga notte” sottolinea il Commissario per l’Emergenza Domenico Arcuri parlando di un giorno “simbolico ed emozionante”.

Le fiale del vaccino sono arrivate all’ospedale Spallanzani di Roma dopo un viaggio iniziato alla Vigilia di Natale dalla fabbrica della Pfizer in Belgio ed ora sono conservate in celle frigorifere in grado di mantenere una temperatura di -75 gradi, come richiesto dalla casa farmaceutica. Una parte di esse è stata caricata in contenitori termici a bordo dei mezzi dell’Esercito e consegnata in tutti i punti di somministrazione entro i 300 chilometri da Roma mentre le dosi destinate alle regioni più distanti sono state trasferite nell’hub predisposto dalla Difesa all’aeroporto militare di Pratica di Mare e consegnate con 5 aerei nel resto d’Italia. A riceverne il maggior numero è la Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia e anche questo è un altro simbolo di una giornata che sarà uguale per tutta l’Europa: ha avuto 1.620 dosi suddivise in 324 fiale. Subito dopo c’è l’Emilia Romagna, che ha ricevuto 975 dosi, il Lazio (955), il Piemonte (910) e il Veneto (875), la regione che invece è più in difficoltà in questa seconda fase. “Siamo convinti che i cittadini comprenderanno l’importanza di questo momento” dice ancora Arcuri auspicando che la stragrande maggioranza degli italiani scelga di vaccinarsi.

E c’è un altro simbolo nel giorno del vaccine Day ed è la decisione di molte regioni di scegliere come testimonial della campagna una donna; infermiere, operatrici sanitarie e dottoresse che da mesi sono in prima linea. Come Claudia Alivernini, infermiera 29enne che lavora proprio nel reparto malattie infettive dello Spallanzani e in questi mesi di emergenza ha fatto parte delle squadre Uscar che hanno assistito e curato a domicilio molti anziani. E’ la prima vaccinata del Lazio. “E’ un atto d’amore e di responsabilità nei confronti della collettività – ha detto nei giorni scorsi – con orgoglio rappresento tutti gli operati sanitari che come me sono stati in prima linea”. In Lombardia il Vax Day ha il volto di due lavoratrici del Niguarda di Milano – l’operatrice socio-sanitaria Adele Gelfo e l’addetta alle pulizie Grazia Presta – e di un’infermiera del reparto di rianimazione dell’ospedale di Codogno, lo stesso dove fu individuato a febbraio il paziente uno. La somministrazione, ennesima scelta simbolica, avverrà nella stessa stanza dove l’anestesista Annalisa Malara, forzando il protocollo, chiese ed ottenne di sottoporre Mattia al tampone. A Genova tocca invece a Gloria Capriata, infermiera della Rianimazione del Policlinico San Martino. “Faccio il vaccino in tutta tranquillità e con orgoglio

– dice – Vacciniamoci, è un gesto importante”. E’ una donna
anche il primo vaccinato a Napoli, il medico del pronto soccorso del Cardarelli Filomena Ricciardi, e in Puglia, dove a ricevere la prima dose al Policlinico di Bari è Lidia Dalfino, 52 anni figlia dell’ex sindaco Enrico Nicola Dalfino, rianimatrice e coordinatrice della terapia intensiva Covid. Ma il vaccino in questo primo giorno di somministrazione non è solo per gli ospedali: protagonisti sono anche gli operatori delle Rsa, come la ventina di infermieri e fisioterapisti della ‘Residenza Dorica’ di Ancona, tra i primi a riceverli nelle Marche.

Messi da parte i simboli, la campagna vaccinale vera e propria inizierà a partire da lunedì: secondo i piani di Arcuri e del governo dovrebbero arrivare tra le 420mila e le 450mila dosi a settimana del vaccino Pfizer, che verranno distribuiti direttamente dalla casa farmaceutica nei 294 punti di somministrazione individuati dalle regioni. Si andrà avanti così per almeno un mese con l’obiettivo di vaccinare tutto il personale sanitario (1,4 milioni di persone) e i 570mila tra personale e ospiti delle Rsa. All’inizio di gennaio, inoltre, dovrebbe arrivare il via libera per il vaccino di Moderna e poi a seguire per quelli delle altre case farmaceutiche, tanto che l’Italia ha previsto di avere nel primo trimestre del 2021 la disponibilità oltre 28 milioni di dosi: 8,7 di Pfizer, 1,3 di Moderna, 2 di Curevac e 16,1 di Astra Zeneca. Dosi che saranno sempre i militari a distribuire in tutta Italia, nei 1.500 punti di somministrazione realizzati anche nelle piazze d’Italia: dei gazebo a forma di primula, il primo fiore che rinasce dopo l’inverno, per convincere quanti più italiani possibile a vaccinarsi. (ANSA).

Donne e minori, lʼorrore che Telegram non vede

Avvenire

La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – che si tiene ogni anno il 25 novembre – è passata da oltre una settimana.

Ciò che purtroppo non è passato è la violenza di ogni tipo che, ogni giorno, anche nel digitale, colpisce le donne.

A svelarne un tratto molto preoccupante è il rapporto dell’associazione «Permesso negato» che si occupa del supporto tecnologico e feedback legale alle vittime del cosiddetto «revenge porn». E cioè, della diffusione nella Rete di immagini sessualmente esplicite, senza il consenso del soggetto ritratto, spesso con l’intento di vendicarsi dell’ex partner.

Si tratta di un reato, come indicato dal nuovo articolo 612, inserito nel cosiddetto «Codice Rosso», in vigore dal 9 agosto 2019 e che sanziona chi lo commette con la pena della reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. Bandito da motori di ricerca come Google e Bing e da social come Facebook, il crimine del «revenge porn» resta purtroppo presente su altre piattaforme.

Leggendo il rapporto «State of revenge» si scopre che la peggiore di tutti è Telegram. E cioè, il servizio di messaggistica istantanea e broadcasting, fondato da un imprenditore russo, ma con sede a Dubai e che vanta 400 milioni di utenti mensili. Fino a pochissimo tempo fa, il rivale di WhatsApp tollerava tutto. Che si trattasse della violazione di copyright di giornali, film, canzoni o serie tv, fino all’esistenza di canali gestiti da gruppi terroristici, Telegram ha sempre lasciato correre.

Quest’estate, dopo una denuncia di Fieg (la Federazione italiana editori di giornali) e Agcom (l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) si è vista costretta a chiudere 300 canali illegali che offrivano giornali gratis. E qualcosa si sta muovendo anche sul fronte della tutela dei film e delle serie tv, visto che anche alcuni canali pirata di questo tipo sono stati recentemente chiusi.

Per quello che riguarda il rispetto della donna e dei minori, la situazione appare tragica. Scrive nel report «Permesso Negato»: «piattaforme come Telegram paiono apparire compiacenti e sorde anche nel caso di pedopornografia». Su quest’ultimo punto non passa giorno che associazioni come Meter, non scovino e segnalino alle autorità orrori di ogni tipo. Ma se far oscurare un sito (magari estero) può essere complicato, la vicenda relativa alla violazione del copyright dei giornali italiani, ci ha dimostrato che si può ottenere da Telegram di giustizia.

Se pensate che in Italia quello del «revenge porn» su Telegram sia un fenomeno marginale, vi sbagliate di grosso. Soltanto a novembre , l’osservatorio di Permesso Negato ha rilevato «89 gruppi/canali attivi nella condivisione di pornografia non consensuale destinati ad un pubblico italiano». Il gruppo più numeroso annoverava «997.236 utenti unici». In totale «i gruppi sottoposti ad esame hanno rilevato un numero di utenti registrati non unici pari a oltre 6 milioni». È probabile che il 60% degli utenti di ogni canale sia composto dalle stesse persone, ma si tratta di un fenomeno comunque enorme.

Tanto più che «è in rapida crescita nel corso del 2020». Per capirci: nel febbraio 2017 i gruppi rilevati di questo tipo «erano 17 per un totale di 1.147.000 utenti non univoci», a maggio 2020«i gruppi/canali erano 29 per un totale di 2.223.336 utenti non univoci». Oggi, dopo pochi mesi, sono il triplo. Con un’ulteriore aggravante: «La massima parte dei gruppi in osservazione contiene particolareggiate richieste di contenuti che coinvolgono minori». Persino video di «bambine stuprate». Il rapporto «è stato inviato a Telegram, alle forze dell’ordine e all’AgCom». Il minimo che ora dobbiamo tutti pretendere è che almeno si faccia quanto (giustamente) è stato fatto per proteggere il copyright dei giornali.

Quei canali vanno chiusi, senza se e senza ma.

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Gesù e le donne




Settimana News

di: Andrea Lebra

gesu donne

«Vorrei ricordare l’intenzione di preghiera che ho proposto per questo mese di ottobre, che dice così: “Preghiamo perché i fedeli laici, specialmente le donne, partecipino maggiormente nelle istituzioni di responsabilità della Chiesa”. Perché nessuno di noi è stato battezzato prete né vescovo: siamo stati tutti battezzati come laici e laiche. I laici sono protagonisti della Chiesa. Oggi c’è bisogno di allargare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa, e di una presenza laica, si intende, ma sottolineando l’aspetto femminile, perché in genere le donne vengono messe da parte. Dobbiamo promuovere l’integrazione delle donne nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. Preghiamo affinché, in virtù del battesimo, i fedeli laici, specialmente le donne, partecipino maggiormente nelle istituzioni di responsabilità nella Chiesa, senza cadere nei clericalismi che annullano il carisma laicale e rovinano anche il volto della Santa Madre Chiesa» (papa Francesco, Angelus dell’11 ottobre 2020).

Il titolo è intrigante e richiama indubbiamente l’attenzione. Il contenuto è uno studio assolutamente rigoroso che presenta, con un linguaggio semplice e senza complesse disquisizioni esegetiche, i rapporti che Gesù era solito intrattenere con le donne e il mondo femminile. Ne è autrice Christine Pedotti, teologa femminista francese, cristiana di confessione cattolica, giornalista e direttrice del settimanale Témoignage chrétien, fondatrice con Anne Soupa del Comité de la Jupe e della Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones per lottare, rispettivamente, contro la discriminazione nei confronti delle donne e l’emarginazione nei confronti dei laici nella Chiesa.

Parlo del libro Gesù, l’uomo che preferiva le donne, appena edito da Rizzoli Libri (pp. 224) con la traduzione di Andrea Zucchetti, uscito in Francia nel settembre 2018 con il medesimo titolo Jésus, l’homme qui préférait les femmes.

Dieci capitoli, densi di stimoli, che l’autrice ha scritto dopo aver letto con scrupolo e serietà i testi evangelici dove compaiono figure femminili, osservando minuziosamente ogni relazione che Gesù allaccia con loro, ogni occasione di incontro, ogni scambio di gesti e di parole. Testi letti e interpretati tenendo presente il prezioso e affidabile lavoro compiuto negli ultimi decenni dai biblisti che consente di «stabilire con un alto grado di probabilità ciò che appartiene a Gesù e ciò che, più verosimilmente, è una retroproiezione dell’esperienza delle prime comunità di credenti» (p. 11). Ma soprattutto, testi letti e ascoltati con occhi e orecchie non condizionate da due millenni di interpretazioni in larga parte maschili.

Si può affermare che Gesù si comporti con le donne in modo diverso da come è solito comportarsi con gli uomini?

Questa la risposta. «In più di un’occasione Gesù sembra più a suo agio e più rilassato con le donne, mentre è regolarmente infastidito, irritato, dai suoi contemporanei maschi e in particolare da quella che definisce ipocrisia nelle loro pratiche religiose». «In compenso, non troviamo la benché minima parola spregiativa nei confronti delle donne; al contrario, osserviamo da parte di Gesù una costante benevolenza, una particolare attenzione, una forma di tenerezza nei loro riguardi» (p. 14). Il che autorizza ad affermare che non solo Gesù amava profondamente le donne, cercandone e apprezzandone la compagnia, ma che, anzi, le preferiva agli uomini (p. 14).

Le donne dei Vangeli «parlano, reclamano, esigono, supplicano, discutono, e Gesù le osserva, parla con loro, le tocca, le consola, le ammira» (p. 47).

Gesù dà visibilità alle donne e le rispetta anche quando esercitano mestieri degradanti

I nomi propri femminili che troviamo nei Vangeli sono pochissimi. Sono però tante le donne menzionate, pur non avendo un nome proprio. Queste le percentuali di figure femminili presenti nei Vangeli canonici: 40% in Luca, il 30 % in Marco, il 25% in Matteo e il 25% in Giovanni (p. 21).

Nei Vangeli, ancorché scritti in contesti sociali profondamente patriarcali, non troviamo nessuna parola offensiva riguardo alle donne, nei confronti delle quali anche ai tempi di Gesù giravano parecchi detti niente affatto lusinghieri, come la preghiera di benedizione che ogni pio ebreo doveva recitare al mattino perché Dio non lo aveva fatto né schiavo né donna.

Non solo nessuna parola offensiva o spregevole nei confronti delle donne, ma anche – come emerge dal racconto della peccatrice che unge e bacia i piedi di Gesù in casa di Simone il fariseo (Lc 7, 36-50) – profondo rispetto per le donne considerate come oggetti sessuali e frequentate, possibilmente in segreto, da uomini paganti.

Gesù, poi, «non presenta nessuna caratteristica dello scapolo incallito, estraneo e indifferente al mondo femminile». In lui nessuna traccia benché minima di misoginia (p. 64). Le sue relazioni con le donne che incontra sono, al contrario, estremamente benevole, e soprattutto non collimano con le consuetudini della società del suo tempo (p. 65).

Gesù vede le sofferenze delle donne

Gesù vede e partecipa alle sofferenze delle donne: le comprende e, mosso dalla compassione, vi pone rimedio senza che gli venga richiesto (p. 73). È quanto emerge dall’episodio della risurrezione del figlio unico della vedova di Nain (Lc 7,11-17), ma soprattutto dall’avvincente racconto della guarigione della donna curva (Lc 13,10-17).

C’è una persona sofferente da 18 anni (come il numero di anni in cui gli israeliti furono schiavizzati dai moabiti, come si legge al capitolo 3,14 del libro dei Giudici) di una forma molto grave di artrite deformante che la costringe a stare e a camminare sempre curva, con lo sguardo rivolto verso il basso. È una donna. Non ha un nome. Forse per ricomprendere nella scena la condizione delle donne ebree ai tempi di Gesù che erano consapevoli del loro dovere di piegarsi alla volontà degli uomini da cui dipendevano (prima i padri e, in seguito, i mariti raramente scelti in modo libero).

Gesù sta insegnando nella sinagoga, in giorno di sabato. Vede la donna curva, impossibilitata a restare eretta. Senza essere interpellato, prende l’iniziativa. Interrompe il suo discorso, la chiama a sé e la libera dall’artrite che la deformava sia fisicamente che psicologicamente.

L’intervento di liberazione messo in atto da Gesù restituisce dignità alla donna. La donna è rimessa in piedi: è liberata da ciò che la schiaccia. È dritta e alza il capo, come conviene ad ogni essere umano: finalmente è in grado di guardare il cielo, di lodare Dio e di relazionarsi con i suoi simili. Alla donna viene riconosciuto il diritto ad esistere come soggetto libero che può vivere in pienezza il suo essere “figlia di Abramo” (p. 79).

Gesù ammira la fede delle donne fino a modificare la concezione della sua missione

Gesù ammira e segnala ai suoi discepoli come esempio da imitare la vedova che, nonostante la morte del marito l’abbia lasciata nell’indigenza, lascia cadere nella cassetta delle offerte del tesoro del tempio i pochi spiccioli che aveva per vivere (Lc 21,1-4). «Un buon esempio dell’attenzione che Gesù dedica agli ultimi, quelli che vengono ignorati e che nessuno ritiene importanti, prime tra tutte le donne e tra queste le vedove, di certo le più sfavorite dalla sorte» (p. 69).

L’ammirazione delle donne da parte di Gesù è rinvenibile anche nella «splendida confessione di fede, una delle più belle dell’intero Vangelo» (p. 92) testimoniata dall’episodio della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44). Spetta ad una donna, Marta, la sorella di Lazzaro e Maria, professare la fede in modo straordinariamente cristallino in Gesù: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (Gv 11,27). Commenta la direttrice del Témoignage chrétien: «La considerazione e la stima che Gesù nutre per lei dimostrano come, per lui, il genere al quale appartiene non è un ostacolo alla comprensione della fede» (p. 97).

Ma è soprattutto l’anonima donna straniera che chiede la guarigione della figlia malata a mettere in crisi Gesù. Il Vangelo (Mc 7,24-30 e Mt 15,21-28) puntualizza che era non solo greca, ma anche di origine pagana, in quanto proveniente dalla Siria e dalla Fenicia. Avendo la consapevolezza di essere stato mandato solo per “le pecore perdute della casa d’Israele”, Gesù in un primo tempo dichiara di non poter far nulla per lei. Ma, di fronte alla sua insistenza e in presenza della fiducia che la donna pone in lui, accetta di “cambiare idea” quanto al modo di concepire la propria missione: il suo Vangelo non è riservato ai soli credenti d’Israele, ma ha una dimensione universale (p. 89).

Gesù ama condurre discussioni teologiche con le donne

Il dialogo con Marta in occasione della morte di Lazzaro non è l’unico esempio delle discussioni teologiche che Gesù amava condurre con la gente che incontrava.

Un’intensa e grande conversazione teologica di Gesù con una donna la troviamo nel Vangelo di Giovanni (4,1-42): «senza alcun dubbio la più riuscita» (p. 101). Avviene in territorio straniero, in Samaria, nell’ora di mezzogiorno, accanto ad un pozzo, il luogo per eccellenza degli incontri amorosi.

Una donna samaritana sta per attingere l’acqua dal pozzo. Gesù le si avvicina e le chiede da bere. Segue un dialogo vivace, al termine del quale la donna capisce di essere in presenza di un autentico profeta. Che abbia forse finalmente incontrato al pozzo «l’autentico uomo della sua vita, o più precisamente l’uomo che dà la Vita?» (p. 105). Ne approfitta per porgli una domanda: dove bisogna adorare Dio? Al tempio di Gerusalemme, come sostengono gli ebrei di Giudea e Galilea o sul monte Garizim, come ritengono i Samaritani? «Inaspettatamente, sotto i panni di una donna dai facili costumi, Gesù scopre una teologa» (p. 105).

Dio è Spirito – le dice Gesù – e coloro che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. La donna, che sembrerebbe soddisfatta della risposta, si spinge oltre e pone un’altra domanda sulla venuta e sull’identità del Messia. La risposta di Gesù – “il Messia sono io che parlo con te” – la sconvolge a tal punto che avverte l’impellente esigenza di lasciare la brocca accanto al pozzo e precipitarsi in città per dire a tutti gli abitanti di avere appena incontrato un uomo che potrebbe essere il Messia. Lei, la donna straniera, dalla situazione matrimoniale non regolare, diventa la messaggera del Vangelo di Gesù. Dunque, «è a una donna che Gesù affida totalmente la sua identità; è con una donna che ha una discussione teologica decisiva, e il meno che si possa dire è che a questa interlocutrice non manca certo la capacità di replicare» (p. 110).

Gesù libera le donne perché vede in loro persone non funzioni

La straordinaria modernità dimostrata da Gesù nel rapportarsi con le donne è testimoniata da altre due pagine dei Vangeli: l’accoglienza di Gesù nella casa di Marta e Maria (Lc 10,38-42) e l’episodio della donna adultera (Gv 8,1-11). Il primo testo è stato per lo più letto in senso allegorico. Marta, l’amica di Gesù, che si affaccenda per offrire degna ospitalità a Gesù, incarnerebbe la dimensione “attiva” della vita cristiana. Maria, anch’essa amica di Gesù che, seduta ai suoi piedi, ne ascolta la parola, della vita cristiana incarnerebbe, invece, la dimensione “contemplativa”. Tutti sarebbero chiamati ad essere un po’ Marta e un po’ Maria.

L’autrice del saggio ritiene che l’episodio debba essere letto con uno sguardo diverso. Il posto della donna non è necessariamente e in modo pressoché esclusivo nelle faccende domestiche, come emerge dal comportamento di Marta. Gesù dimostra di apprezzare molto di più il gesto di Maria che in Israele era un privilegio riservato ai maschi: sedersi ai piedi del Maestro e ascoltare la sua parola. «Per dirla in termini contemporanei, in questo breve episodio Gesù libera le donne dalla loro assegnazione di genere… In ciò che lui dice si coglie un’esplicita prefigurazione dell’emancipazione femminile» (p. 124).

Nel secondo testo l’atteggiamento e le parole di Gesù nei confronti della donna sorpresa in adulterio è talmente sovversivo e imbarazzante che è stato cancellato dai manoscritti più antichi. Da come si rapporta con gli uomini che vorrebbero lapidare la donna (“chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”) e da come si relaziona con lei, Gesù dimostra di voler svincolare la donna dal potere degli uomini. «Per lui le donne non sono proprietà degli uomini, i quali di conseguenza non hanno diritto di vita e di morte su di loro» (p. 131). Non condannando la donna, Gesù «mette il suo errore sullo stesso piano di quello degli uomini che la accusano: un peccato comune, né più né meno, non più grande né più piccolo di altri. Un peccato che non viene negato – Gesù le dice infatti Và, e d’ora in poi non peccare più –, ma che non vale la morte della colpevole» (p. 131).

Gesù tocca e si lascia toccare dalle donne

Per l’uomo ebreo toccare una donna è una questione delicata. In certi periodi della loro vita le donne possono infatti essere considerate persone impure e chi viene a contatto con esse sarà impuro. Le norme che riguardano l’impurità femminile discriminano di fatto le donne, tenendole lontane dalla vita sociale e religiosa.

Emblematico, al riguardo, un breve episodio riportato dai tre Vangeli sinottici (Mt 9,20-22; Mc. 5,25-34; Lc 8,43-48). Una donna che soffre di emorragia mestruale da dodici anni e che è perfettamente consapevole che non le è permesso toccare nessuno, si avvicina furtivamente a Gesù, con la certezza che sarà guarita se riuscirà anche solo a sfiorare il lembo del suo mantello. Nel momento in cui il tentativo le riesce, ella avverte l’arresto del flusso di sangue e la guarigione dal male.

Gesù si accorge che qualcuno l’ha toccato e che una forza è uscita dalla sua persona. La donna guarita, invece di dileguarsi in mezzo alla folla, si getta ai suoi piedi e confessa di essere stata lei a “toccarlo”. “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace”, le dice Gesù. Commenta Christine Pedotti: «Il termine figlia denota una grande tenerezza e mostra, casomai ce ne fosse bisogno, che Gesù comprende e approva il suo gesto. Nel racconto, Gesù si lascia toccare dalla donna, in senso stretto come in senso figurato, e la restituisce alla vita sociale; potremmo forse dire, persino, che le dà la vita: la rimette al mondo» (p. 141).

L’altro episodio, su cui si sofferma la scrittrice francese, è l’unzione di Gesù a Betania da parte di una donna anonima (Mt 14,3-9 e Mc 26,6-13). Un racconto straordinario che i due evangelisti collocano all’inizio del racconto della passione di Gesù. Quello compiuto dalla donna – versare sul capo di Gesù un intero vasetto di alabastro, pieno di profumo di nardo di grande valore – «è un gesto di alta levatura spirituale e teologica: pone una donna più vicina che mai al disvelamento del senso della morte di Gesù» (p. 149). Mentre i discepoli sembrano incapaci di comprendere ciò che sta per accadere a Gesù, è una donna che ne profetizza la morte. Non potendolo fare a parole, lo fa compiendo un gesto molto eloquente riservato normalmente ai morti.

Le donne apostole del Cristo risorto

Secondo tutte le testimonianze evangeliche, le donne discepole – e in primo luogo Maria di Magdala – hanno sempre seguito Gesù con continuità e perseveranza, a differenza dei discepoli che lo hanno abbandonato nel momento dell’arresto al Getsemani. Alla sua morte in croce erano presenti e dunque testimoni. Al momento della sepoltura avevano osservato dove Gesù era stato posto da Giuseppe d’Arimatea e da Nicodemo.

Le donne accanto alla croce non solo «rappresentano anche tutte le donne gravate, nei secoli, dal peso delle sventure che hanno travolto i loro figli e i loro mariti» (p. 161) ma rivelano anche «pienamente il ruolo sociologico di chi deve rassegnarsi a subire, senza poter agire» (p. 162).

Altro dato inconfutabile: secondo tutte le tradizioni evangeliche, sono le donne a testimoniare per prime e ad annunciare ai discepoli la risurrezione di Gesù. «Recatesi alla tomba per onorare una salma, si ritrovano destinatarie di una notizia così incredibile che i discepoli, in effetti, non ci credono» (p. 167).

Come intendere – si chiede Christine Pedotti – questa singolarità del messaggio evangelico, che fa delle donne autentiche apostole, cioè inviate dal Risorto stesso agli undici apostoli, per portare loro la “buona notizia”, l’Evangelo: Gesù Cristo è risorto ed è vivente per sempre?

«Le donne che ascoltano l’annuncio della risurrezione, che vedono per prime il Risorto, sono le stesse che erano vicine al luogo dell’esecuzione. Ritrovano colui che avevano visto soffrire e morire vivo e vittorioso sulla morte. In un certo senso, sono ricompensate per la loro lealtà. Sono rimaste fedeli nelle piccole cose, gli sono rimaste accanto, e ricevono in cambio un tesoro immenso: la notizia della risurrezione» (p. 168).

È qui – ritiene l’autrice – che va individuata la preferenza di Gesù per le donne. Gesù le ha amate e si è relazionato con esse con occhio di riguardo. Le donne corrispondono al suo amore e «ricevono cento volte ciò che hanno donato: un amore senza limiti e senza fine» (p. 169).

Ritorno delle donne al silenzio

«La presenza esclusiva delle donne, il ruolo primario che ricoprono nella scoperta della risurrezione e nel suo annuncio è un’evidenza che, va detto con chiarezza, non si è riflessa in alcun modo nell’organizzazione successiva della Chiesa, anche se, al tempo delle primissime comunità, furono trattate in modo paritario rispetto agli uomini, in netta contrapposizione con gli usi e le consuetudini dell’epoca» (pp. 169-170). Lo testimonia la lettera di Paolo ai Galati, scritta probabilmente nella prima metà degli anni cinquanta: “quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più maschio e femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,27-28).

«In Cristo le differenze, che fino allora era assolute e determinavano una gerarchia tra giudei e miscredenti, uomini liberi e schiavi, maschi e femmine, sono abolite… E tuttavia non si può non constatare che gli usi non sono stati modificati di conseguenza… E le donne sono ritornate al silenzio, senza ricavare alcun privilegio dalla straordinaria predilezione che Gesù aveva dimostrato nei loro confronti» (pp. 170-171).

Come non rimanere sgomenti nel vedere la potenza liberatrice scaturita da Gesù e testimoniata dai testi evangelici infrangersi contro i muri delle incomprensioni e dei rifiuti teorizzati e praticati ancora oggi nella Chiesa da modelli culturali patriarcali e maschilisti?

Quanto ci vorrà ancora – si chiede la teologa femminista francese – perché le istituzioni ecclesiali che tramandano questi testi ne traggano coerentemente le conseguenze, rendendo «infine giustizia alle donne come Gesù stesso ha fatto?» (p. 187).

Ma perché Gesù preferiva le donne ?

Rimane da aggiungere un ulteriore argomento per dimostrare che Gesù – come suggerisce il titolo del libro – «preferiva le donne».

Lo si può scorgere nel mistero dell’incarnazione.

«Gesù era un uomo, di sesso maschile, non un angelo o uno spirito; un essere umano fatto di carne e sangue. Si può ipotizzare che preferisse la compagnia delle donne semplicemente perché era uomo ? Niente ci consente di affermarlo, salvo la sensibilità delle donne che leggono il Vangelo e osservano quest’uomo vivere, agire, parlare. Io – scrive l’autrice nelle ultime due righe del suo saggio – sono una di queste, e non ho alcun dubbio al riguardo: sì, Gesù preferiva le donne» (p. 196).

  • CHRISTINE PEDOTTI, Gesù, l’uomo che preferiva le donne, Traduzione italiana di Andrea Zucchetti, Rizzoli Libri 2020, pp. 224, € 18,00.

Le donne protagoniste nella Chiesa

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Osservatore

«Attraverso l’ascolto e la premura che manifestano verso i bisogni degli altri, e con la spiccata capacità di sostenere dinamiche di giustizia in un clima di “calore domestico”, nei diversi ambienti sociali in cui esse si trovano ad operare», le «donne sono protagoniste di una Chiesa in uscita». Lo ha sottolineato il Pontefice in un messaggio fatto pervenire alle partecipanti al seminario online (“webinar”), svoltosi nel pomeriggio di mercoledì 7 ottobre, su iniziativa della Consulta femminile del Pontificio Consiglio della cultura. Tema dei lavori: «Le donne leggono Papa Francesco».

Messaggio del Papa