Blog di notizie varie (a cura redazione Chiesa S. Stefano – Reggio Emilia)
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria (…)
In un primo momento la sinagoga è rimasta incantata: tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati! Ma il cuore di Nazaret, e di ogni uomo, è un groviglio contorto, trascinato in fretta dalla meraviglia alla delusione, dallo stupore a una sorta di furore omicida: lo spinsero sul ciglio del monte per gettarlo giù.
Che cosa è accaduto? Non è facile accogliere un profeta e le sue parole di fuoco e di luce. Soprattutto quando varcano la soglia di casa come «un vento che non lascia dormire la polvere» (Turoldo) e smuove la vita, invece di risuonare astratte e lontane sul monte o nel deserto.
I compaesani di Gesù si difendono da lui: lo guardano ma non lo vedono, è solo il figlio di Giuseppe, uno come noi. Odono ma non riconoscono le sue parole d’altrove: come pensare che sia lui, il figlio del falegname, il racconto di Dio? E poi, di quale Dio?
Questo è il secondo motivo del rifiuto di Gesù, il suo messaggio dirompente, che rivela il loro errore più drammatico: si sono sbagliati su Dio.
Fai anche qui, a casa tua, i miracoli di Cafarnao, chiedono. È la storia di sempre, immiserire Dio a distributore di grazie, impoverire la fede a baratto: «io credo in Dio se mi da i segni che gli chiedo; lo amo se mi concede la grazia di cui ho bisogno». Amore mercenario.
Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui. Non ci bastano belle parole, vogliamo un Dio a nostra disposizione; uno che ci stupisca, non uno che ci cambi il cuore.
E Gesù risponde raccontando un Dio che ha come casa ogni terra straniera, protettore a Zarepta di vedove straniere e senza meriti, guaritore di lebbrosi siriani nemici d’Israele, senza diritti da vantare. Un Dio che non ha patria se non il mondo, che non ha casa se non il dolore e il bisogno di ogni uomo.
Adorano un Dio sbagliato e la loro fede sbagliata genera un istinto di morte: vogliono eliminare Gesù. Mentre il Dio di Gesù è l’amante della vita, il loro è amico della morte. Ma egli passando in mezzo a loro si mise in cammino. Come sempre negli interventi di Dio, c’è un punto bianco, una sospensione, un ma. Ma Gesù passando in mezzo se ne andò. Va ad accendere il suo roveto alla prossima svolta della strada. Appena oltre ci sono altri villaggi ed altri cuori con fame e sete di vita.
Un finale a sorpresa. Non fugge, non si nasconde, passa in mezzo a loro, alla portata delle loro mani, in mezzo alla violenza, va tranquillo in tutta la sua statura in mezzo ai solchi di quelle persone come un seminatore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla, che la sua vitalità è incontenibile, che il vento dello Spirito riempie la casa e passa oltre.
(Letture: Geremia 1,4-5.17-19; Salmo 70; 1 Corinzi 12,31-13,13; Luca 4,21-30).
di Ermes Ronchi – Avvenire
Luca, il migliore scrittore del Nuovo Testamento, sa creare una tensione, una aspettativa con questo magistrale racconto che si dipana come al rallentatore: Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. E seguono le prime parole ufficiali di Gesù: oggi l’antica profezia si fa storia. Gesù si inserisce nel solco dei profeti, li prende e li incarna in sé. E i profeti illuminano la sua vocazione, ispirano le sue scelte: Lo Spirito del Signore mi ha mandato ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi. Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. Da subito Gesù sgombra tutti i dubbi su ciò che è venuto a fare: è qui per togliere via dall’uomo tutto ciò che ne impedisce la fioritura, perché sia chiaro a tutti che cosa è il regno di Dio: vita in pienezza, qualcosa che porta gioia, che libera e dà luce, che rende la storia un luogo senza più disperati. E si schiera, non è imparziale il nostro Dio: sta dalla parte degli ultimi, mai con gli oppressori; viene come fonte di libere vite e mai causa di asservimenti. Gesù non è venuto per riportare i lontani a Dio, ma per portare Dio ai lontani, a uomini e donne senza speranza, per aprirli a tutte le loro immense potenzialità di vita, di lavoro, di creatività, di relazione, di intelligenza, di amore. Il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato della persona, il suo primo sguardo va sempre sulla povertà e sul bisogno dell’uomo. Per questo nel Vangelo ricorre più spesso la parola poveri, che non la parola peccatori. Non è moralista il Vangelo, ma creatore di uomini liberi, veggenti, gioiosi, non più oppressi. Scriveva padre Giovanni Vannucci: «Il cristianesimo non è una morale ma una sconvolgente liberazione». La lieta notizia del Vangelo non è l’offerta di una nuova morale, fosse pure la migliore, la più nobile o la più benefica per la storia. La buona notizia di Gesù non è neppure il perdono dei peccati. La buona notizia è che Dio è per l’uomo, mette la creatura al centro, e dimentica se stesso per lui. E schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi “altra” da quello che è. Un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo. Infatti la parola chiave è “libertà-liberazione”. E senti dentro l’esplosione di potenzialità prima negate, energia che spinge in avanti, che sa di vento, di futuro e di spazi aperti. Nella sinagoga di Nazaret è allora l’umanità che si rialza e riprende il suo cammino verso il cuore della vita, il cui nome è gioia, libertà e pienezza (M. Marcolini). Nomi di Dio.
(Letture: Neemia 8,2-4.5-6.8-10; Salmo 18; 1 Corinzi 12,12-30; Luca 1,1-4; 4,14-21).
VIII Giornata Diocesana del Seminario
Domenica 24 gennaio 20126
Traccia di riflessione a commento delle letture della Santa Messa
Prima lettura: Ne 8,2-4.5-6.8-10
Seconda lettura: 1Cor 12,12-30
Vangelo: Lc 1,1-4; 4,14-21
Le letture di questa III domenica del tempo ordinario (anno C) ci introducono bene ad una riflessione sul tema del sacerdote come ministro di misericordia, nella consapevolezza che “la nuova evangelizzazione non può che usare il linguaggio della misericordia, fatto di gesti e di atteggiamenti prima ancora che di parole” (papa Francesco, 14/10/2013). Interpretando senza fatica le indicazioni che ci vengono dal recente magistero, possiamo affermare che la misericordia è il tratto distintivo di tutto il ministero presbiterale, il suo asse portante.
Nella prima lettura ci viene offerta la descrizione della solenne assemblea liturgica a Gerusalemme nel tempo del ritorno dall’esilio, una sorta di nuovo battesimo per tutto il popolo, che “tendeva l’orecchio al libro della legge “. La Parola di Dio è il racconto dell’agire misericordioso di Dio nei confronti dell’umanità e i leviti sono chiamati ad interpretarne il senso perché il popolo comprenda la lettura e rilegga la sua vicenda dalla prospettiva di Dio.
“La misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Egli non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Lui si sente responsabile, cioè desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni” (MV 9)
È questa memoria che suscita in noi lacrime di compunzione per i nostri tradimenti e le nostre infedeltà all’alleanza con il Dio misericordioso e pietoso, ma soprattutto è questa memoria che ci permette di vivere “felici, colmi di gioia, sereni” nel saperci così tanto amati e che ci chiede di corrispondere a questo circuito di misericordia. “È sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri.” (MV 9). ). Va inteso in questo senso l’invito che Neemia rivolge al popolo di condividere la mensa “portando porzioni a quelli che nulla hanno di preparato”.
Il sacerdote, ministro della Parola, ci aiuta a spezzare questo Pane e a farci commensali di questa liturgia di misericordia e di compassione che ha nella Scrittura una delle sue “porte” fondamentali (“Per essere capaci di misericordia, quindi, dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio”, MV 13).
Nella seconda lettura Paolo prende a prestito dalla letteratura pagana questo apologo per esprimere il mistero di comunione che è la Chiesa; la qualità che sembra emergere in questo organismo così sapientemente disposto e articolato è la cura che le varie membra debbono avere reciprocamente tra loro per custodire l’unità. Quelle più deboli, le più “periferiche” potremmo dire, sono le più necessarie; e se un membro soffre, gli altri com-patiscono con lui.
“Ciascuno secondo la propria parte” ci ricorda il principio di ordine della creazione di Gen 1. Il mistero della ricapitolazione in Cristo risulta evidente nel suo Corpo mistico, dove ognuno è chiamato con la sua vocazione a far risplendere questo mosaico in cui ogni tessera è fondamentale, “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”. (Ef 4,13)
La collaborazione al ministero apostolico fa sì che il sacerdote sia come la giuntura tra le membra che permette loro, attraverso l’olio della Grazia, di nutrirsi e di mantenere il tono “battesimale” con le esigenze che comporta. Egli ricorda loro anzitutto il mistero di unità e di comunione, vocazione universale che orienta e sostiene quella particolare di ciascuno, e che non è possibile custodire senza la misericordia e la compassione. Nel discernimento vocazionale, il sacerdote aiuta i fratelli a capire il dono particolare affidato a ciascuno per edificare la Chiesa, quella pro-esistenza che ci fa capire che la nostra vita ha senso solo nella misura in cui si fa dono a qualcuno, offerta di sé per i fratelli, corrispondendo a quel dinamismo responsoriale che conferisce verità e pienezza a qualsiasi vocazione.
Ed è proprio la consapevolezza della propria pro-esistenza che anima la pagina del Vangelo di questa domenica, in cui Gesù dà l’avvio al suo mistero pubblico nella sinagoga di Nazareth. La citazione di Isaia e la rilettura attualizzante di Gesù hanno un chiaro riferimento giubilare, che in questo Anno Santo sembra risuonare in modo ancora più incisivo. Sono indicati i cinque cardini della missione profetica di Gesù che hanno come destinatari privilegiati gli ‘anawim, “coloro che sono curvi”. Risulta evidente che “nella visione di Cristo, i poveri devono essere oggetto dell’attenzione, della cura e della premura della Chiesa” (G. Ravasi, Il significato del Giubileo, EDB 2015, p. 55).
Ritorna anche un termine caro a Luca, “oggi”, che usa solitamente per annunciare la salvezza di una persona che ha accolto Cristo: pensiamo ad esempio a Zaccheo (“Oggi la salvezza è entrata in questa casa”) o al miserabile che condivide con lui l’ignobile sorte della croce (“Oggi sarai con me in paradiso”). È l’oggi dello Spirito, in cui Dio visita il suo popolo e questi è chiamato a riconoscere la qualità di questo kairos: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. […], perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”. (Lc 19,42ss.)
Il sacerdote, nella comunità cristiana, è chiamato a promuovere e a guidare questo discernimento ecclesiale dei segni dei tempi. Francesco, rivolgendosi al clero della diocesi di Roma, così affermava nel marzo dello scorso anno: “Noi siamo qui per ascoltare la voce dello Spirito che parla a tutta la Chiesa in questo nostro tempo, che è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro. Noi stiamo vivendo in tempo di misericordia. Nella Chiesa tutta è il tempo della misericordia.”. (Francesco al clero romano, 06/03/14)
Non a caso il brano di Lc 4 è quello previsto dalla liturgia come pericope evangelica nella S. Messa Crismale, in cui i sacerdoti rinnovano le promesse della loro ordinazione presbiterale e si associano alla preghiera con cui il vescovo benedice il santo crisma, l’olio dei catecumeni e quello degli infermi, segni sacramentali di quella Grazia che ci consola, ci libera, ci illumina e ci rinnova e che ci permette di non vi rattristarci, “perché la gioia del Signore è la vostra forza!” (Ne 8,10)
d. Alessandro Ravazziniazzini
Nell’anno C si legge Luca, ma nella 2ª domenica del tempo ordinario la Chiesa propone sempre, come Vangelo, un testo appartenente alla sezione iniziale di Giovanni.
È quasi un lancio del tempo «per annum». Quest’anno leggiamo le nozze di Cana, che si trova in una collocazione strategica del Vangelo di Giovanni: è messo al termine di una settimana che richiama la settimana della creazione.
È interessante notare questi sette giorni in cui vengono dati a Gesù sette titoli cristologici che saranno ripresi nel Vangelo:
A Cana «Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Cana è l’inizio dei segni. Il libro dei segni va fino al cap. 12, poi parte il libro dell’ora («È giunta l’ora»). Ma proprio di questa ora si parla qui a Cana: c’è una Donna che fa anticipare l’ora.
Il Vangelo di Giovanni è stato scritto «perché crediamo che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiamo la vita nel suo nome» come dice Giovanni nella prima conclusione del suo Vangelo. E qui a Cana il testo conclude così: «Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». È dunque anticipato tutto nell’evento di Cana. È anticipata la Pasqua. C’è il tono pasquale dalle prime battute: «Il terzo giorno ci fu uno sposalizio a Cana». Sappiamo che cosa significa questa espressione (il terzo giorno, tertia die) per i primi cristiani.
C’è la Donna nuova, perché c’è la creazione nuova. Non dimentichiamo il modo tipico di raccontare di Giovanni. Al di dentro del fatto c’è sempre una notizia teologica. Ricordiamo solo i punti fondamentali. Emerge subito un dato molto importante: Giovanni inquadra tutta la vita pubblica di Gesù tra due scene in cui è presente Maria: Cana e il Golgota. Due scene ecclesiali. A Cana Gesù dà inizio ai segni e manifesta la sua gloria, avviando il cammino di fede dei suoi discepoli. Sul Golgota c’è per Giovanni l’atto di nascita della Chiesa: il modo di descrivere la morte fa supporre l’effusione dello Spirito. Intanto Maria in Giovanni non è chiamata con il suo nome: è la «Madre di Gesù», è la «Donna» della nuova creazione.
Cosa vuol dirci Giovanni con le nozze di Cana? Oggi, in questa 2ª domenica «per annum» c’è il tema nuziale, come si nota anche nella 1ª lettura che è sempre in collegamento con il Vangelo. La 1ª lettura è una specie di Cantico dei Cantici all’interno del Terzo-Isaia.
Ma chi sono gli sposi? I veri sposi di Cana chi sono?
La 1ª lettura dice che il Signore gioisce per Gerusalemme come lo sposo gioisce per la sposa: conosciamo questo magnifico cantico, perché ricorre sovente nell’Ufficio. Gesù è lo sposo. Nozze dunque, ma nozze senza vino: «Non hanno vino» (non: «Non hanno più vino»). Le nozze, il banchetto, e in particolare il vino, nella letteratura biblica sono molte volte elementi messianici.
Il 1° segno avviene sull’acqua che serviva per la purificazione dei giudei (interessante il particolare di tipo religioso). L’acqua non viene sostituita, ma trasformata. La Torah, l’AT non viene sostituito, ma trova il suo «compimento» nel banchetto del Regno.
«Riempite d’acqua le giare». «E le riempirono fino all’orlo». È l’abbondanza dei tempi messianici, come nella moltiplicazione dei pani. Sei giare contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. Dunque 600-700 litri!
«Non hanno vino» dice la Madre. La risposta di Gesù (intraducibile nelle nostre lingue) non è sgarbata, ma indica un rifiuto. Che cos’è avvenuto dunque? Una creatura prevale su Dio! Gesù dice: «Non è ancora giunta la mia ora». E Maria, senza una piega, con molta calma e sicurezza, dice ai discepoli: «Fate ciò che lui vi dirà». C’è un’intesa profonda, segreta, tra Gesù e sua madre che in quel momento diventa potentissima sul cuore del Figlio (per un piano misterioso di Dio!).
Maria è la Chiesa-Sposa, Maria è la Madre, la «Donna della risurrezione», che anticipa i tempi dello Spirito (su di lei la Pentecoste è già avvenuta): capisce la volontà del Figlio, vede il suo cuore, e vede le necessità dell’uomo.
La Chiesa attraverso la Liturgia, attraverso il mistero dell’Eucaristia, vive ciò che è espresso nel mistero di Cana. Quel «vino nuovo» è legato a una obbedienza: «Fate ciò che lui vi dirà». È la parola dominante in questa domenica. La voce di Maria, la Madre, continua ogni giorno a risuonare nel nostro intimo. «Fate ciò che lui vi dirà». A Cana emerge il modo di essere di Maria: l’attenzione, qualità primaria di una vera donna. Maria nei miei confronti è attenta!
Maria ci porta a Gesù, ci prepara ad incontrare Gesù. Pensiamo al ruolo del sabato nella tradizione della Chiesa, come preparazione al Giorno del Signore. Per questo il sabato è un giorno particolare dedicato a Maria.
fonte: http://www.elledici.org/
Tema Seamless Keith, sviluppato da Altervista
Apri un sito e guadagna con Altervista - Disclaimer - Segnala abuso - Privacy Policy - Personalizza tracciamento pubblicitario