PUNTO CNVF-SIR “Come un gatto in tangenziale 2”: una commedia brillante che indaga le fratture della società, con una bella pagina di Chiesa missionaria

Giovanni e Monica, atto secondo. La loro storia potrebbe essere benissimo una versione rivista e aggiornata ai nostri giorni di “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, dove le due fazioni familiari sono sostituite da steccati sociali, da fratture e pregiudizi sedimentati tra centro e periferia di Roma, metafora di un Paese stanco, arrabbiato, caotico, ma che sa trovare comunque la voglia di sorridere e sì di rialzarsi. Parliamo di “Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto”, commedia diretta da Riccardo Milani e interpretata da Paola Cortellesi (anche sceneggiatrice) e Antonio Albanese

Giovanni e Monica, atto secondo. La loro storia potrebbe essere benissimo una versione rivista e aggiornata ai nostri giorni di “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, dove le due fazioni familiari sono sostituite da steccati sociali, da fratture e pregiudizi sedimentati tra centro e periferia di Roma, metafora di un Paese stanco, arrabbiato, caotico, ma che sa trovare comunque la voglia di sorridere e sì di rialzarsi. Parliamo di “Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto”, commedia diretta da Riccardo Milani e interpretata da Paola Cortellesi (anche sceneggiatrice) e Antonio Albanese. È il riuscito seguito – chiariamolo subito, il sequel funziona, e anche molto! – di “Come un gatto in tangenziale”, film rivelazione nella stagione 2017-18 con 10milioni di euro al botteghino e il Nastro d’argento come miglior commedia. Ora a distanza di tre anni, resi ancora più lunghi dall’ingombrante presenza della pandemia,ritroviamo tutti i personaggi ma anche nuovi ingressi come don Davide, Luca Argentero, un prete di periferia che conquista tutti per la sua immediatezza e il suo essere espressione di quella Chiesa in uscita cara a papa Francesco.Ecco il punto Cnvf-Sir.

Cuori nella tempesta del Covid

Nel primo film abbiamo lasciato Giovanni (Albanese) e Monica (Cortellesi) seduti su una panchina al centro di Roma, emozionati e anche un po’ spaventati da quel loro amore inaspettato. Tre anni dopo l’amore purtroppo è “scoppiato”, o almeno così pare… Monica è finita erroneamente in prigione, messa nei guai dalle gemelle cleptomani Pamela e Sue Ellen (Alessandra e Valentina Giudicessa). Decisa ancora una volta a non arrendersi, la donna ricontatta Giovanni e gli chiede un aiuto, lui che ha un incarico politico così in vista. Nonostante i suoi fermi principi, Giovanni riesce a farle commutare la pena in lavori socialmente utili presso la parrocchia di don Davide (Argentero) a Roma. Sulle prime Monica si oppone, non si fida affatto di preti e suore, anzi li guarda con sospetto persino scaramantico.A contatto però con don Davide e la sua comunità di parrocchiani la donna scopre un confortante fermento di solidarietà, soprattutto in una periferie ancora più deragliata per via della pandemia.In tutto questo i sentimenti verso Giovanni non sembrano poi così dissolti; e anche per l’uomo a ben vedere ritrovarsi a contatto con l’urgano Monica, al di là dei continui problemi, gli fa assaporare il senso di una vita migliore…

L’istantanea di un Paese caotico ma solidale

“Monica e Giovanni sono, e continuano ad essere, due anime dello stesso Paese. Il nostro.E sono per me il modo di raccontare, attraverso il filtro popolare della commedia, da una parte l’amarezza nel vedere il mio Paese così spaccato, dall’altra il grande potenziale di condivisione e di senso della comunità che in esso vive e sopravvive, ed è lì pronto a esplodere anche più della rabbia sociale”. Sono le parole del regista Riccardo Milani che ben racchiudono il senso del film “Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto”, commedia che ci consegna un ritratto deformato, a tratti grottesco, del nostro presente, dell’Italia, un ritratto puntellato da furbizie, scorciatoie, indifferenza e pregiudizi diffusi. In questo scenario tragicomico, però, si colgono anche luminosi segnali di speranza, testimonianze di un’umanità pronta a rimboccarsi le maniche e a rimettersi in piedi in chiave solidale.

Tra gli ancoraggi sociali nella tempesta c’è anzitutto la Chiesa.

È lo stesso regista Milani ad affermarlo in conferenza stampa, cui si aggiunge la voce della protagonista Paola Cortellesi. Hanno indicato di aver avuto l’idea del sequel in primis visitando una parrocchia milanese, scoprendone l’attivismo verso la comunità, e poi registrando il grande impegno della Chiesa nel corso della pandemia, la sua immediata risposta missionaria. Così la storia di Giovanni e Monica si è spostata sul terreno di una parrocchia di periferia di Roma, un vero e proprio presidio di frontiera animato da un sacerdote fuori dal comune, don Davide, che Luca Argentero tratteggia con leggerezza e insieme spessore.

Don Davide si fa racconto di quella Chiesa che non abbandona il territorio, ma lo anima e lo sostiene, soprattutto nella difficoltà.È la Chiesa raccontata dagli spot dell’8xmille, solo che qui la cifra del racconto si irradia dei colori accesi della commedia che spesso sconfina nello sberleffo.Ma il messaggio è lo stesso, una Chiesa missionaria e solidale.

Cultura, avamposto che apre alla speranza

Altro elemento centrale nel film è la cultura: il bisogno di tornare a scommettere convintamente sulla cultura, balsamo per lenire gli strappi delle ingiustizie sociali e per lasciare filtrare il sogno del cambiamento, la presenza di quell’ascensore sociale ancora in funzione. È attraverso il personaggio di Giovanni/Albanese che questo messaggio trova eco nella storia. Per buona parte del film Giovanni è ridicolizzato, in primis da Monica, perché crede ancora che con la cultura ci si possa mangiare; lui dissipa ogni sua energia per convincere tutti del contrario, che di cultura ci si può campare benissimo, soprattutto in Italia, e che potrebbe essere la soluzione a tanti problemi atavici nelle nostre realtà.Toccante è poi lo sguardo di Monica/Cortellesi quando si accorge degli effetti benefici del teatro, della danza, del cinema o della poesia in quartieri abbandonati da tutto e tutti: è come assistere a una pioggia ristoratrice dopo un caldo torrido senza tregua.Tutto può cambiare, persino migliorare, in primis i rapporti umani.

Il valore della risata

Benedetta sia la commedia, soprattutto in tempi così elettrici e nuvolosi! Nella seconda estate al tempo del Covid, quando la luce in fondo al tunnel risulta ancora lontana, appare come un’oasi di spensieratezza il film “Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto”. Non si vuole amplificare il valore di un’opera, che di certo è buona e valida, ma il tempismo con cui esce in sala è assolutamente indovinato, pronto a travolgerci con una sana dose di umorismo leggero, leggerissimo, ma di senso.

I punti di forza del film.

Anzitutto la scrittura: una sceneggiatura compatta, dinamica, pur trattandosi di un seguito, attenta a cogliere lampi di realtà e a rielaborandoli però in chiave del tutto comico-grottesca. L’ironia a momenti è feroce, ma mai scollacciata, mantenendosi comunque nel solco di una narrazione brillante.Ancora, a imprimere forza al racconto sono i due capocomici Albanese e Cortellesi, che tratteggiano con simpatia e intensità gli innamorati tragicomici Giovanni e Monica;accanto a loro tengono bene il passo comprimari convincenti: Luca Argentero, Sonia Bergamasco, Claudio Amendola, Sarah Felberbaum, Mariano Rigillo e Angela Pagano, fino alle esilaranti gemelle Alessandra e Valentina Giudicessa.

Inoltre, nel racconto Milani e Cortellesi inseriscono anche gustose citazioni che rimandano a classici o cult della storia del cinema, ma ovviamente nel segno dello sberleffo: dallo “Shining” (1980) di Stanley Kubrick in chiave onirica al “Il settimo sigillo” (1957) di Ingmar Bergman, soprattutto per la celebre partita a scacchi con la morte: gli scacchi qui sono sostituiti da un mazzo di carte, il terreno di gioco è la “scopa”, e Monica/Cortellesi non teme nessuno!

In un umorismo che sposa l’alto e il basso, il colto e il popolare, “Come un gatto in tangenziale. Ritorno a Coccia di Morto” è una commedia brillante e godibile, che dal punto di vista pastorale risulta consigliabile, semplice e di certo adatta per dibattiti.

agensir

L’intervista. Francesco e il neorealismo. «Cinema, sguardo di vita»

Nell’ampio colloquio del Papa con don Dario Edoardo Viganò per il suo nuovo libro, il profondo significato del cinema italiano postbellico, da custodire per le prossime generazioni
Il Papa e monsignor Viganò. Francesco nell'intervista: "E' importante ritornare a quei film non con nostalgia, ma con impegno per il futuro. Dobbiamo essere bravi custodi della 'memoria per immagini' per trasmetterla ai nostri figli. 'La strada' di Fellini è il film che forse ho amato di più. M’identifico molto in quel film, in cui troviamo un implicito riferimento a san Francesco. In quel film il racconto sugli ultimi è esemplare ed è un invito a preservare il loro prezioso sguardo sulla realtà. Penso alle parole che il Matto rivolge a Gelsomina: 'Tu sassolino, hai un senso in questa vita'"

Il Papa e monsignor Viganò. Francesco nell’intervista: “E’ importante ritornare a quei film non con nostalgia, ma con impegno per il futuro. Dobbiamo essere bravi custodi della ‘memoria per immagini’ per trasmetterla ai nostri figli. ‘La strada’ di Fellini è il film che forse ho amato di più. M’identifico molto in quel film, in cui troviamo un implicito riferimento a san Francesco. In quel film il racconto sugli ultimi è esemplare ed è un invito a preservare il loro prezioso sguardo sulla realtà. Penso alle parole che il Matto rivolge a Gelsomina: ‘Tu sassolino, hai un senso in questa vita’”

da Avvenire

Nel suo magistero non di rado fa riferimento al cinema: talvolta la sentiamo citare questo o quel film. Da dove nasce questo suo particolare rapporto col cinema?

Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori. Quando ero bambino, frequentavo spesso il cinema di quartiere, dove si proiettavano anche tre film di seguito. Fa parte dei ricordi belli della mia infanzia: i miei genitori mi hanno insegnato a godere dell’arte, nelle sue varie forme. Il sabato, ad esempio, con la mamma, insieme ai miei fratelli, ascoltavamo le opere liriche che trasmettevano alla Radio del Estado (oggi Radio Nacional). Ci faceva sedere accanto all’apparecchio e prima che cominciasse la trasmissione ci raccontava la trama dell’opera. Quando stava per iniziare qualche aria importante ci avvertiva: «State attenti, questa è una canzone molto bella». Era una cosa meravigliosa. E poi c’erano i film al cinema, per i quali i miei applicavano lo stesso metodo: come facevano con le opere, ce li spiegavano per farci orientare.

Ed è in questo contesto che è nato anche il suo rapporto con il neorealismo italiano.

Sì, tra i film che i miei vollero assolutamente che noi conoscessimo c’erano proprio quelli del neorealismo. Tra i dieci e i dodici anni credo di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi, tra cui Roma città aperta di Roberto Rossellini che ho amato molto. Per noi bambini in Argentina, quei film sono stati molto importanti, perché ci hanno fatto capire in profondità la grande tragedia della guerra mondiale. A Buenos Aires la guerra l’abbiamo conosciuta soprattutto attraverso i tanti migranti che sono arrivati: italiani, polacchi, tedeschi… I loro racconti ci hanno aperto gli occhi su un dramma che non conoscevamo direttamente, ma è anche grazie al cinema che abbiamo acquisito una coscienza profonda dei suoi effetti.

Lei ha spesso definito il cinema neorealista anche come una “catechesi di umanità” o una “scuola di umanesimo”. Sono espressioni molto belle con cui si attribuisce un valore universale a questa cinematografia. Dove sta l’attualità di questi film?

I film del neorealismo ci hanno formato il cuore e ancora possono farlo. Direi di più: quei film ci hanno insegnato a guardare la realtà con occhi nuovi. Ho apprezzato moltissimo che questo libro colga questo aspetto fondamentale: il valore universale di quel cinema e la sua attualità quale importante strumento per aiutarci a rinnovare il nostro sguardo sul mondo. Quanta necessità abbiamo oggi d’imparare a guardare! La difficile situazione che stiamo vivendo, segnata a fondo dalla pandemia, genera preoccupazione, paura, sconforto: per questo servono occhi capaci di fendere il buio della notte, di alzare lo sguardo oltre il muro per scrutare l’orizzonte. Oggi è tanto importante una catechesi dello sguardo, una pedagogia per i nostri occhi spesso incapaci di contemplare in mezzo all’oscurità la “grande luce” (Is 9,1) che Gesù viene a portare. Una mistica del nostro tempo, Simone Weil, scrive: «La compassione e la gratitudine discendono da Dio, e quando vengono donate attraverso uno sguardo, Dio è presente nel punto in cui gli sguardi s’incontrano». Ecco perché la riflessione sullo sguardo apre alla trascendenza. Come sarebbe bello riscoprire attraverso il cinema l’importanza dell’educazione allo sguardo puro. Proprio come ha fatto il neorealismo.

Ma in che modo questo cinema può insegnarci a guardare?

Quello neorealista è uno sguardo che provoca la coscienza. I bambini ci guardano è un film del 1943 di Vittorio De Sica che amo citare spesso perché è molto bello e ricco di significati. In tanti film lo sguardo neorealista è stato lo sguardo dei bambini sul mondo: uno sguardo puro, capace di captare tutto, uno sguardo limpido attraverso il quale possiamo individuare subito e con nitidezza il bene e il male. Ricor- do le parole del mio fratello Hieronymos, arcivescovo ortodosso di Atene e di tutta la Grecia, a proposito di una delle realtà più dure del nostro tempo: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità » ( Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). In molte occasioni e in tanti Paesi diversi, i miei occhi hanno incontrato quelli dei bambini, poveri e ricchi, sani e malati, gioiosi e sofferenti. Essere guardati dagli occhi dei bambini è un’esperienza che tutti conosciamo, che ci tocca fino in fondo al cuore e che ci obbliga anche a un esame di coscienza. Il cinema neorealista ha universalizzato questo sguardo dei bambini: il loro sguardo, che è molto di più di un semplice punto di vista, ci interroga tanto più oggi che la pandemia sembra moltiplicare le bancherotte dell’umanità. Che cosa facciamo perché i bambini possano guardarci sorridendo e conservino uno sguardo limpido, ricco di fiducia e di speranza? Che cosa facciamo perché non venga rubata loro questa luce, perché questi occhi non vengano turbati e corrotti?

A questo proposito viene alla mente un altro grande maestro del cinema italiano come Federico Fellini, che lei ama spesso citare, per la sua capacità di restituire lo sguardo sugli ultimi.

Sì, La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. M’identifico molto in quel film, in cui troviamo un implicito riferimento a san Francesco. Fellini ha saputo donare una luce inedita allo sguardo sugli ultimi. In quel film il racconto sugli ultimi è esemplare ed è un invito a preservare il loro prezioso sguardo sulla realtà. Penso alle parole che il Matto rivolge a Gelsomina: «Tu sassolino, hai un senso in questa vita». È un discorso profondamente intriso di richiami evangelici. Ma penso a tutto il percorso di Gelsomina: con la sua umiltà, con il suo sguardo pienamente limpido, riesce ad ammorbidire il cuore duro di un uomo che aveva dimenticato come si piange. Questo sguardo puro degli ultimi è capace di seminare vita nei terreni più aridi. È uno sguardo di speranza, che sa intuire la luce nel buio: per questo va custodito.

I film neorealisti non sono dei documentari che restituiscono una semplice registrazione oculare
della realtà; la restituiscono sì, ma in tutta la sua crudezza, attraverso uno sguardo che coinvolge,
che muove le viscere, che genera compassione.
Quello neorealista non è uno sguardo da lontano, ma uno sguardo che avvicina, che tocca la realtà così com’è, che se ne prende cura e, dunque, che mette in relazione Il cinema neorealista ha avuto questo potere, della grande arte, di cogliere nell’inverno ciò che era già primavera.
È uno sguardo di svelamento: là dove noi non vediamo che un limite, l’occhio del poeta e dell’artista costruisce passaggi, apre brecce negli sbarramenti, scorge i segni di una realtà più bella e grande L’arte cinematografica è riuscita a illuminare la trama dei fatti per svelarne il senso profondo.


Il cinema neorealista ha raccontato però una realtà ben precisa: quella di un’Italia da ricostruire appena uscita dal dramma epocale della guerra mondiale. Come possono quei film parlare anche al nostro presente?

Guardare non è vedere, si osserva efficacemente in questo volume. Vedere è un atto che si compie solo con gli occhi, per guardare occorrono gli occhi e il cuore. I film neorealisti non sono dei documentari che restituiscono una semplice registrazione oculare della realtà; la restituiscono sì, ma in tutta la sua crudezza, attraverso uno sguardo che coinvolge, che muove le viscere, che genera compassione. È la qualità dello sguardo a fare la differenza, allora come oggi. Quello neorealista non è uno sguardo da lontano, ma uno sguardo che avvicina, che tocca la realtà così com’è, che se ne prende cura e, dunque, che mette in relazione. Ho già osservato quanto oggi «i media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo di relazioni umane autentiche» ( Christus vivit, n. 88) e quanto ci sia «bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana» ( Fratelli tutti, n. 43). La capacità di acquisire uno sguardo che sa mettere in relazione è, dunque, la chiave per una comunicazione autentica e lo è tanto più in questa stagione difficile della pandemia, in cui il contatto virtuale predomina spesso sul contatto reale.

Se dovesse, dunque, indicare qual è la qualità più importante dello sguardo neorealista?

Direi quella di aver saputo guardare non solo dentro la storia, ma anche dentro il cuore degli uomini. In questo sta la sua catechesi di umanità: valida allora e valida oggi. Uno sguardo che tocca la realtà, ma anche il cuore, è uno sguardo che la realtà la trasforma. Non è uno sguardo che ti lascia dove sei, ma è uno sguardo che ti porta su, che ti solleva, che ti invita ad alzarti. Il cinema neorealista ha avuto questo potere, proprio della grande arte, di saper cogliere nell’inverno ciò che era già primavera. È uno sguardo che nelle tenebre custodisce il gusto e il senso della luce. È uno sguardo di svelamento: là dove noi non vediamo che un limite, l’occhio del poeta e dell’artista costruisce passaggi, apre brecce negli sbarramenti, scorge i segni di una realtà più bella e più grande. Abbiamo tanto bisogno di questo sguardo. Lo sguardo del neorealismo ha abbracciato per intero e fino in fondo la realtà drammatica del suo tempo, ma così facendo ha posto le coscienze al setaccio, ha preparato un campo ripulito per poter di nuovo piantare. È questa la lezione che possiamo apprendere dalla scuola di umanesimo del neorealismo: uno sguardo che provoca la coscienza, che mette in relazione, che fa germogliare. Una pedagogia per gli occhi che cambia il nostro sguardo miope avvicinandolo allo sguardo stesso di Dio.

Oltre a fornire una pedagogia dello sguardo il cinema, in generale, ha anche un grande valore sociale…

Il cinema è stato ed è un grande strumento di aggregazione. Soprattutto nel dopoguerra italiano ha contribuito in maniera eccezionale a ricostruire il tessuto sociale con tanti momenti aggregativi. Quante piazze, quante sale, quanti oratori, animati da persone che, nella visione del film, trasferivano speranze e attese. E da lì ripartivano, con un sospiro di sollievo, nelle ansie e difficoltà quotidiane. Un momento anche educativo e formativo, per riconnettere rapporti consumati dalle tragedie vissute. Anche oggi, guardando oltre le difficoltà del momento, il cinema può mantenere questa capacità di aggregare o, meglio, di costruire comunità. Senza comunione, all’aggregazione manca l’anima. È chiaro che molto dipende dalla qualità dello sguardo che il cinema propone ma anche dalla qualità dello sguardo degli stessi spettatori. La visione di un’opera cinematografica può aprire diversi spiragli nell’animo umano. Il tutto dipende dalla carica emotiva che viene data alla visione. Ci possono essere l’evasione, l’emozione, la risata, la rabbia, la paura, l’interesse… Tutto è connesso all’intenzionalità posta nella visione, che non è semplice esercizio oculare, ma qualcosa di più. È lo sguardo posto sulla realtà. Lo sguardo, infatti, rivela l’orientamento più diversificato dell’interiorità, perché capace di vedere le cose e di vedere dentro le cose. Lo sguardo provoca anche le coscienze a un attento esame.

 

Dal film 'La Strada' 1954 di Federico Fellini.  Nella foto: Anthony Quinn e Giulietta Masina

Dal film “La Strada” 1954 di Federico Fellini. Nella foto: Anthony Quinn e Giulietta Masina – Archivio Avvenire

 

Il neorealismo può essere visto anche come un grande processo di costruzione di una memoria collettiva, che, altrimenti, sarebbe rimasta sepolta dalle macerie della guerra. Che valore ha per lei il cinema nella dinamica tra storia e memoria? E quanto è importante custodire questa “memoria per immagini”?

Questo è un discorso decisivo per il futuro. Nella mia esperienza di pastore ho attinto diverse volte alla “memoria per immagini”: in Amoris laetitia, faccio riferimento al film Il pranzo di Babette [al n. 129, ndr], di Gabriel Axel (1987), per spiegare l’importanza della «gioia che deriva dal procurare diletto agli altri »; in Fratelli tutti ci sono ben tre riferimenti [ai nn. 48-203-281, ndr] al film Papa Francesco – Un uomo di parola, di Wim Wenders (2018). Il cinema insegna a creare e custodire la memoria, attraverso uno sguardo che sa tradurre e decifrare il messaggio. Penso anche alla densità di memoria che le immagini della Statio Orbis del 27 marzo del 2020 hanno sedimentato nel cuore di moltissime persone. In questo senso, anche per la Chiesa, la dinamica storia- memoria trova nel cinema un riferimento importante. Guardiamo al neorealismo: l’arte cinematografica è riuscita a illuminare la trama dei fatti per svelarne il senso profondo. Anche per questo è importante ritornare a quei film non con nostalgia, ma con impegno per il futuro. Dobbiamo essere bravi custodi della “memoria per immagini” per trasmetterla ai nostri figli, ai nostri nipoti. Qui credo che il discorso si possa allargare oltre ciò che propriamente chiamiamo cinema, per includervi le fonti audiovisive nel loro complesso quali preziose testimonianze del passato: viviamo nel tempo dell’immagine e questo tipo di documenti è ormai diventato per la nostra storia – e sempre più lo diventerà – un complemento permanente alla documentazione scritta. Per di più si tratta di documenti dal carattere intrinsecamente universale perché trascendono i confini linguistici e culturali e possono essere compresi con immediatezza da tutti. Il neorealismo, in Argentina, era compreso per ciò che trasmetteva. Non bisogna sottovalutare l’importanza di questi documenti che, pur essendo un patrimonio recente, è paradossalmente molto fragile e necessita di costanti cure: molto è già andato perso a causa dell’incuria e della mancanza di risorse e competenze. Su questo fronte dobbiamo fare di più, anche come Chiesa.

Fare di più da parte della Chiesa significa anzitutto non disperdere il patrimonio delle fonti audiovisive o forse poter immaginare qualcosa che si affianchi alle grandi istituzioni vaticane dell’Archivio e della Biblioteca apostolica?

Penso a un’istituzione che funzioni da Archivio Centrale per la conservazione permanente e ordinata secondo i criteri scientifici, dei fondi storici audiovisivi degli organismi della Santa Sede e della Chiesa universale. Potremmo chiamarla una Mediateca, accanto all’Archivio e alla Biblioteca, per la raccolta e la custodia del patrimonio di fonti storiche audiovisive di alto livello religioso, artistico e umano.

Libro di Viganò. Film e anima, confronto il 21

 

 

 

 

Verrà presentato mercoledì prossimo, 21 luglio, nel chiostro di Palazzo Borromeo, a Roma, il libro di monsignor Dario Edoardo Viganò “Lo sguardo: porta del cuore. Il Neorealismo tra memoria e attualità” (Effatà Editrice) che include una intervista a papa Francesco sul cinema (integralmente riportata in questa pagina). Dopo i saluti dell’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, interverranno lo sceneggiatore e regista Francesco Bruni, l’attrice Violante Placido, il direttore dell’Archivio storico dell’Istituto Luce Cinecittà Enrico Bufalini, il direttore delle Teche Rai Paola Sciommeri e Gianluca della Maggiore, docente di Scienza della cominazione presso l’Università UniNettuno. Professore ordinario di Cinema presso UniNettuno (tra i vari incarichi), monsignor Viganò è anche autore di film e documentari e in questo saggio indaga sull’importante fenomeno del neorealismo italiano che è stato tra i fondamenti di una cultura cinematografica che papa Francesco ha poi coltivato e arricchito nel corso del tempo e di cui il suo magistero è nitida testimonianza: non sono rare, infatti, le occasioni in cui il Papa ha fatto riferimento a questo o quel film nell’ambito di discorsi e omelie e perfino nei grandi testi del suo magistero. In questa intervista il Santo Padre afferma la forza testimoniale e documentale delle immagini e dei film, riconoscendo per alcuni di essi il loro valore universale e la loro capacità di interrogare il cuore dell’uomo. Oltre all’intervista a papa Francesco il volume si compone di un saggio nel quale viene proposta una riflessione sull’importanza dello sguardo tra memoria e storia a partire dall’esperienza del neorealismo: un’analisi che guarda al fenomeno neorealista senza pretese filologiche ma allargando volutamente l’interpretazione alla luce delle vicende presenti e delle specifiche riflessioni del Papa su questo cinema.

Cannes: Jodie Foster alle donne, è il momento

 © EPA

Usa parole come ‘rinascita’ ‘non ho paura’ ‘cambiamenti’ ‘transizioni culturali’, ha un curriculum incredibile che le è valso la Palma d’oro d’onore ma poi si gira di scatto e incroci quello sguardo inconfondibile, quella luce d’intelligenza con cui proprio qui al festival di Cannes aveva incantato accanto a Martin Scorsese per Taxi Driver che poi vinse la Palma d’oro. E’ sempre lei, Jodie Foster, tredicenne qui sulla Montee des Marches nel 1976, a mantenere quella verve ragazzina, che sui documenti ha 58 anni e nel frattempo diventata oltre che attrice di successo, anche regista, produttrice, attivista dei diritti LGBT seppure con il suo stile, fermo, autoritario ma non urlato.

Il ‘Rendez Vous’ con lei nella sala Bunuel del Palais du Festival è andato esaurito in qualche ora perchè sentirla raccontare era un’occasione troppo ghiotta non solo per la stampa accreditata ma per tutti i cinefili e studenti di cinema. “E’ il momento giusto”, ha detto la Foster in un francese perfetto, “mai come ora a Hollywood e nel mondo del cinema c’è l’occasione di farsi valere, la possibilità dopo anni di lotte, di vedere rappresentati tutti.
It’s the right time, ripete, per raccontare nuove storie perchè le cose sono completamente cambiate, le prospettive per le donne sono completamente diverse. Posso dirlo con certezza: ho cominciato a recitare a 3 anni”. Jodie Foster ha parlato di transizione culturale, “di un momento in cui riusciamo ad ascoltare tante differenti voci nel cinema”, esprimendo fiducia nel governo Biden e portando come esempio The Mauritian di Kevin MacDonald, il suo ultimo film in cui si parla delle vicende di Mohamedou Ould Slahi, detenuto a Guantanamo dal 2002 al 2016. Ed è qui che usa e sottolinea la parola ‘rinascita’ ‘rinnovamento’ e non intende solo nel cinema. Poi l’ex bambina prodigio (il poster della crema Coppertone resta una delle pubblicità storiche) , l’attrice del Silenzio degli Innocenti, di Sotto Accusa con cui vinse l’Oscar, ma anche di Ombre e nebbia, di Panic Room e di tanti altri titoli tra cui Carnage di Roman Polanski, racconta la sua guida costante: la realta. (ANSA).

Film in streaming da gustare sul divano in attesa del Natale

Come gestire la nostalgia per la sala cinematografica sotto Natale? È vero, i cinema sono ormai chiusi da un più di un mese causa pandemia, come del resto i musei e i teatri, ma le piattaforme streaming permettono di continuare a fare esperienza di buon cinema, così come di ottime serie Tv. Ecco allora quattro proposte appena rilasciate: il sorprendente “Mank” (2020, su Netflix) di David Fincher, viaggio alle origini del capolavoro hollywoodiano “Quarto potere” (“Citizen Kane”, 1941); l’incontro tra arte e fede nel documentario “Un luogo, una carezza” (2020, su VatiVision) di Marco Marcassoli dedicato alla cappella dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo; “L’incredibile storia dell’isola delle Rose” (2020, su Netflix), una colorata e frizzante istantanea dell’Italia del 1968 firmata Sydney Sibilia; infine, atmosfere zuccherose ma con un twist di ironia in “Fata madrina cercasi” (“Godmothered”, 2020, su Disney+) diretto da Sharon Maguire

Come gestire la nostalgia per la sala cinematografica sotto Natale? È vero, i cinema sono ormai chiusi da un più di un mese causa pandemia, come del resto i musei e i teatri, male piattaforme streaming permettono di continuare a fare esperienza di buon cinema, così come di ottime serie Tv.Ecco allora quattro proposte appena rilasciate: il sorprendente “Mank” (2020, su Netflix) di David Fincher, viaggio alle origini del capolavoro hollywoodiano “Quarto potere” (“Citizen Kane”, 1941); l’incontro tra arte e fede nel documentario “Un luogo, una carezza” (2020, su VatiVision) di Marco Marcassoli dedicato alla cappella dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo; “L’incredibile storia dell’isola delle Rose” (2020, su Netflix), una colorata e frizzante istantanea dell’Italia del 1968 firmata Sydney Sibilia; infine, atmosfere zuccherose ma con un twist di ironia in “Fata madrina cercasi” (“Godmothered”, 2020, su Disney+) diretto da Sharon Maguire. Il punto con la Commissione nazionale valutazione film della Cei (Cnvf) e il Sir.

 

“Mank” (Netflix)

È uno dei film più attesi della stagione, e a ben vedere un’opera che conferma in pieno le aspettative. Parliamo di “Mank” diretto dal geniale David Fincher – tra i suoi successi “Seven” (1995), “Panic Room” (2002) e “The Social Network” (2010) –, che porta sullo schermo una sceneggiatura scritta dal padre Jack Fincher, il racconto della genesi di uno dei film più importanti di Hollywood, “Quarto potere” (“Citizen Kane”, 1941) di Orson Welles, opera nata dalla penna di Herman J. Mankiewicz.Accostarsi al mito di “Quarto potere” non è di certo impresa facile, un’opera che costituisce di fatto un saggio sociologico sul rapporto uomo-potere, media-politica, ma anche un manuale di storia del linguaggio cinematografico.Sfogliando il testo “Manuale del film” di Rondolino-Tomasi, il film di Welles viene citato diffusamente, per spiegare ad esempio il rapporto ambiente-figura (il comizio elettorale di Kane) oppure il montaggio ellittico (il rapporto di Kane con la prima moglie).
Fincher si getta dunque nell’operazione “ricordo” in maniera quasi “dissacrante”, ovvero ribaltando la prospettiva del racconto da Orson Welles a Herman Mankiewicz. “Mank” è infatti una ricostruzione, con uso suggestivo ed elegante del bianco e nero, di come è nato quel film, commissionato a uno degli sceneggiatori più richiesti e tra i più difficili del tempo, Herman Mankiewicz, detto appunto Mank. Un copione nato durante la convalescenza di Mank a seguito di un incidente, sotto le pressioni del giovane prodigio radiofonico Orson Welles desideroso di debuttare al cinema. A influenzare il genio creativo dello sceneggiatore, spesso sotto effetto di alcolici, è anche il mondo circostante di Hollywood, la lotta dentro e fuori gli Studios a cominciare dall’imponente Mgm, guidata dal temibile Louis B. Mayer; e ancora sempre sfondo, ma mai marginale, la controversa figura del magnate dell’editoria con velleità politiche William Randolph Hearst.
Fincher racconta quindi in “Mank” la Hollywood di ieri, tra produzioni, eccessi e strascichi della Grande depressione, insieme alla conflittualità tra due Autori con la maiuscola, ossia Welles e Mankiewicz.Il film è intenso, serrato, dai dialoghi densi e raffinati – e non sempre facili da seguire nei vari giochi di rimandi e citazioni –, sostenuto da una regia assolutamente presente e vigorosa.A suggellare il tutto è la bravura recitativa di Gary Oldman (già Oscar nel 2018 per il ruolo di Winston Churchill in “Darkest Hour”), che domina la scena e fa scomparire tutti gli altri (ottimi) interpreti: Oldman sagoma il personaggio di Mankiewicz con una gestualità meticolosa e un trasporto sorprendente. Da applauso! Nell’insieme, dal punto di vista pastorale il film “Mank” è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti (per i minori la visione è consigliata insieme a un genitore o educatore).

“Un luogo, una carezza” (VatiVision)
Una bella sorpresa è il documentario che la piattaforma VatiVision programma per l’Avvento. Si tratta di “Un luogo, una carezza” di Marco Marcassoli, opera che ricostruisce la cordata di artisti che si è costituita per dare forma alla nuova chiesa dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. Su tutti l’artista internazionale Andrea Mastrovito – insieme a lui Stefano Arienti, Lino Reduzzi e Pippo Traversi –, che ha risposto alla chiama del progetto sia mosso dalla sfida di creare un singolare habitus per il luogo religioso, sia come testimonianza per la sua terra, per le sue radici bergamasche. La realizzazione della chiesa è meravigliosa, e il documentario di Marcassoli ben rende questo percorso artistico.Un doc di cui si rimane quindi non poco affascinati, non tanto per lo stile di regia, che di fatto gioca in sottrazione, bensì per lo svelamento della fasi realizzative, per la capacità di rimarcare le “singole note” della “partitura”.Inoltre, “Un luogo, una carezza” viene proposto in un momento in cui la città di Bergamo è associata al volto di un’Italia sfiancata dalla pandemia; e sapere poi che questa chiesa è inserita nel tessuto di edifici dell’ospedale intitolato alla memoria di papa Giovanni rende la visione ancor più densa di emozioni. È un film di certo semplice, lineare, ma che si carica di un potente significato aggiuntivo: una contro-narrazione al dolore, alla disperazione, all’immagine di quei carri militari pieni di bare visti nella primavera scorsa. È l’immagine di un luogo di conforto e riconciliazione, dove non manca mai la luce della Speranza. Dal punto di vista pastorale “Un luogo, una carezza” è da valutare come consigliabile, semplice e adatto per dibattiti.

“L’incredibile storia dell’isola delle Rose” (Netflix)
Dopo la trilogia “Smetto quando voglio” (2014-17) il regista Sydney Sibilia e il produttore Matteo Rovere tornano a lavorare insieme nel film “L’incredibile storia dell’isola delle Rose” sotto la bandiera Netflix. Tratto da una vicenda vera, nell’Italia a cavallo tra il 1968 e il 1969, il film racconta il genio e l’azzardo utopistico dell’ingegnere Giorgio Rosa (Elio Germano) che progetta e costruisce una palafitta abitabile a largo di Rimini, fuori dalle acque territoriali dell’Italia. Lì, in quella che viene chiamata l’Isola delle Rose, nasce il sogno di un vero e proprio Stato indipendente. E per diverse settimane questo Stato esiste e fa rumore, non poco rumore, a livello politico-sociale, con una richiesta di riconoscimento persino dall’Europa. Il film racconta dunque questo desiderio di libertà sulla spinta del clima sessantottino, con le resistenze della politica del tempo, del governo guidato da Giovanni Leone (Luca Zingaretti).Il regista Sibilia disegna un film colorato, frizzante, con una bella atmosfera sull’Italia sulla soglia del cambiamento, gli anni ’70; a ben vedere però la narrazione non sempre risulta compatta, rischiando di inciampare in raccordi sbrigativi o superficiali.Elio Germano si conferma una garanzia. Dal punto di vista pastorale il film “L’incredibile storia dell’isola delle Rose” è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

“Fata madrina cercasi” (Disney+)

Se vi è piaciuto “Come d’incanto” (“Enchanted”, 2007) di Kevin Lima con Amy Adams e Patrick Dempsey, allora “Fata madrina cercasi” (“Godmothered”, 2020) di Sharon Maguire non deluderà. Una rilettura del mondo delle fiabe in chiave (quasi) realistica, zuccherosa ma anche simpaticamente irriverente, con un riuscito duetto comico tra le attrici Jillian Bell e Isla Fisher. Il film targato Disney racconta il bisogno di mantenere vivi i sogni di infanzia anche da adulti, non facendosi sopraffare da delusioni, dolori o smarrimenti.Un film, forte del clima del Natale, che si traduce in un invito a custodire le relazioni familiari, a riempire quei silenzi generati dalla frenesia della quotidianità odierna.Si tratta di un perfetto “feel-good movie” adatto a una visione in famiglia. Dal punto di vista pastorale “Fata madrina cercasi” è da valutare come consigliabile, semplice e adatto per dibattiti.

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La proposta. L’Avvento con i film: quattro titoli per quattro domeniche

Una selezione da guardare a casa: i suggerimenti nel nuovo sussidio della Commissione valutazione film della Cei
Sophia Loren in "La vita davanti a sé"

Sophia Loren in “La vita davanti a sé” – .

avvenire

Il sussidio della Commissione nazionale valutazione film della Cei Sguardi d’Avvento verso il Natale è strutturato in quattro tappe, legate ai Vangeli delle quattro domeniche di Avvento. Ogni settimana viene proposto un film con una scheda che lo approfondisce secondo una studiata articolazione. Anzitutto c’è un richiamo al Vangelo di Marco, al quale segue una suggestione di papa Francesco con una citazione breve quanto il testo di un tweet. La scheda prevede anche una parola chiave che ci porta nelle pieghe del commento pastorale della domenica. Cuore della scheda è lo skyline, o sfondo cinematografico, il momento cioè in cui si offrono le chiavi di accesso al film proposto, elementi utili per cogliere i vari richiami pastorali ed educativi (ogni film è anche trattato in maniera più estesa dalla Commissione film Cei nella scheda di valutazione pastorale disponibile sul sito Cnvf.it). In ultimo, un secondo consiglio di visione attraverso un titolo con maggiori potenzialità aggregative e dall’indubbio respiro familiare, scelto tra gli scaffali della storia del cinema.

Un Natale senza dubbio diverso, ma comunque possibile. In un’Italia dove ancora imperversa la tempesta del coronavirus siamo entrati nel tempo dell’Avvento. Un cammino scandito da quattro domeniche, da quattro tappe, che ci conducono al Natale, all’incontro con la speranza che si rinnova nella nascita di Gesù. In un momento in cui anche gli stimoli culturali e aggregativi sono inevitabilmente ridotti, con cinema, teatri e musei chiusi, la Commissione nazionale valutazione film (Cnvf), espressione dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei, ha deciso di proporre un cammino cinematografico “differente” per questo Avvento, un modo per accostarsi al Natale attraverso una selezione di film da recuperare in ambito domestico semplicemente accendendo un computer, una smart-tv, un tablet oppure uno smartphone.

Si tratta del sussidio pastorale Sguardi d’Avvento verso il Natale (gratuito e scaricabile dai siti Cnvf.it o Comunicazionisociali.chiesacattolica.it oppure QUI), che ci aiuta a meditare sui Vangeli delle quattro domeniche di Avvento attraverso altrettante parole chiave: nostalgia, memoria, ricerca e incontro. A esse sono stati associati quattro titoli attuali, reperibili sulle piattaforme streaming: Tutto il mondo fuori (2020, su VatiVision) di Ignazio Oliva con la collaborazione di don Marco Pozza; La vita davanti a sé (2020, su Netflix) di Edoardo Ponti con Sophia Loren; L’altro volto della speranza (2017, su RaiPlay) di Aki Kaurismäki; e Bar Giuseppe (2020, su RaiPlay) di Giulio Base.

Curato da don Andrea Verdecchia, direttore dell’Ufficio comunicazioni della diocesi di Fermo e membro della Commissione film Cei, il sussidio permette di scandagliare la realtà odierna attraverso istantanee di un’umanità in affanno ma anche desiderosa di riscatto. «Un modo per accostarci al Natale stando più prossimi alla realtà – sottolinea Massimo Giraldi, presidente della Cnvf – e nel contempo nelle pieghe del Vangelo».

Si tratta dunque di un ciclo di visioni pronto a fornire occasioni di riflessione e dialogo per operatori pastorali e della comunicazione, educatori, catechisti e famiglie facendo i conti con un clima sociale difficile al tempo del Covid-19 ma anche con un diffuso spirito di resilienza. Come ricorda Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Cei, «dobbiamo provare a recuperare uno sguardo che sappia andare oltre l’emozione del momento e superare l’emergenza del tempo presente, per scorgere ancora una volta la stella».A questi lampi di realtà e di un’umanità stretta nelle fatiche del quotidiano, ma motivata da un desiderio di riconciliazione e di domani, il sussidio della Cnvf abbina anche alcuni grandi classici della storia del cinema e opere di anni più recenti accolte da ampio consenso. Un modo per allargare il campo della visione e coinvolgere tutti i componenti della famiglia, piccoli inclusi.

Ecco allora che a ogni tappa viene abbinato un secondo titolo da approfondire: si va da La vita è meravigliosa («It’s a Wonderful Life», 1946), di Frank Capra, a Tutti insieme appassionatamente («The Sound of Music», 1965), di Robert Wise, dal cartoon Disney-Pixar Up (2009), di Pete Docter, fino al più recente Nativity («The Nativity Story», 2006), di Catherine Hardwicke.

Sguardi cinematografici di oggi e di ieri, quindi, pensati per tutta la comunità come un’occasione per abitare al meglio lo spirito dell’Avvento, alternando lampi di cronaca a immagini di tenerezza e oscillando dalla favola “laica” sul Natale allo sguardo ravvicinato sul vero Natale: quello illuminato dalla Luce di speranza.

Segretario Commissione nazionale valutazione film della Cei

Anticipazione. Educare lo spettatore alla teologia del cinema

Perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di di altissima impronta religiosa. La collana della FEdS
L’attore Enrique Irazoqui, “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini

L’attore Enrique Irazoqui, “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini

La collana “Lo Spirito del cinema”, che la Fondazione Ente dello Spettacolo inaugura con il testo del cardinale Gianfranco Ravasi Come in uno specchio. Per una teologia del film (pagine 48, euro 8,00), di cui pubblichiamo una parte, si propone di indagare la testimonianza cinematografica nel suo rapporto con l’esperienza del Sacro. Ogni pubblicazione si interrogherà sullo statuto teologico del cinema proponendo due vie per avvicinare questa alta vetta: il sentiero dell’analisi filmica e quello delle diverse discipline della riflessione credente. Rendono prestigiosa la nuova collana i testimoni che la alimenteranno, capaci di offrire la descrizione delle intersezioni di questi due originali cammini.

Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis–Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento, dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, per conto dei fratelli Lumière, aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare Papa Leone XIII nell’atto di benedire. Da lì a poco un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”. Nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Albert K. Léhar, un’esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux, cui seguirà Jeanne d’Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi dei festival e così via. Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico. Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti – anche inattesi – della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.

La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» ( Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è per sua stessa natura simbolico e analogico – come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) – ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazareth una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15). In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia. Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono per loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’ “azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.

 

 

L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è per sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione. È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – ama i racconti ». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11–12 del Secondo Libro di Samuele. In quest’ottica si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una serie di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa. Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), a Il grande pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil B. DeMille (1927) remake di Nicholas Ray nel (1961); quest’ultimo ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956). Non si badava a spese e a effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitato, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si devono escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro ( L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1988, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema. Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica querelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa.

Festa Roma: premio Kineo a Afineevsky per docufilm sul Papa. In Vaticano il 22 ottobre riconoscimento Humanity Award

ansa

Il Premio Kineo compie 18 anni, e dopo Venezia per la prima volta è a Roma, in concomitanza con la 15/a Festa del Cinema. Il Kineo Movie for Humanity Award, assegnato a chi promuove temi sociali e umanitari, sarà consegnato in Vaticano Giovedì 22 ottobre 2020, ore 11.00 presso i Giardini Vaticani (Palazzina Leone XIII), da Rosetta Sannelli, ideatrice del riconoscimento, al regista russo che vive in America Evgeny Afineevsky, per il suo docufilm Francesco. Il regista è stato candidato agli Oscar e agli Emmy nel 2016 con Winter on Fire e nel 2018 ha ricevuto 3 nomination agli Emmy per Cries from Syria.
Francesco illustra il pensiero e le opere del Papa, una personalità di grande spessore, a prescindere dal credo o dai giudizi personali di ciascuno. La sua coscienza civile, l’impegno verso il rispetto dell’ambiente al fine di preservarlo per le future generazioni e la sua coscienza della storia in relazione alle tragedie del nostro secolo sono, i tratti di una sublime umanità che risaltano in ogni scena del film, che mostra veri drammi umanitari: il genocidio degli Armeni, la guerra in Siria e la migrazione verso l’Europa, la guerra in Ucraina, la persecuzione dei Rohingya.
Il Kineo, oltre ai premi alle classiche categorie, assegna due riconoscimenti speciali: il Movie for Humanity Award e il Kineo Green & Blue Award, dedicati a chi nel cinema promuove temi sociali, umanitari e ambientali. (ANSA).

CINEMA E TV Cosa vedere nel weekend? Le novità in sala e sulle piattaforme dal 24 settembre

È nei cinema il vincitore della Coppa Volpi Pierfrancesco Favino con “Padrenostro” di Claudio Noce, rilettura degli anni di piombo attraverso l’amicizia tra due preadolescenti; da più giorni c’è “La candidata ideale” della regista Haifaa Al Mansour, racconto di impegno civile sul ruolo della donna nella società saudita; poi, il dramma “Non odiare” di Mauro Mancini con Alessandro Gassmann, che esplora nel presente le fratture legate al dramma della Shoah e la preoccupante ripresa di spinte estremiste; infine, su Netflix il film per ragazzi e famiglie “Enola Holmes” di Harry Bradbeer con Millie Bobby Brown, stella di “Stranger Things”

Ultimo weekend di settembre sempre all’insegna dei film protagonisti alla 77a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, come pure di novità sul fronte delle piattaforme. Ecco il punto sulle uscite con la Commissione nazionale valutazione film Cei e l’agenzia Sir: è nei cinema il vincitore della Coppa Volpi Pierfrancesco Favino con “Padrenostro” di Claudio Noce, rilettura degli anni di piombo attraverso l’amicizia tra due preadolescenti; da più giorni c’è “La candidata ideale” della regista Haifaa Al Mansour, racconto di impegno civile sul ruolo della donna nella società saudita; poi, il dramma “Non odiare” di Mauro Mancini con Alessandro Gassmann, che esplora nel presente le fratture legate al dramma della Shoah e la preoccupante ripresa di spinte estremiste; infine, su Netflix il film per ragazzi e famiglie “Enola Holmes” di Harry Bradbeer con Millie Bobby Brown, stella di “Stranger Things”.

“Padrenostro”

Ha voluto fortemente questo film Pierfrancesco Favino, che oltre a interpretarlo lo ha anche prodotto. Parliamo di “Padrenostro” firmato da Claudio Noce, uno dei quattro titoli italiani in concorso alla 77a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia e l’unico a uscirne vincitore, con la Coppa Volpi per il miglior attore. Al suo terzo lungometraggio e dopo alcune regie televisive, Claudio Noce decide di confrontarsi con una pagina sofferta della recente storia italiana, gli anni di piombo, raccontandoli dal punto di vista dell’infanzia. A imprimere ancor più pathos al racconto sono le sfumature personali: il regista condivide la tragica esperienza dell’attentato terroristico subito dal proprio padre, Alfonso Noce, ferito nel dicembre del 1976. Claudio Noce parte da quel fatto, ma ci racconta una storia altra: protagonista è Valerio (Mattia Garaci), bambino di dieci anni che assiste al ferimento del padre (Favino) sotto casa a seguito di un agguato terroristico; il padre si salva, ma Valerio non riesce a dimenticare quelle immagini. A queste circostanze così turbolente si aggiunge anche la conoscenza del quattordicenne Christian (Francesco Gheghi), dall’aria scanzonata ma irrequieta. “Padrenostro” è un film di grande fascino, marcato da evidente cura formale e da una fotografia suggestiva; un’opera tesa a schiudere la complessità degli anni del terrorismo ad altezza di bambino, con protagonisti due ragazzi, due innocenti chiamati a portare sulla proprie spalle il peso di una generazione confusa. In alcuni passaggi si colgono richiami al film “Io non ho paura” di Gabriele Salvatores, lo sbocciare di un’amicizia tra due ragazzi su un terreno impervio, spingendo i toni dal dramma alla “favola”. Il film “Padrenostro” segue in parte questo tracciato, con un lavoro davvero sorprendente del regista insieme ai due giovani interpreti. Nel corso della narrazione qualcosa però scappa di mano e il binario narrativo non sempre appare compatto e solido. Senza dubbio notevole è la prova di Favino, che puntella il racconto con misura. Dal punto di vista pastorale il film da valutare come complesso, problematico e adatto per dibattiti.

“La candidata ideale”

Proviene sempre dalla Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, ma non dall’edizione 77. È stato, infatti, presentato in concorso nel 2019 “La candidata ideale” (“The Perfect Candidate”) di Haifaa Al Mansour, pioniera nel cinema saudita, la prima donna araba a girare a Riyad con il suo film d’esordio “La bicicletta verde” (2012). Nel nuovo film, “La candidata ideale”, la Mansour prosegue nel raccontare la condizione della donna nella società saudita, rivendicando spazi di autonomia e libertà. Un racconto però senza provocazioni, senza fratture gratuite, bensì uno sguardo che coniuga impegno e gentilezza, spingendosi verso i confini della fiaba sociale. La storia: una giovane dottoressa lavora in un ospedale di provincia, tra resistenze e pregiudizi; per una serie di circostanze, decide di candidarsi al consiglio comunale battendosi per la voce delle donne in politica. I temi alla Ken Loach ci sono tutti, ma la declinazione rimane prudente e composta senza per questo perdere di incisività. L’opera di Haifaa Al Mansour indaga con efficacia lo scenario sociale, lavorativo, ma anche il tessuto domestico e familiare, senza fare polemiche ma avanzando una chiara idea di progresso e libertà. Dal punto di vista pastorale il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto senza dubbio per dibattiti.

“Non odiare”

A Venezia77 è stato presentato nell’ambito della Settimana internazionale della critica: è “Non odiare”, l’esordio alla regia di Mauro Mancini con protagonista Alessandro Gassmann, un racconto drammatico giocato tra memoria della Shoah e amnesie del presente. La storia: Simone (Gassmann) è un chirurgo, di religione ebraica e figlio di un sopravvissuto alla Shoah; trovandosi sulla scena di un incidente causato da un pirata della strada, presta soccorso al ferito ma qualcosa in lui cambia quando vede sul corpo dell’uomo tatuata una svastica. Orrore e risentimento si scontrano nell’animo di Simone con senso del dovere e solidarietà. “Tutto giocato sull’equilibrata e intensa interpretazione di Alessandro Gassmann – indica Eliana Ariola, membro della Cnvf – il film ‘Non odiare’ si mantiene controllato e sobrio nei dialoghi ma non per questo meno efficace nel rappresentare il dilemma morale che vivono i protagonisti, lacerati dall’odio e dal risentimento, eppure quanto mai bisognosi di perdonare e perdonarsi. L’opera solleva interrogativi importanti, ai quali però non offre risposte certe, lasciando allo spettatore il compito di trovarle nel proprio cuore”. Dal punto di vista pastorale il film “Non odiare” è da considerare come complesso, problematico e adatto per dibattiti, utile in ambito educativo con adolescenti accompagnati da un educatore per riflettere sulla memoria della Shoah e sulla pericolosa ripresa di idee di matrice estremista, nazi-fascista.

“Enola Holmes”

Si torna al 221B di Baker Street ma in chiave femminile, con la sorella minore del celebre investigatore Sherlock Holmes, personaggio uscito dalla penna di Arthur Conan Doyle. Parliamo del film “Enola Holmes”, disponibile dal 23 settembre sulla piattaforma Netflix, diretto da Harry Bradbeer e interpretato nonché prodotto dalla giovane star Millie Bobby Brown, lanciata dalla serie Tv “Stranger Things”. L’opera prende le mosse dai romanzi per ragazzi di Nancy Springer (sei pubblicati tra 2006-2010) ed è ambientata sempre nell’Inghilterra vittoriana: è la storia della sedicenne Enola (la Brown), terzogenita di famiglia Holmes dopo Mycroft (Sam Claflin) e Sherlock (Henry Cavill), cresciuta con spirito di indipendenza dalla madre Eudoria (Helena Bonham Carter), attivista per diritti delle donne. Enola è arguta, perspicace e sprezzante del pericolo; l’improvvisa scomparsa della madre e l’incontro con il giovane visconte Tewkesbury (Louis Partridge) la spingono a seguire le orme del fratello Sherlock, gettandosi in una girandola di misteri e pericoli. Sia chiaro, la serie BBC “Sherlock” con il suo protagonista Benedict Cumberbatch è inarrivabile, ma “Enola Holmes” è davvero un ottimo prodotto, che allarga l’orizzonte creato da Conan Doyle in maniera originale e gustosa. Il film, quasi certamente l’apripista di una serie, avvicina il mondo di Sherlock ai ragazzi di oggi, nonché alle loro famiglie, con una decisa e bella spinta femminista. In “Enola Holmes” troviamo anche un po’ dei “Goonies” e di “Indiana Jones”, o meglio delle “Avventure del giovane Indiana Jones”. Tutto gira alla perfezione con una narrazione avvincente e brillante, sorretta da attori britannici di primo piano. La Brown, in particolare, mette a segno un ruolo che la fa decollare dal mondo di “Stranger Things”. Dal punto di vista pastorale “Enola Holmes” è consigliabile e nell’insieme brillante.

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