«Rendere ragione della speranza che è in noi». Messaggio di Mons. Morandi, nuovo Vescovo, alla Diocesi

Una riflessione del Vescovo Morandi sulla Bellezza della Fede

(da Radio Vaticana)

Il Testo del Messaggio alla Diocesi del 9 Gennaio 2022

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo, in queste prime parole che rivolgo a Voi come Vescovo eletto della Chiesa di Reggio Emilia – Guastalla, desidero dirvi la mia gioia unita ad una certa trepidazione per questa missione che il Signore, per mandato della Chiesa e del Santo Padre Francesco, mi ha affidato.

La gioia nasce dalla consapevolezza che ogni ministero e servizio nella Chiesa è per il bene dei fratelli e delle sorelle a cui si è inviati e sono grato al Signore di poter spendere la mia vita e i doni che il Signore mi ha dato per voi e insieme a voi!
La gioia è il primo sentimento profondo che più si è impresso nel mio cuore nell’istante in cui mi è stata comunicata la nomina, anche perché la Diocesi di Reggio Emilia Guastalla non mi è proprio così estranea, anzi!

Gli anni di studio in preparazione al presbiterato, seguiti da quelli di insegnamento presso lo Studio Teologico Interdiocesano, mi hanno dato la possibilità di conoscere tanti futuri presbiteri, a cui assicuro sin d’ora che non farò supplementi di esami, inoltre anche numerosi laici e religiosi, in occasione di corsi biblici e di catechesi nelle comunità parrocchiali e religiose in cui sono stato invitato.

Una frequentazione passata che in questo momento ha fatto riemergere tanti ricordi e volti di presbiteri, religiosi e laici di Reggio Emilia a cui sono grato per la loro testimonianza di fede e il dono della loro amicizia sincera.

Desidero dire la mia gratitudine al Vescovo Massimo, mio predecessore che in questi anni ha guidato con sapienza e generosità la Chiesa di Reggio Emilia- Guastalla; inoltre un saluto cordiale e riconoscente al Vescovo emerito Adriano Caprioli, che anni fa ebbe il coraggio di chiamarmi a predicare gli esercizi spirituali al Clero di Reggio.

Non posso dimenticare il Vescovo Luciano Monari, mio paziente insegnante di Sacra Scrittura e anche consacrante alla mia ordinazione episcopale.
Come vedete sono tanti i legami che mi uniscono alla vostra Chiesa, anzi alla nostra Chiesa!

Se la gioia è il primo sentimento, la trepidazione è certamente il secondo, consapevole come sono dei miei limiti, ma altrettanto certo che la vostra preghiera e pazienza saranno e sono un dono prezioso per aiutarmi ad essere un pastore secondo il cuore dell’unico Buon Pastore: Gesù Cristo!

Vorrei affidarmi alle parole dell’apostolo Pietro per orientare il nostro cammino di fede e il mio servizio episcopale. L’apostolo esorta la comunità cristiana “a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt, 3,15).

Ritengo che questo sia una delle urgenze pastorali che la Chiesa, oggi, deve sapere assumere in tutta la sua portata e forza!
La speranza cristiana, che non è da confondere con il semplice ottimismo, affonda le sue radici in quella fede che anima e sostiene il nostro pellegrinaggio verso la piazza d’oro della Gerusalemme celeste, fede in quel Signore risorto che ha promesso di rimanere con noi sino alla fine del mondo! (Mt 28,20).

La certezza della Sua presenza imprime nel cuore – in modo definitivo – quel sentimento profondo di serenità e fiducia di chi sa che non è mai solo, qualunque sia la condizione in cui si trova! Egli è l’Emmanuele! Il Dio con Noi! Evangelizzare la gioia e la speranza: questo mi pare essere il dono più grande che possiamo offrire agli uomini e alle donne che incrociano il nostro cammino, qualunque sia la loro situazione e la loro condizione di vita!

Le modalità di questo annuncio sono chiaramente espresse dall’apostolo Pietro che aggiunge: “Tutto questo sia fatto con dolcezza e rispetto e con una retta coscienza” (1Pt,3,16).
Vorrei e desidero che il mio ministero episcopale sia al servizio di questo annuncio intriso di gioia e di speranza e, come scrive l’apostolo Paolo, essere collaboratore della vostra gioia (2 Cor 1,24).

Grazie a Dio e all’opera di tanti fratelli e sorelle di questa Chiesa, sono tanti i segni di speranza che già illuminano il suo cammino: presbiteri, seminaristi, diaconi, religiosi/e, missionari/e e laici hanno donato e donano quotidianamente la loro vita perché possa risplendere la bellezza e il fascino di essere discepoli di Cristo. A loro la mia profonda gratitudine e riconoscenza!

Sono numerose le iniziative formative, spirituali e caritative, presenti nella nostra Chiesa di Reggio Guastalla! Continuiamo a camminare in questa scia luminosa di fratelli e sorelle!

Un particolare saluto ai presbiteri, primi collaboratori del ministero episcopale: grazie per quanto già fate e per la vostra generosità e disponibilità, insieme alla numerosa presenza dei diaconi permanenti! La testimonianza della fraternità presbiterale e diaconale è sempre la premessa indispensabile per l’efficacia del nostro servizio pastorale!
Un saluto veramente cordiale alle diverse confessioni cristiane presenti nella Diocesi; la speranza è che si possa intensificare il cammino verso quell’unità che rimane uno dei doni più preziosi del Signore risorto!
Vorrei inoltre salutare le autorità civili, politiche, militari e sanitarie a cui assicuro la mia piena collaborazione perché insieme possiamo assicurare una crescita umana e spirituale dell’intera società, soprattutto in questi tempi così gravati dalla Pandemia!

Infine permettete un pensiero ai tanti fratelli e sorelle sofferenti, la cui speranza è messa a dura prova, a chi vive in condizione di precarietà e povertà e vede il suo presente e il suo futuro seriamente compromessi. A voi cari fratelli e sorelle vorrei dire la prossimità e la premura della nostra Chiesa che ricorda bene che, ogni volta che vi accoglie e sostiene, accoglie e serve Cristo stesso!
“Si vorrebbe essere un balsamo per tante ferite”, così scriveva Etty Hillesum nel suo Diario, dopo aver visto da vicino e sperimentato le immani sofferenze del suo popolo. Essere un balsamo/sollievo significa anzitutto sentirsi amati e accolti incondizionatamente!

Carissimi fratelli e sorelle, in attesa di vederci, preghiamo gli uni per gli altri, affidiamoci alla Madre di Dio, a cui è intitolata la nostra Cattedrale e che è venerata nella Basilica della Ghiara e nel Santuario della Beata Vergine della Porta a Guastalla; invochiamo la protezione dei Santi Patroni San Prospero, San Francesco d’Assisi, dei Santi martiri Crisanto e Daria e anche del Beato Rolando Rivi!

Tutti benedico nel Signore Gesù.

+ Giacomo Morandi
Arcivescovo – Vescovo eletto
di Reggio Emilia-Guastalla

Roma 9 gennaio 2022
Festa del Battesimo di Gesù

All’Ambrosianeum torna «Bibbia e arte»

Bibbia

Dopo la pausa del 2021, quattro incontri in programma dall’11 gennaio al 9 febbraio. Relatori la storica dell’arte Sissa Caccia Dominioni e il biblista don Matteo Crimella

All’Ambrosianeum tornano a grande richiesta, dopo l’interruzione del 2021 causata dalla pandemia, gli incontri su “Bibbia e Arte”. Dopo l’esame della Genesi, dell’Esodo, del Cantico dei Cantici e della Resurrezione, il focus della prossima edizione sarà l’Apocalisse, analizzata a partire dal testo evangelico.

Tra esegesi e iconografia
Il corso, nel 2022 alla sesta edizione, proporrà in ogni incontro la lettura del testo del Nuovo Testamento, l’esame delle più importanti questioni esegetiche e teologiche connesse allo scritto, e lo studio di alcuni dipinti di epoche diverse, inquadrati storicamente e spiegati nei dettagli.

Presupposto delle lezioni è la convinzione che la Bibbia sia il grande codice della cultura occidentale, e che di conseguenza lo studio dell’arte, della musica e della letteratura di questa parte del mondo non possa prescindere dalla conoscenza delle Scritture.

Relatori e date
Relatori degli incontri, in programma alle 18 dall’11 gennaio al 9 febbraio, saranno Sissa Caccia Dominioni (storica dell’arte, docente e consulente presso diverse istituzioni museali) e don Matteo Crimella (dottore in Scienze Bibliche e docente di Sacra Scrittura alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano). Ecco il programma:

11 gennaio: Una teologia della storia
19 gennaio: Le lettere alle Chiese
1 febbraio: L’Agnello immolato
9 febbraio: I sette sigilli

È gradito un contributo di partecipazione a partire da 40 euro. Sono previsti sconti per gli iscritti al ciclo 2020, interrotto a causa della pandemia, e per chi frequenterà anche il Corso Biblico sul Vangelo di Marco.

Informazioni e iscrizioni: Segreteria Fondazione Culturale Ambrosianeum (via delle Ore 3, Milano; tel. 02.86464053; info@ambrosianeum.org)

chiesadimilano.it

 

Ognissanti e fedeli defunti. Riflessioni a partire dalla teologia

Quali sono i fondamenti filosofico-dogmatici delle festività che i cristiani vivono il 1 e il 2 novembre, cioè la solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti? Don Simone Billeci, analizzando il pensiero di Joseph Ratzinger, parte dal concetto greco d’immortalità dell’anima e quello biblico di risurrezione arrivando fino alla modernità

Domani, 1 novembre, la Chiesa cattolica celebrerà la solennità di Tutti i Santi. A ciò seguirà la commemorazione dei fedeli defunti. Appuntamenti liturgici che fanno riflettere sul duplice orizzonte dell’umanità: naturale e soprannaturale.

Il binomio naturale-soprannaturale viene storicamente utilizzato dalla riflessione teologica per esprimere i due ordines nell’uomo, la cui elevazione alla vita soprannaturale presuppone l’esistenza di un principio metafisico chiamato natura, come afferma dall’assioma gratia supponit naturam.

La capacità dell’uomo di ricevere la gratia non è qualcosa di radicalmente estraneo alla sua natura, eppure allo stesso tempo è completamente sproporzionato rispetto ad esso. La natura viene creata da Dio in modo tale che, se egli liberamente sceglie di donare la gratia, essa non si oppone a tale donazione gratuita soprannaturale; non la esige, né le è dovuta. Eppure il Creatore costituisce l’ordine naturale inserendo in esso una capacità passiva di ricevere la gratia se da lui donata.

Cosicché, come gratia supponit naturam, così resurrectio supponit immortalitatem.

L’immortalità essenziale dell’uomo

Ratzinger ha rilevato come la riscoperta dell’indivisibilità dell’uomo spinge a comprendere in modo nuovo il messaggio biblico, che non promette immortalità a un’anima separata dal corpo, ma a tutto l’uomo. Nel Nuovo Testamento, infatti, essa non compare propriamente come idea integrativa di una precedente e autonoma immortalità dell’anima, bensì come l’essenziale affermazione fondamentale sul destino dell’uomo. Se la concezione greca si basa sull’idea che l’uomo sia composto da due sostanze estranee fra loro, di cui l’una (il corpo) è destinata a dissolversi, mentre l’altra (l’anima) è per sua natura imperitura, e perciò per sua natura continua a sussistere in maniera indipendente da qualsiasi altro essere, anzi solo nella separazione dal corpo a essa essenzialmente estraneo, l’anima perverrebbe alla sua piena perfezione, viceversa il pensiero biblico, presuppone l’indivisa unità dell’uomo.

Appare chiaro, quindi, che il nucleo centrale della fede nella risurrezione non sta affatto nell’idea di restituzione dei corpi. Piuttosto, il vero contenuto di ciò che la Sacra Scrittura intende annunciare agli uomini, come loro speranza mediante la cifra della risurrezione dei morti, si può enucleare, anzitutto, nel fatto che l’idea dell’immortalità, che la Bibbia esprime parlando della risurrezione, intende un’immortalità della “persona”, dell’unica realtà uomo. Per il teologo di Tubinga si tratta di un’immortalità “dialogica” (risuscitazione, essere risvegliato!), vale a dire che l’immortalità non risulta semplicemente dal naturale non-poter-morire di ciò che è indivisibile, ma dall’azione salvante di colui che ci ama e ha il potere di far questo: l’uomo non può perire totalmente perché è conosciuto e amato da Dio.

            Dalle considerazioni sin qui fatte risulta chiarita la formula biblica dell’immortalità grazie a risuscitazione la quale, contrariamente alla concezione dualistica dell’immortalità, così come si esprime nello schema greco di corpo-anima, intende trasmettere un’idea integralmente umana e dialogica dell’immortalità. A questo punto, però, si pongono una serie di interrogativi.

A riguardo Ratzinger scrive: “limmortalità non viene forse fatta consistere in una pura grazia, benché in realtà debba spettare alla natura delluomo in quanto tale? O in altri termini: non si finisce qui per approdare a unimmortalità riservata solo alle persone pie, dunque per introdurre uninaccettabile differenziazione del destino umano? Teologicamente parlando, non si scambia qui forse limmortalità naturale dellessere uomo col dono soprannaturale dellamore eterno, che rende luomo beato? Non bisogna forse attenersi allimmortalità naturale proprio per amore dellumanità della fede, perché una sopravvivenza delluomo concepita in senso puramente cristologico scivolerebbe necessariamente nel miracolistico e nel mitologico?”.

Più precisamente: che cosa rende l’uomo propriamente uomo? E che cos’è lo specifico che distingue l’uomo? Non ci sono dubbi, per il docente di Tubinga, nell’affermare che a causa del suo carattere dialogico chiamato “risuscitazione”, l’immortalità spetta all’uomo in quanto tale, a ogni singolo, e non è nulla di soprannaturale aggiunto successivamente.

Quanto alla domanda circa il proprium dell’uomo, Ratzinger fa notare che ciò che distingue l’uomo è: “visto dallalto, il suo essere interpellato da Dio, ossia il fatto che egli è interlocutore nel dialogo con Dio, lessere cui Dio ha rivolto il suo appello. Visto dal basso, ciò significa che luomo è la creatura capace di pensare Dio, lessere aperto alla trascendenza. La questione qui non è se egli pensi davvero Dio, se si apra realmente a lui, ma si afferma che egli è fondamentalmente quella creatura che è in sé capace di farlo, anche se di fatto, per i motivi più diversi, forse non riesce mai a tradurre in atto questa sua capacità”.

Lo specifico dell’uomo è così colto da Ratzinger nel fatto che egli è dotato di un’anima spirituale, immortale; affermazioni che non si contraddicono, ma si limitano a esprimere la stessa cosa in forme di pensiero differenti. Infatti, per il teologo di Tubinga, “avere un’anima spirituale” vuol dire proprio essere voluti in maniera speciale, essere conosciuti e amati da Dio in modo particolare; avere un’anima spirituale significa essere una creatura chiamata da Dio a un dialogo eterno con lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli. Ciò che noi – usando un linguaggio più sostanzialistico – diciamo “avere un’anima”, con un linguaggio più storico e attuale lo indichiamo come “essere interlocutori nel dialogo con Dio”.

Pertanto, quando diciamo che l’immortalità dell’uomo si fonda sul dialogo con Dio, il cui amore soltanto dona eternità, non intendiamo affermare un destino speciale riservato alle persone pie, bensì porre in evidenza l’immortalità essenziale dell’uomo in quanto tale. Così, in ultima istanza, per Ratzinger “non è possibile fare una netta distinzione fra naturale” e soprannaturale”: il dialogo fondamentale, che per primo fa sì che luomo sia uomo, converge senza soluzione di continuità nel dialogo di grazia, che ha nome Gesù Cristo. E come potrebbe essere diversamente, se Cristo è realmente il secondo Adamo”, lautentico appagamento di quellinfinito anelito che sale dal primo Adamo, ossia dalluomo semplicemente?”.

Il concetto greco d’immortalità dell’anima e quello biblico di risurrezione

Per Ratzinger, nella nostra società, il rapporto con la morte appare a prima vista stranamente contraddittorio. Infatti, se da un lato, la morte è considerata un tabù, quasi fosse qualcosa di sconveniente che debba essere possibilmente tenuto nascosto e bandito dalla coscienza, dall’altro, al contrario, si osserva un’esibizione della morte, che corrisponde alla demolizione della barriera del pudore in altri settori dell’esistenza.

Da ciò emerge che “leliminazione della paura metafisica non è riuscita interamente; si vorrebbe venirne a capo provocando possibilmente da se stesso la morte, facendola così sparire del tutto quale problema che tocca lessenza delluomo e che non può essere risolto dalla tecnica”. L’importanza crescente che l’eutanasia assume, per esempio, si fonda sul fatto che la morte dev’essere evitata quale fenomeno che interessa la persona e sostituita con la morte tecnica che non impegna personalmente; in definitiva, si vuole chiudere la porta in faccia alla metafisica prima che questa possa presentarsi. Il prezzo per questa repressione della paura è alto.

Per il teologo bavarese, infatti, dalla disumanizzazione della morte consegue necessariamente la disumanizzazione della vita: degradando la malattia e la morte, e collocandole sul piano del tecnicamente fattibile, si degrada contemporaneamente l’uomo. In particolare, fa notare Ratzinger, “nel tendere a ridurre lhumanum, sincontrano oggi stranamente due opposti atteggiamenti: a una visione positivistica e tecnocratica del mondo luomo è dintralcio, quanto lo è al naturalismo integrale, che, vedendo nello spirito il vero ostacolo, tenta sempre più di denigrare luomo quale animale mal riuscito”. Con la scelta dellatteggiamento verso la morte viene scelto insieme latteggiamento verso la vita; per cui la morte ci può far da chiave per decifrare che cosa sia in fondo luomo”.

Anche interrogando i professionisti della tradizione cristiana, considerando le diverse tendenze, si giunge per Ratzinger a risultati alquanto insoddisfacenti. In particolare, i lavori dei teologi luterani tedeschi (Althaus e Jüngel), basati sull’antitesi tra il pensiero biblico e quello greco, delineano una conclusione che ha avuto gravi conseguenze per gli interrogativi della fede cristiana e il suo annunzio. Si afferma, infatti, che la fede nell’immortalità dell’anima è nata dal pensiero idealistico-dualistico ostile al corpo del platonismo e non ha nulla in comune con il pensiero biblico, poiché quest’ultimo, al contrario, considera l’uomo nella sua interezza e unità indivisa come creatura di Dio, la quale non può essere divisa in corpo e anima.

Motivo per cui neppure la morte viene trasfigurata in modo idealistico, ma sperimentata nel suo pieno e crudo realismo come nemico che distrugge la vita. Solamente la resurrezione del Cristo porta una nuova speranza, che tuttavia nulla toglie alla morte integrale in cui non muore soltanto il corpo, ma l’uomo. Non vi può essere dubbio: la morte è totale e divora l’uomo intero. Certo, l’uomo intero sarà ridestato a una nuova vita. Comunque, la speranza biblica può essere espressa soltanto con la parola “resurrezione” e presuppone la morte integrale. Di conseguenza il concetto dell’immortalità dell’anima dev’essere abbandonato quale concetto che contraddice al pensiero biblico.

Tentando di esaminare a fondo il dato storico-filosofico nella sua coerenza oggettiva si nota, anzitutto, che il confronto (greco-biblico) tra le civiltà e i modi di pensare è sotto l’aspetto storico senza senso. Suddetta disamina per il teologo bavarese appare necessaria per dimostrare l’insostenibilità della consueta schematica platonica, su cui si fonda il cliché di tante teorie teologiche. Per Ratzinger, infatti, il vero orientamento del pensiero platonico viene completamente travisato qualora lo si qualifichi come una concezione individualistica che nega i valori terreni e induce gli uomini a rifugiarsi nell’aldilà; il concetto della forza vitale della verità, che comprende il concetto dell’immortalità, non è la componente di una filosofia che postula la fuga dal mondo.

Anima e corpo al momento della morte

Per Ratzinger, l’interrogativo sorto nella tematica dell’immortalità dell’anima e della resurrezione, trasformando gradualmente l’intero panorama della teologia, non potrebbe essere formulato più sinteticamente e più drammaticamente di quanto fatto dal teologo luterano tedesco Cullmann. Per Cullmann, infatti, se si domandasse a un cristiano, protestante o cattolico, intellettuale o non, che cosa insegni il Nuovo Testamento sulla sorte individuale dell’uomo dopo la morte, salvo pochissime eccezioni, si avrebbe sempre la stessa risposta: l’immortalità dell’anima.

Eppure questa opinione, pur diffusa, è uno dei più gravi fraintendimenti che riguardano il Cristianesimo. Pionieri di questo nuovo atteggiamento furono i teologi protestanti Stange e Schlatter, al cui pensiero aderì ampiamente Althaus. In sostanza, rifacendosi alla Sacra Scrittura e a Lutero, si rifiutava come dualismo platonico il concetto di una separazione nella morte tra il corpo e l’anima, qual è presupposta nella dottrina dell’immortalità dell’anima, e si affermava che l’unico insegnamento biblico è quello secondo cui nell’uomo perisce il corpo e l’anima, e che soltanto così si conserva il carattere di giudizio della morte.

Di conseguenza, non sarebbe cristiano parlare di immortalità dell’anima, ma si dovrebbe parlare unicamente della resurrezione dell’uomo intero, e contrapporre alla religiosità corrente del morire, e alla sua escatologia del cielo, l’unica prospettiva della speranza cristiana, cioè quella dell’ultimo giorno.

Lo stesso Althaus, tuttavia, tentò di apportare alcune rettifiche a questa tesi, che nel frattempo si stava diffondendo rapidamente, obiettando che anche la Sacra Scrittura conosce lo schema dualistico, che anch’essa non conosce soltanto l’attesa dell’ultimo giorno, ma una sorta di speranza individuale in un cielo futuro. L’idea che parlare dell’anima non fosse un discorso biblico s’impose al punto che perfino il Missale Romanum del 1970 bandì il terminus “anima” dalla liturgia dei defunti, il quale finì con lo scomparire altresì dal rituale della sepoltura.

“Ma che cosa ha potuto rivoluzionare tanto rapidamente una tradizione, che fin dai tempi della Chiesa antica era radicata saldamente ed era stata sempre considerata centrale?”, si domanda Ratzinger. Infatti, l’apparente evidenza del pensiero biblico da sola non vi sarebbe certo sufficiente. È presumibile che l’efficacia delle nuove argomentazioni sia derivata in notevole parte dal fatto che la concezione definita “biblica” dell’assoluta indivisibilità dell’uomo collima con la moderna antropologia naturalistica, la quale vede l’uomo unicamente come corpo e non vuole sapere nulla di un’anima che ne possa essere separata.

Sebbene la rinuncia al concetto dell’immortalità dell’anima elimini un potenziale punto conflittuale tra la fede e il pensiero moderno, per Ratzinger, ciò non salverebbe ancora la Sacra Scrittura, poiché per la coscienza moderna la via biblica sembra ancora molto meno percorribile.

In particolare, “lunità delluomo – sta bene –, ma chi sarebbe in grado, visti i dati odierni della scienza naturale, di immaginarsi una resurrezione del corpo? Una tale resurrezione supporrebbe una materialità radicalmente nuova, un cosmo fondamentalmente cambiato; il che sorpassa del tutto i limiti della nostra capacità intellettiva. Pure la domanda che cosa avvenga in tal caso nel periodo che precede la fine dei tempi” non può essere semplicemente ignorata. La spiegazione data da Lutero, di un sonno dellanima”, non è certo una risposta che possa convincere. Ma se non esiste unanima, se di conseguenza non vi può essere un sonno”, sorge il problema, chi allora potrebbe essere risvegliato? Come si forma lidentità tra luomo precedente e luomo che, a quanto pare, dovrà essere ricreato dal niente? Voler respingere con sdegno simili domande come filosofiche” non contribuirebbe certamente a dare una spiegazione a tutto ciò”.

Si è giunti così a comprendere che il solo biblicismo non avrebbe generato un progresso, che senza ermeneutica, cioè senza accompagnare il dato biblico con la ragione non si sarebbe ottenuto nulla. A questo punto, osserva il teologo bavarese, volendo prescindere da tentativi radicali che intenderebbero risolvere il problema opponendosi a tutte le affermazioni oggettivanti e ammettendo soltanto interpretazioni esistenziali, sono state tentate due vie: da un lato, la formulazione di un nuovo concetto del tempo e, dall’altro, l’interpretazione in modo nuovo della corporeità. In particolare, con la prima sfera concettuale, si cercò di risolvere la questione richiamando il fatto che la “fine del tempo”, come tale, non è più tempo.

Essa, quindi, non indica una futura data del calendario, bensì è un non-tempo, per cui trovandosi fuori della temporalità è vicina a ogni tempo in modo uguale. Da questo concetto, si trasse la facile conclusione che, essendo anche la morte un “uscire dal tempo”, essa conduca all’a-temporalità. Si impose così la tesi per la quale il tempo è una forma della vita fisica; la morte significa uscire dal tempo per entrare nell’eternità, nel suo unico oggi. A questo proposito, per Ratzinger, emergono due considerazioni.

La prima: “non si tratta forse qui di una velata restaurazione della dottrina dellimmortalità che, dal punto di vista filosofico, si fonda su supposizioni un tantino avventate? Infatti qui si presume la resurrezione già per luomo appena morto, per luomo che sta per essere portato alla tomba”. Infatti, l’indivisibilità dell’uomo e il suo legame con la sua vita fisica appena spenta, ovvero quell’indivisibilità che era stata il punto di partenza della tesi, sembra ora non avere più alcuna importanza.

Sebbene simili pensieri possano essere sensati, Ratzinger si chiede ancora: “con quale diritto si possa parlare ancora di corporeità” quando si nega esplicitamente ogni rapporto con la materia, alla quale si concede di partecipare alleternità soltanto in quanto è stata un momento estatico dun esercizio umano di libertà”. In ogni caso, anche in questo modello il corpo è abbandonato alla morte, mentre contemporaneamente viene affermata una sopravvivenza delluomo. Per cui, la confutazione del concetto dellanima perde la sua credibilità, poiché implicitamente vi si ammette lesistenza di una realtà” personale, separata dal corpo, il che è esattamente quanto aveva voluto esprimere il concetto dellanima. Riguardo al problema della corporeità e dellesistenza dellanima rimane, dunque, una strana mescolanza di concezioni, che non si può certo accettare come definitiva”.

La seconda considerazione riguarda la filosofia del tempo e della storia, la quale, per il teologo bavarese, rappresenta la leva del tutto: “è davvero soltanto così che esiste quellalternativa al tempo fisico e al non-tempo che viene identificata con leternitàÈ logicamente possibile collocare luomo, il quale ha vissuto il periodo determinante della sua esistenza nel tempo, nella struttura della pura atemporalità? Può, pertanto, uneternità che ha un inizio essere eternità? Non è, qualcosa che ha un inizio necessariamente non-eterno, temporale? Ma come negare, che la resurrezione delluomo ha un inizio, cioè che avviene dopo la sua morte?”.

È chiaro, per Ratzinger, che se lo negassimo, la logica ci costringerebbe a concepire l’uomo come già risorto nell’ambito dell’eternità che non ha inizio; il che significherebbe contraddire a ogni seria antropologia e cadere praticamente proprio in quel platonismo che intendiamo combattere. Anche il richiamo al concetto medievale dell’aevum del teologo tedesco Lohfink, sostenitore della tesi della resurrezione nella morte stessa non elimina gli interrogativi precedenti, piuttosto “occorre qui denunciare nuovamente un platonismo accentuato sotto un duplice aspetto: in primo luogo, in simili modelli il corpo viene privato definitivamente della speranza della salvezza e, in secondo luogo, con laevum limpostazione della storia è minore rispetto alla dottrina di Platone, soprattutto perché manca di logica”.

Lindistruttibilità della vita che si apre nella fede

Per poter giudicare la reale importanza dell’influsso greco sul pensiero cristiano, e per essere in grado di formulare qualche affermazione sensata sullo sviluppo di quest’ultimo, è indispensabile, per Ratzinger, riflettere su quale sia stato l’atteggiamento greco nei confronti del nostro problema. Il retaggio dell’antichità non ha trasmesso alcuna concezione chiara, circa la sorte dell’uomo dopo la morte; da qui, la Chiesa antica, non poté trarre le sue risposte al riguardo. Piuttosto, le concezioni sviluppate nella Chiesa antica sulla provenienza dell’uomo tra la morte e la risurrezione, si fondano sulle tradizioni giudaiche, circa l’esistenza dell’uomo nello sheol, tradizioni che il Nuovo Testamento ha trasmesso e incentrato sulla cristologia.

Nessun’altra concezione può reggere di fronte ai dati di fatto storici. Il che significa che la dottrina dell’immortalità dell’anima, qual è insegnata dalla Chiesa antica, ha due aspetti. Da una parte, infatti, “essa è determinata dal centro cristologico, che garantisce al credente lindistruttibilità della vita che si apre per lui nella fede; essa basa questa affermazione teologica sul concetto dello sheol quale suo sostrato antropologico e poggia quindi su una concezione di fondo universale-umana, che tuttavia, sebbene nel frattempo si sia sviluppata ulteriormente rispetto alle concezioni arcaiche, non era stata approfondita sufficientemente per quanto riguarda le sue implicazioni antropologiche. Motivo per cui non dispose neppure di una terminologia unitaria. Come nella tradizione giudaica, il veicolo dell’“essere con Cristo”, dellesistenza della persona umana che perdura oltre la morte, è chiamato quasi ovunque anima” oppure spirito” ”.

Dall’altra parte, ambedue i termini erano influenzati dai sistemi gnostici largamente diffusi, in cui la psiche (anima) era considerata di grado inferiore rispetto allo spirito dei “pneumatici”. A questo punto, come rileva Ratzinger, è chiaro che proprio quando si trattava di conservare la certezza centrale dell’esistenza col Cristo che perdura oltre la morte, e dell’attesa della definitiva resurrezione della carne, si avvertisse la necessità di dare a questa affermazione una base antropologica.

Altrettanto evidente è che la fede cristiana esigeva dall’antropologia delle motivazioni che nessuna delle antropologie esistenti poteva darle, ma di cui avrebbe potuto utilizzare i concetti adeguatamente rielaborati. Infatti, occorreva sviluppare un’antropologia che da un lato, riconoscesse l’uomo quale opera di Dio, creato e voluto da Dio come un intero, ma che, dall’altro lato, distinguesse in questo uomo tra ciò che è perituro e ciò che rimane. A sua volta, questa distinzione doveva essere fatta in modo da lasciare aperta la via verso la resurrezione, ovvero verso la definitiva unità dell’uomo e della creazione.

Una simile antropologia avrebbe dovuto conciliare in sé proprio ciò su cui Platone e Aristotele divergevano. Se, da una parte, occorreva accogliere l’inscindibile unità tra il corpo e la psiche insegnata da Aristotele, dall’altra parte bisognava evitare di interpretare la psiche nel senso di un ἐντελέχεια. Altresì, bisognava evidenziare il particolare carattere spirituale della psiche senza dissolverla in una concezione universalistica dello spirito.

Di fronte alla difficoltà di una simile impresa non può meravigliare che questa sintesi sia maturata soltanto lentamente; essa troverà la sua forma definitiva solamente in Tommaso d’Aquino. Con l’Aquinate, infatti, come sottolinea Ratzinger, si è giunti ad un’affermazione estremamente importante: nell’uomo, lo spirito è talmente uno con il corpo che gli si può attribuire a pieno diritto il termine di “forma”. E, all’inverso, la forma del corpo è tale da essere spirito, e come tale fa dell’uomo una persona.

Con ciò, quello che dal punto di vista filosofico sembrava impossibile è stato ottenuto, ed è resa giustizia alle istanze apparentemente perfino contraddittorie della dottrina della creazione e del concetto ormai cristallizzato dello sheol: l’anima fa parte del corpo quale forma, ma ciò che è forma del corpo è insieme spirito e fa dell’uomo una persona schiudendo a lui la realtà dell’immortalità. Trattandosi qui di un principio centrale, il teologo bavarese ribadisce come il concetto dell’anima, qual è stato usato nella liturgia e nella teologia fino al Concilio Vaticano II, abbia in comune con l’antichità altrettanto poco quanto il concetto della resurrezione; esso, infatti, è un concetto specificamente cristiano e solo per questo motivo ha potuto essere formulato sul terreno della fede cristiana, di cui esprime la visione di Dio, del mondo e dell’uomo nell’ambito dell’antropologia. In realtà, lo struggente desiderio greco della visione, il concetto greco che contemplare è vivere, che la conoscenza, l’assimilazione della verità è vita – questa grande conquista dello spirito greco – viene qui accolta e trova qui conferma.

E richiamandosi ad un’omelia di Gregorio di Nissa, Ratzinger osserva che “il pensiero platonico della vita che scaturisce dalla verità è qui approfondito nella sua versione cristologica e trasformato in una concezione dialogica dellesistenza delluomo, che contiene contemporaneamente affermazioni del tutto concrete su ciò che conduce luomo sulla via dellimmortalità e tramuta quindi la teoria apparentemente speculativa in unindicazione pratica: quella purificazione” del cuore che si compie nella pazienza della fede e nellamore che da questa nasce, trova sostegno nel Signore, il quale solo rende possibile il cammino paradossale sulle acque e conferisce con ciò un senso allassurda esistenza delluomo”.

Tale concezione fondamentale, caratteristica per la tradizione del pensiero cristiano, appare nell’Aquinate inserita in un’interpretazione della dinamica dell’intero creato verso Dio. Infatti, nell’anima che appartiene, da un lato, interamente al mondo materiale, ma dall’altro lato trascende questo mondo, il mondo materiale acquista consapevolezza di se stesso, e ciò proprio perché nell’uomo esso tende a Dio; ragion per cui è accolta la concezione dialogica, nata dalla visione cristologica dell’uomo ed è insieme collegata al problema della materia, dell’unità dinamica di tutto il mondo creato.

La destinazione creaturale delluomo allimmortalità

            Se si afferma che la vita dell’uomo, oltre la morte, è determinata dialogicamente e il dialogo è concretizzato in base alla cristologia, a questo punto, per il teologo bavarese, non possiamo non domandarci se non ci abbandoniamo con ciò a un soprannaturalismo, che o non risponde più alle domande comuni a tutti gli uomini, oppure estende la cristologia all’indefinito al punto da farle perdere quanto le è specifico. Infatti, se l’immortalità è concepita soltanto come gratia, o addirittura come il privilegio dei soli devoti, essa si adegua nel miracoloso e perde la sua base razionale; per Ratzinger, piuttosto, si delinea che la ricerca di Dio non è per l’uomo un qualsiasi capriccio intellettuale; se viene intesa in base alla formula anima forma corporis, essa tocca il centro del suo essere.

L’uomo, quale creatura, è fatto in un modo che, per sua natura, comporta l’indistruttibilità. Così, “non è nellessere se stesso e nellincomunicazione che luomo raggiunge limmortalità, bensì proprio nel suo rapporto, nella capacità di comunicare con Dio, dobbiamo ora aggiungere che questa apertura non è un in più” nellesistenza, la quale potrebbe anche essere vissuta indipendentemente da essa, bensì che questa apertura rappresenta quanto vi è di più profondo nelluomo, ossia propriamente ciò che noi chiamiamo anima”. Alla medesima conoscenza si può giungere pure da unaltra direzione e dire per esempio: un essere è tanto più se stesso quanto più è aperto, quanto più è comunicazione. Il che, a sua volta, porta alla conoscenza, che luomo è “se stesso”, cioè è “persona” in quanto è aperto al tutto e al più profondo dellessere”.

            Una simile apertura, per Ratzinger, è data all’uomo, e pertanto non è un prodotto di un suo sforzo proprio. Tuttavia, essa è data all’uomo in quanto persona, in modo da far ora parte della personalità dell’uomo, secondo l’intenzione della creazione. E richiamandosi all’insegnamento di Tommaso, egli afferma: “a questo si riferisce Tommaso quando dice che limmortalità appartiene alluomo per natura. Alla base di questa sua affermazione ritroviamo coerentemente il suo concetto della creazione, che dice come una tale natura può essere comunicata soltanto dal Creatore, ma che di questo dono luomo diviene proprietario, diventando partecipe di quanto gli è stato conferito. Il che costituisce, invero, già una risposta alla domanda: che cosa accade però, quando luomo viva contrariamente alla sua natura, quando sia chiuso invece che aperto? Che cosa, se nega il suo rapporto con Dio o addirittura non se ne rende conto?”.

            Adesso si chiarisce la portata del concetto della creazione, e si evidenzia insieme il luogo dove inizia la novità, la particolarità della cristologia. Infatti, l’uomo, quale è, vorrebbe procurarsi l’immortalità da se stesso, ma nel tentativo di procurarsi da sé l’eternità egli non può, in ultimo, che fallire, sprofonda nel non-essere, e addirittura consegna già la sua vita alla morte.

Quanto alla correlazione tra il peccato e la morte, Ratzinger osserva: “una simile esistenza, in cui luomo intende sostituirsi a Dio e vuole affermare la propria autonomia, la propria indipendenza e essere dunque soltanto se stesso, simile a un Dio”, diviene unesistenza da sheol, un essere nel non-essere, una vita dombra che è esclusa dalla vita vera. Ma ciò non significa che luomo possa revocare o annullare da sé la creazione di Dio. Ciò che ne consegue non è il puro nulla. Luomo, al pari di ogni altra creatura, può muoversi sempre solamente dentro la creazione, ma non può né produrla da sé né può precipitarla nel puro nulla. Ciò che egli ottiene in questo modo non è quindi lannullamento dellessere, ma un essere in contraddizione con se stesso, una potenzialità che nega se stessa: lo sheol”. La connaturale ordinazione alla verità, a Dio, la quale esclude il non-essere, sussiste anche quando venga negata o dimenticata”.

            Solo a questo punto, per Ratzinger, s’innesta l’affermazione propriamente cristologica. L’evento cristiano, infatti, significa che Dio annulla questa auto-contraddizione senza distruggere la libertà dell’uomo con un atto arbitrario dall’esterno. Più segnatamente, “nella vita e nella morte del Cristo è manifesto che Dio stesso si reca nello sheol, instaura la comunicazione nel luogo dellincomunicabilità, guarisce il cieco (Gv 9) e crea così la vita della morte, in mezzo alla morte. E qui linsegnamento cristiano sulla vita eterna diviene nuovamente unaffermazione assolutamente pratica. Limmortalità non può essere prodotta e, sebbene sia dono della creazione, non è semplicemente un fatto naturale. Se viene considerata tale, essa si trasforma, al contrario, in infelicità. Essa si fonda su un rapporto che ci viene offerto, ma che proprio per essere offerto, ci coinvolge personalmente: esso richiama a una prassi del ricevere, al modello della discesa di Gesù (Fil 2,5-11) contro leritis sicut Deus, contro la totale emancipazione, nella quale sarebbe vano voler cercare la salvezza. Se la capacità di conoscere la verità e la capacità di amare sono il luogo delluomo in cui si apre per lui la vita eterna e dove questa riceve un senso, questa vita eterna diviene la tematica dell’“oggi” e la forma corporis pure nel senso che non estrania luomo al mondo, ma lo toglie dallinformalità anarchica e lo rende persona”.

Luomo spirituale e il suo rapporto con Dio nel tempo

A questo punto, per il teologo bavarese, occorre riflettere su quale modo l’uomo disponga del tempo in quanto uomo, e se su questa base sia possibile concepire un modo d’essere dell’uomo fuori dalle condizioni fisiche dell’essere. Così, approfondendo la domanda, emerge che la temporalità è presente nell’uomo in diversi strati, e quindi pure in diversi modi. A tal riguardo, l’aiuto più valido, per una simile analisi, può venire dal Libro X delle Confessiones di Agostino, in cui egli passa attraverso i vari strati del proprio essere e vi incontra la “memoria”.

Da suddetta analisi, Ratzinger osserva che l’uomo, in quanto corpo “partecipa al tempo fisico che, secondo la velocità rotatoria dei corpi, viene misurato con parametri, i quali essendo a loro volta movimento, sono insieme relativi. Tuttavia luomo non è soltanto corpo, ma anche spirito. Essendo entrambi in lui inscindibili, la sua appartenenza al mondo materiale si ripercuote necessariamente pure sul suo essere spirituale; tuttavia questultimo non è analizzabile in base ai soli dati di fatto fisici. Sebbene la sua partecipazione al tempo fisico impronti il tempo del suo spirito, nelle sue funzioni spirituali egli è tuttavia temporale” in una maniera diversa e più profonda di quanto lo sono i corpi fisici”.

            Dunque, l’uomo non ha un solo tempo fisico, ma ha pure un suo tempo antropologico o “tempo umano”, collegandosi al “tempo-memoria” del santo d’Ippona e benché questo tempo-memoria sia improntato dal rapporto dell’uomo col mondo fisico, non è totalmente legato a quest’ultimo e non si fonde neppure totalmente con esso. Il che significa che quando lascia il modo del βίος, il tempo-memoria si scinde dal tempo fisico per perdurare in seguito come puro tempo-memoria, ma non si trasforma in eternità. In definitiva, ciò significa che un parallelismo eternamente senza rapporti reciproci e quindi pure statico tra il mondo materiale e quello spirituale, contraddice alla ragion d’essere della storia, contraddice alla creazione di Dio e contraddice alla parola della Bibbia.

I Testimoni di Geova rifiutano le trasfusioni di sangue: cosa dice la Bibbia?

Egregio direttore, ho visto il film Il verdetto, un grande film, come i “classici” di sempre. Mi sta però molto a cuore un chiarimento sulle emotrasfusioni, che non sono ammesse dai Testimoni di Geova, cui appartengono alcuni personaggi del film. Si spiega che questo si trova nella Bibbia (Gen 9,4, Lv 17,10-14 e At 15,29). Ma in realtà quei tre versetti, se tradotti correttamente, dicono esattamente il contrario.

Da tempo si è capito che un’interpretazione letterale e fondamentalistica della Scrittura non è corretta, perché non tiene conto del contesto storico in cui gli originali furono scritti e dell’enorme distanza temporale che da essi ci separa. Nei tre testi citati si parla di “astenersi” dal sangue (degli animali usati per i sacrifi€ci), perché secondo la mentalità semitica il sangue è sede della vita, visto che, perdendolo, essa se ne va. Per i Testimoni di Geova introdurre del sangue estraneo nel proprio organismo equivale a quel “mangiare il sangue” proibito dal Levitico. Ma l’Antico Testamento, nel cristianesimo, va sempre collegato al Nuovo e al mistero di Cristo. Con Lui, unico Salvatore, sono cadute molte prescrizioni antiche. Ora, il “senso profondo” di Lv 17,10-14 è che Dio chiede all’uomo un totale rispetto della vita, di cui Egli è l’autore. Il divieto di mangiare il sangue equivale, perciò, a rispettare e a tutelare la vita ovunque essa si presenti. Dunque, proprio l’emotrasfusione, anziché trasgredire il comandamento biblico, è un modo per osservarlo e praticarlo, specie quando è necessaria per salvare una vita!

LETTERA FIRMATA a Famiglia Cristiana

BIBBIA E LITURGIA Religione, fede ed altro ancora

Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Il primo piano di lettura del brano odierno è già palese nelle parole di Gesù: la contrapposizione tra il rispetto formale della legge scritta (delle consuetudini, …) e l’adesione della vita allo spirito dell’alleanza con Dio. A proposito di legge scritta e di come evolve il suo ruolo nella fede ebraica, con competenza di gran lunga maggiore della mia (ovviamente), ha scritto ieri Gilberto Borghi.

Le polarità sono chiare, possiamo sintetizzarle nelle categorie religione e fede. Ciascuno può suddividere il “materiale religioso” tra i due contenitori e, facendolo, si può interrogare sui contenuti a cui tiene di più.

Nella categoria “religione” ci sta bene la tradizione, nel senso di tradizioni cristallizzate e consolidate fino a diventare norma. E cosa scriveremo come polarità opposta? cosa scriveremo per non squilibrare la bilancia già nella scelta delle parole? L’eccedenza creativa che viene, o può venire, dallo Spirito. Per distinguere la genuinità di questa eccedenza ci sono le parole di discernimento della comunità dei credenti.

Un versetto dalla prima lettura “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla” ci instrada nella comprensione del Vangelo “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. Come si diceva sopra, la sussistenza di una comunità di fede non può fare a meno di esplicitazioni, chiarificazioni, precetti; quanto meno canoni che regolino la vita della comunità unita dalla stessa fede. Molto probabilmente Gesù allude a parole umane (e, con le parole, strutture) che, di gradino in gradino, crescono fino a diventare un fardello insostenibile, un ostacolo o zavorra o, semplicemente, un orpello inutile (e siamo tornati alle spigolature di domenica scorsa). In questo modo il discorso della fede vissuta in comunità scivola sul versante religione, nel senso di organizzazione della pratica religiosa.

Fin qui la mia povera riflessione sul vangelo domenicale, tuttavia non posso nascondere che altre parole mi ha accompagnato, o meglio tormentato, per tutta la settimana: le parole di Gilberto (sempre lui!) in morte di Gino Strada. “Tu sei stato così bravo da liberarti presto dal bisogno di me, e mi hai permesso di restare in te come desiderio di bene per tutti. Questo è davvero di pochi. Ma questo è il canale più diretto e limpido attraverso cui io lavoro nei cuori delle persone, anche se a parole non mi riconoscono.”

Non tocca a me fare esegesi delle parole di un compagno di cordata qui su VN, un amico. Ma posso confessare che queste parole, che Gilberto attribuisce al Signore come rivolte a Gino Strada, hanno lasciato il segno. Qui il binomio fede-religione, che spesso fa accapigliare noi gente di chiesa, è stato ampiamente superato. Il tema, evidentemente, è quello della salvezza eterna, della visione felice di Dio (e della vita) quando sarà terminato il pellegrinaggio terreno. Un tema che sta a cuore a tutti i credenti. Condividendo la lettura di Gilberto, una domanda mi rimaneva in gola. La religione non basta, nel senso che la pratica religiosa potrebbe non essere espressione genuina della fede; se non “serve” neanche la fede, di cosa parliamo? Se tutto si dissolve in filantropia, che ci stiamo a fare qui, a scrivere su VN? Vorrei fare chiarezza a me stesso, e spero di non annoiare il lettore.

Il capitolo 25 di Matteo ci dice che per entrare nelle felicità del Signore, non bastano i bollini delle pratiche religiose, non serve il timbro dell’appartenenza cristiana. Purtroppo, noi cristiani non sempre abbiamo una visione chiara a questo proposito. Una volta acquisito questo insegnamento, le pratiche e le appartenenze vanno dunque abolite? Nel dato di esperienza personale ho cercato di darmi una risposta.

Nella seconda lettura leggiamo “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.” È una frase importante, se viene ripresa anche dalla preghiera colletta. Noi nulla possiamo dire riguardo il mistero della vocazione cristiana: ad alcuni il messaggio del Vangelo non arriva, ad altri ancora arriva e non trova accoglienza formale… e poi ci siamo noi, quelli che hanno accolto il seme e che la lettera di Giacomo definisce “primizia delle sue creature”. Piuttosto che ossessionati dalla “raccolta dei bollini” delle pratiche religiose, noi siamo quelli sedotti dalla Parola ascoltata. Il credente in Gesù confessa di non bastare a sé stesso e di aver trovato in un Altro la pietra angolare dell’esistenza, l’orizzonte di senso.

In questa confessione di insufficienza trova un varco anche il bisogno di un pizzico di religione. La religione, con i suoi canoni/precetti, come pedagogia collettiva per la fede. Solo un pizzico, perché non tolga slancio alla fede, ma pure la religione serve. Almeno per me e la mia povera fede è così.

vinonuovo

Ezechiele: l’esilio e la promessa

fonte: Settimana News

di: Roberto Mela

ezechiele

Nel volume vengono raccolte le folgoranti pagine dedicate al libro di Ezechiele pubblicate come editoriali su Avvenire da Luigino Bruni, noto economista e scrittore, professore ordinario di Economia politica all’Università LUMSA di Roma.

Sono ventotto capitoli che ripercorrono con linguaggio avvincente e molto moderno il libro profetico di Ezechiele, sacerdote e profeta che svolge il suo ministero a Babilonia, durante l’esilio imposto da Nabucodonosor al popolo di Israele a partire dal 598 a.C.

Parola, corpo, silenzio

Il profeta è l’uomo della parola, ma paradossalmente Ezechiele si trova colpito dal mutismo proprio all’inizio della sua attività fra gli esuli. Egli non è padrone della parola. Potrà parlare solo quando il Signore gli comunicherà qualche cosa per il suo popolo. Con le visioni egli è trasportato anche a Gerusalemme, dove può contemplare le scene di idolatria che si compiono proprio all’interno del tempio.

Egli ingoia il rotolo della parola, ma il ritmo della sua vocazione profetica sarà un alternarsi di silenzio e di parole. Egli si trova ad essere sentinella del suo popolo, parlando in pubblico per allargare i confini della fraternità, custodendo in tal modo Abele e presentandosi come anti-Caino. Come sentinella sta sulle mura non per intercettare i nemici, ma per ascoltare una parola diversa da trasmettere al suo popolo.

Tipico di Ezechiele è il fatto di trovarsi a trasmettere la parola con tutto il proprio corpo e la propria carne, con azioni simboliche che, accompagnate al mutismo, gli attirano i motteggi del popolo che lo scambiano per un saltimbanco e un attore. Egli profetizza invece la tragica sorte che toccherà a Gerusalemme. Sarà ridotta, dalla fame dell’assedio, a razionare il cibo e a cuocerlo su escrementi di animali.

Ezechiele non è solo mediatore tra Dio e l’uomo, ma è un messaggio fatto carne. Un simbolo che tiene unito cielo e terra, un uomo che sta contemporaneamente dalla parte di Dio e del suo popolo. Disegna una  città assediata, giace su un fianco per trecentonovanta giorni e per quaranta giorni sull’altro, incarnando in tal modo l’esilio di Israele e quello di Giuda. Mangerà e berrà in modo razionato mentre sarà disteso sul fianco e infine si taglierà barba e capelli, dividendoli e disperdendoli al vento. Una parte sarà però legata al suo mantello. Tra il mantello e il cuore. Il “resto”. La profezia è un luogo dove trova riparo un resto durante le grandi crisi, gli assedi e gli esili. I profeti creano così un poco di spazio per seminare il futuro.

Idolatria

Il profeta ha parole durissime contro l’idolatria, le infedeltà del popolo consumate sulle alture, dove gli idoli sono ladri religiosi che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono ad essere un servo. Un resto tuttavia rimarrà vivo e si ricorderà del Signore. Un verbo al futuro («si ricorderanno di me»): si ricorda nel deserto, nei campi di mattoni, nell’esilio, e si ricorda per poter continuare a credere nella promessa che deve venire e verrà […] «È imparando a ricordare che si inizia a risorgere» (p. 41).

Quando Ezechiele contempla in visione l’idolatria consumata a Gerusalemme verso divinità maschili e femminili, prega intensamente YHWH di salvare almeno un resto. Egli è l’uomo della seconda preghiera, dopo che la prima risposta non aveva salvato nessuno. Il profeta è colui che solo può mediare tra cielo e terra, non un’altra divinità. Sta qui il grande umanesimo della Bibbia. Gettato «con la faccia a terra», il profeta intercede nel posto più spirituale dato all’uomo. La terra appunto.

Il resto “vero” e il tempio mobile

Dire chiaramente chi era il resto di Israele, chi erano i veri ricchi – non quelli che disprezzano i poveri – tra coloro che erano rimasti a Gerusalemme e che pensavano che la terra fosse data a loro, mentre disprezzavano come puniti da Dio e maledetti coloro che erano andati in esilio, è stato un grande impegno per Ezechiele. I profeti mettono in crisi le banali e facili religioni del merito e della colpa e ci mostrano un’altra idea di povertà e di giustizia.

Bellissima e di enorme importanza l’affermazione di Ez 11,16: «Dice il Signore Dio: Se li ho mandati fra le nazioni, se li ho dispersi in terre straniere, nelle terre dove sono andati io sono diventato il loro santuario» (11,16). Anche Geremia aveva detto che il cesto di fichi buoni non era quello rimasto in patria ma quello deportato a Babilonia (Ger 24,1-2).

I profeti rompono gli schemi teologici e danno voce alla parte maledetta del mondo, «e ci ricordano che, se c’è un Dio vero, questo va cercato prima di tutto nei mucchi di letame nei campi dei deportati, tra gli esiliati, tra gli scartati e i maledetti» (p. 54). Lì lo possiamo trovare, dopo averlo cercato magari in luoghi ben conosciuti.

Un popolo esiliato, senza tempio, riceve da YHWH l’assicurazione che egli sarà per loro un tempio: la sua presenza sostituirà il tempio che non esiste più. Dio non può essere confinato in un luogo, non abita solo i luoghi sacri, perché la sua casa è la terra intera e non solo la terra promessa. «Dio è più grande del culto religioso con cui lo veneriamo. È diverso e più grande dei nostri sacrifici, delle nostre liturgie, perché è un Dio laico (che vive in mezzo al popolo). Un messaggio immenso ancora oggi» (p. 55).

Il popolo esiliato capì, grazie a Ezechiele, che lì, in mezzo a divinità straniere, nulla mancava a loro: smarriti, disperati, capirono che non erano maledetti né abbandonati, ma che erano stati condotti nel deserto per celebrare una nuova alleanza, una nuova festa, una nuova Pasqua. L’esilio di Israele fu un ritorno alla tenda mobile dell’arameo errante, al loro Dio nomade come il suo popolo che, spostandosi, può farsi compagno di strada di ogni uomo e di ogni donna della terra, di tutti «quelli della via» (cf. p. 56).

Anche agli esiliati di oggi possiamo ripetere le parole di Ezechiele, parole di salvezza e non di condanna. I poveri non sono maledetti. Le religioni e le comunità possono essere amiche dei poveri, dismettere i vestiti meritocratici disegnati dagli uomini e poi appiccicati alla divinità senza chiedere loro il permesso. «I profeti continuano a essere custodi dell’uomo e custodi di Dio. Noi, testardi, tentiamo di manipolare Dio e gli uomini; e i profeti, più testardi di noi, continuano a custodirli» (p. 57).

Senz’anima, falsa gratuità

Nonostante non sia compreso, Ezechiele continua a compiere segni su ordine di YHWH. Annuncia il fallimento prima che venga l’esperienza; fà il bagaglio dell’esiliato e, di sera, esce attraverso il foro praticato nel muro. Tale sarà il destino del popolo da lì a poco. Questo segno meraviglioso non sarà l’annuncio del ritorno in patria – come dicevano i falsi profeti – ma dell’esilio di chi è rimasto in patria, a Gerusalemme.

Ezechiele mangia il pane e beve l’acqua con mano tremebonda e con angoscia: sta arrivando il tempo dell’esilio per gli abitanti di Giuda e di Gerusalemme. Ezechiele diventa ciò che rappresenta. Non ripete un copione come i falsi profeti. Diventa un tutt’uno col suo messaggio di verità. Le parole più sante sono quelle pronunciate dal suo corpo tremolante e ferito.

I falsi profeti sono invece i profeti che hanno perso l’anima, pur conservando la tecnica e il mestiere. La più grande corruzione non è profetizzare per denaro, ma farlo senza aver avuto visioni, «seguendo il proprio spirito» e non seguendo più l’altro spirito che gli parlava e le cui parole lui o lei riferiva. Un vero profeta parla solo quando sente la voce ispirarlo, quando una parola gli è «rivolta», altrimenti sta zitto anche per molto tempo.

I falsi profeti non cambiano spirito per tornaconto o guadagni, «ma per assecondare una forma di amore-gratuità senza verità. Come esiste una falsa profezia, esiste anche una falsa gratuità, quella non accompagnata dalla verità su di sé» (p. 71). Il profeta esprime il virgolettato di Dio e non quello del proprio spirito. I falsi profeti non stanno sulle brecce per ricostruire, ma per fare business approfittando dello smarrimento della gente, intonacando di false illusioni e vane speranze un muro che avrebbe bisogno invece di essere rifatto totalmente.

Responsabilità personale e amore incondizionato, ma tradito

Ezechiele condanna l’idolatria pubblica praticata a Gerusalemme, ma stigmatizza anche quella vissuta nel privato a Babilonia, grazie ad amuleti e a statuette pregate e adorate nel segreto. Ezechiele conosce questa corruzione intima e segreta, perché sa vedere dentro il cuore delle persone, forse la vede nei loro occhi.

Immensa è poi la portata del messaggio del c. 14 sulla responsabilità personale delle azioni, delle colpe e dei meriti. Ognuno è responsabile individualmente del bene e del male che fa, e in tal modo l’uomo può essere più grande del destino scritto nei propri geni e nel proprio passato. La responsabilità morale e spirituale delle azioni è personale e la gioia per i successi dei figli può essere accompagnata talvolta dal dolore per i loro sbagli. La loro libertà è una soglia che non si riesce e non si deve oltrepassare. Con la nostra impotenza e depotenza, diamo loro la possibilità di diventare madri e padri di figli che forse diventeranno migliori di loro e anche di noi stessi.

Ez 16 ci consegna una pagina di grande bellezza, espressa anche con linguaggio talvolta crudo. YHWH non ha stipulato un contratto commerciale con Israele, ma ha stabilito un patto gratuito con una bambina gettata via per strada appena nata, e poi cresciuta e amata fino alla maturità, fino a farla propria sposa. YHWH ama con un amore «gratuito ma non disinteressato, è incondizionato nella sua scelta ma condizionato dalle nostre risposte e tradimenti, è liberissimo e geloso» (p. 85).

Forse camminando per le vie di Babilonia dove erano presenti delle prostitute, Ezechiele vedeva in esse veramente Gerusalemme. Egli innalza un canto di dolore di un vero sposo tradito spudoratamente. Gerusalemme si è venduta come una prostituta, ha pagato addirittura i suoi amanti; non aveva necessità economiche per doverlo fare.

Ezechiele esprime un vero dolore di Dio per il popolo che lo tradiva. YHWH ha eletto senza merito la vite di Israele, che diventa pianta regina solo per la cura del vignaiolo. Ma essa si è depravata, ridiventando quello che era all’inizio, un legno abbastanza inutile, buono solo a essere bruciato. Non abbiamo meriti, ma viviamo solo per l’amore elettivo di YHWH. I profeti hanno difeso la radicale gratuità della vita. «Perché noi potessimo sentirci più amati di quanto meritiamo e demeritiamo» (p. 89).

Profezia economica ed economia «teologica»

L’economista Bruni gioisce più volte nel sottolineare come l’economia sia un elemento molto presente e apprezzato nella Bibbia. Ezechiele denunzia con oracoli forti le superpotenze economiche Babilonia ed Egitto (le due grandi aquile). Stigmatizza la ricchezza di Babilonia fondata su interessi del 20% sul denaro e del 33,3% sul frumento. Quando l’economia diventa monetaria – nota Bruni –, il rapporto con il denaro è decisivo per la vita e, secondo Ezechiele anche per la fede.

Israele vede le conseguenze dell’usura praticata dai potenti e capisce che impedirla significa non permettere che l’uso del potere crei rendite per i più forti a scapito della parte più fragile del popolo. «La profezia è sempre profezia economica, non resta mai soltanto “religiosa” e di culto – e quando lo diventa, si trasforma in falsa-profezia» (p. 95). Per questi motivi la Torah ebraica contiene una legislazione speciale e unica, che dà importanza centrale ai debiti, ai prestiti e agli interessi (cf. il giubileo).

Israele vietò l’usura e gli interessi sul denaro per esaltare gli interessi dei poveri e la giustizia di Dio. «La diversità teologica divenne immediatamente diversità etica e quindi economica» (p. 96). Il denaro ha una tremenda ambivalenza. «Un popolo con un Dio diverso da tutti gli altri produsse una unica e diversa etica economica e finanziaria. In quell’impero idolatrico ed economico-finanziario Ezechiele capì che una delle lezioni teo-antropologiche che quel grande dolore stava donando a quel gruppo impaurito e scoraggiato di esuli era la comprensione della natura religiosa del denaro, talmente religiosa che diveniva il materiale degli idoli, ma anche il primo mattone della costruzione della prima nuova casa» (pp. 96-97).

«Le azioni economiche – sostiene Bruni – non sono soltanto etica: sono teologia. Sta anche qui la grande serietà dell’economia. La giustizia socio-economica ha la stessa natura e dignità del culto religioso» (p. 97). I profeti fanno vedere la corda che lega YHWH all’economia: «… tradiamo l’alleanza e moriamo sia venerando Baal sia angariando il prossimo con prestiti usurai e con contratti ingiusti. Moriamo nell’anima diventando idolatri, moriamo nell’anima usando il nostro potere economico contro i poveri» (ivi).

ezechiele

Idolatria popolare e fedeltà unilaterale

Ezechiele rivela la radice dell’idolatria popolare, semplice, naturale, che vede il sacro nei fenomeni naturali, nel mistero della vita che muore e risorge, nel sole e negli astri del cielo. Sugli altari delle alture cananee il popolo eletto adorava YHWH, che era stato abbassato allo stato di dio delle alture, un dio come quelli di tutte le altre nazioni circonvicine. Per questo Ezechiele risponde negativamente alla domanda di costruire un tempio a Babilonia. Nega la legittimità della domanda. Dio non può essere ridotto a un idolo. Dio è capace di una fedeltà che non incontra reciprocità, per amore del suo nome e perché questo non sia profanato.

YHWH è capace di perdono e di fedeltà unilaterali. Per suo dono lo possiamo essere anche noi. YHWH ha eletto Israele di fronte alle nazioni. Mantiene la sua fedeltà anche di fronte ad esse. Noi possiamo perdonare e mantenere la fedeltà anche in modo unilaterale per amore del nostro nome e dei nomi delle persone legate a quella alleanza. «Quando viene a mancare il primo “tu” possiamo provare ad essere fedeli in nome di altri “tu” presenti nella nostra vita, e anche scoprendo in noi un nome più vero che non conoscevamo. Lo possiamo fare, qualche volta lo abbiamo fatto, fa parte del nostro repertorio umano, perché siamo più grandi della nostra felicità» (p. 105).

Shabbat e giustizia sociale

Oltre che attore, saltimbanco e mago, Ezechiele deve essere apparso ai suoi ascoltatori come un piromane quando, in occasione di un incendio, egli annuncia ancora la distruzione di Gerusalemme. È profeta nel suo corpo: piange, soffre e geme in un lamento funebre prima della catastrofe (21,11-12). Egli è un mendicante di credito e di fiducia.

Ezechiele non si sottrae a una diagnosi della rovina del suo popolo: è la naturale conseguenza di una corruzione teologica diventata corruzione morale e sociale (22,4.7-8). In Gerusalemme si disprezza il padre e la madre, si maltratta il forestiero e si opprime l’orfano e la vedova; si profana il sabato.

Per il profeta c’è un nesso logico e tremendo fra i comandamenti teologici e quelli sociali. «La Torah e i profeti proteggono il forestiero perché sanno che i popolo naturalmente non lo farebbe, quindi perderebbe l’anima e la benedizione di YHWH, che è un Dio diverso e vero anche perché accoglie e protegge lo straniero» (p. 118).

La pietra angolare di questa legislazione era l’esperienza degli ebrei in Egitto. Siccome gli ebrei non furono rispettati dagli egiziani, sono chiamati al dovere teologico ed etico di essere diversi, generosi e accoglienti verso i forestieri. «Sono queste catarsi intemporali il fondamento delle buone norme: l’esperienza e il ricordo passati di un diritto negato diventano la ragione per riconoscere oggi quel diritto a chi si trova in una condizione simile (pp. 118-119). «Le civiltà progrediscono – annota ancora Bruni – quando l’esercizio della memoria non produce rancore o vendetta ma pietas e desiderio di ridurre la sofferenza nel mondo» (p. 119).

Lo shabbat segna la sacralità del tempo in uno spazio diventato tutto profano per Israele in esilio. L’u-topia del tempio generò l’u-cronia dello shabbat. Esso è il tempio mobile, è il tempio del tempo, dove il linguaggio per parlare con Dio non sono gli animali, ma «rapporti sociali e cosmici diversi perché segno e sacramento di quella fraternità universale che un giorno sarebbe arrivata anche agli altri sei giorni della storia» (p. 120).

Israele ha salvato lo shabbat attraverso i millenni e lo shabbat ha salvato Israele. Esso è il dispositivo di custodia delle relazioni sociali e cosmiche. Tiene viva la memoria di una socialità e di una terra diverse. Senza il dono del settimo giorno il respiro della terra è il respiro dello straniero umiliato. Dio si fermò il sesto giorno, nel numero dell’imperfezione, «per lasciarci indigenti di pienezza e genitori di possibilità. Sta in questo valore dell’incompiutezza il senso di una delle attività (melachot) che la Legge ebraica proibisce nello shabbat: “dare l’ultima mano per terminare il lavoro”. Lasciare incompiuto un lavoro è simbolo della buona incompiutezza della vita» (p. 121). Non siamo noi a dare l’ultima mano alla nostra esistenza.

Le donne, il sangue innocente e «la delizia degli occhi»

Raccontando la storia di Israele e di Giuda come quella di due sorelle che si sono prostituite e che sono state sposate da YHWH (c. 23), Ezechiele ci insegna a vedere le vittime, le donne, le ultime, in tante pagine della Bibbia. Vittime di un mondo di maschi e di potenti. Terribili le parole con cui si descrivono le punizioni loro inflitte (23,25). Ma questo deve portarci a dire “mai più” e a far sì che l’esercizio fatto nella lettura biblica diventi immediatamente anche civile ed etico. La forza della parola ci fa cambiare lo sguardo. Nessun pessimismo antropologico nei profeti. Educhiamo gli occhi dell’anima: «E, guardandolo, lo amò».

Alla vigilia della tragedia, a Gerusalemme si banchetta con pasti grassi, illusi dai falsi profeti. Ezechiele accusa la città di esser sanguinaria e di aver lasciato scoperto per sempre il sangue (24,7). L’odore del sangue innocente va riconosciuto con tremore.

In quel frangente, a rafforzare la profezia sulla tragedia di Gerusalemme, a Ezechiele viene annunciata la morte della moglie, la «delizia dei suoi occhi». Tale era anche Gerusalemme per Israele (e per YHWH).

Ezechiele ora parla non solo col suo corpo, ma anche «tramite la carne di un suo rapporto primario: quello sponsale» (p. 134-135), un corpo più grande del suo. «Qui, per la prima volta, Ezechiele profetizza con un’altra carne: quella di un rapporto» (p. 135). Anche il sangue sponsale diventa sangue esposto e resta scoperto nella Bibbia, perché, anche qui, impariamo a riconoscerne l’odore. Ripensando alla sua vocazione, Ezechiele ha perso il controllo dei suoi beni, perché diventano tutti compito, destino e messaggio. Con la vedovanza Ezechiele perde anche la voce, diventa muto. Ezechiele è tutto voce di Dio, ma è tutto voce e carne di uomo, come noi. «Tu sospira in silenzio», gli vien detto nel suo lutto strozzato (24,17). Tutte le parole, anche quelle di Dio, smettono di parlare. «Continua a sfiorare l’eternità, sperando di toccarla alla fine con un salto più alto» (p. 138).

L’idolatria economica e l’albero cosmico

Nei cc. 25–32 sono raccolti numerosi oracoli contro le città. In essi si denuncia la radice idolatrica della ricchezza, il suo alimentare il senso dell’autosufficienza. Si veda in 28,2 il giudizio sulla metropoli di Tiro, hub economico-strategico per tutto l’Oriente.

Nuova è l’interpretazione data nel c. 28 del peccato dell’Eden: fu un peccato economico, di disonestà nei commerci (cf. 28,15-16.18). Per Ezechiele «l’uomo fu espulso dal paradiso per un rapporto sbagliato con i commerci e con l’economia, furono traffici sbagliati a “profanare i santuari”. Un’affermazione che fa tremare i polsi» (p. 145).

Guardando a Babilonia, Ezechiele vede che la tentazione non nasce dal serpente, ma dalla seduzione del denaro. Caino uccise il fratello non per l’invidia dello status ma per invidia economica e «la disobbedienza a Dio non consisteva nel mangiare il frutto dell’albero proibito, ma nell’insaziabilità dell’avarizia. Ezechiele non trovò allora un linguaggio più potente di quello dell’economia per descrivere il rifiuto da parte dell’uomo del progetto di armonia e di amore pensata per lui da YHWH […]. Sbagliare il rapporto con l’economia significa allora sbagliare il rapporto con noi stessi, con gli altri, con la creazione, con Dio» (ivi).

I detti sull’Egitto si chiudono con un canto funebre (c. 32) dove troviamo uno dei pochi riferimenti dell’Antico Testamento alla vita dopo la morte. La bellezza e la potenza dell’Egitto è esaltata attraverso la bella e suggestiva immagine dell’albero cosmico. La tradizione francescana (Il Lignum vitae di san Bonaventura e di Ubertino da Casale) volle far coincidere l’albero della croce con l’albero della vita dell’Eden. Fissando i nostri crocifissi – osserva Bruni –, «nessuno ci deve togliere la speranza di vedere un giorno quei bracci di legno fiorire, e così poter accorgerci che, senza saperlo, mentre gridavamo l’abbandono, eravamo in realtà appoggiati sull’albero della vita» (p. 154).

La regola aurea dell’anello debole. La profezia laica

Il profeta ha una speciale solidarietà, di tipo giuridico, verso gli uomini, specialmente nei riguardi dei peccatori. Se essi muoiono senza che il profeta li abbia messi in guardia, dovrà render conto – rispondere – a YHWH per lui (33,8). È una responsabilità vicaria.

Quando giunge la notizia della presa di Gerusalemme (33,21-22), Ezechiele recupera la parola e denuncia la falsa certezza presente nei superstiti rimasti a Gerusalemme di essere i nuovi Abramo, detentori della terra promessa, i veri continuatori dell’alleanza, mentre gli esiliati erano considerati maledetti e ripudiati. Ezechiele deve annunciare che quelli rimasti a Gerusalemme non sono il “resto” ma puri “superstiti”.

Anche agli esiliati il profeta rivolge una parola vera e dura. La gente si reca da Ezechiele ma ascolta le sue parole come una bella musica. «Si scompiacciono di parole, ma poi perseguono ingiusti guadagni: sono solo consumatori di parole profetiche intese come beni di comfort. Ancora la prassi economica come test di verità del cuore: è sempre sorprendente la dignità che i profeti attribuiscono all’economia!» – annota compiaciuto Bruni (p. 161).

La laicità della profezia si dimostra anche nel c. 34, dedicato ai pastori di Israele. Qui si usano categorie dell’economia e della politica per descrivere il welfare, l’attenzione che si deve avere per l’anello più debole della catena. Essa è una regola aurea dell’economia vera e sana. La robustezza di una catena dipende dalla resistenza dell’anello più fragile. Il pastore deve essere attento ai più deboli. «Il welfare non è altro che la traduzione matura dell’umanesimo del buon pastore» (p. 166).

Bruni sottolinea con forza come vada combattuta la cultura della leadership di matrice aziendale, basata sull’efficienza e sulla meritocrazia, che è entrata nella sfera politica e civile (al Pronto Soccorso sarà curato solo chi merita di esserlo?).

La laicità della profezia non trova argomenti più “religiosi” dell’economia e della politica, parole umilissime come quelle del mestiere di pastore, per innalzare il de profundis più tremendo dell’identità religiosa di Israele. Un raggio di sole penetrerà tuttavia il paesaggio desolato: YHWH in persona assumerà il mestiere di pastore, attraverso il suo servo messianico Davide. Dentro la tragedia, il profeta riannuncia la promessa di una nuova alleanza di pace che includerà animali, alberi e l’intera creazione.

La Pentecoste dell’Antico Testamento. Gog e Magog

Per porre fine a un esilio non basta il ritorno in patria. Non sono sufficienti i riti di purificazione, pur promessi come attuati da YHWH. Non basta il maquillage, ma sono necessari un’altra terra promessa, una nuova chiamata, un nuovo grande sogno. Serve un cuore di carne al posto del cuore di pietra, serve uno spirito nuovo (cf. 36,26). I beni e i prodotti dei campi saranno moltiplicati, non si soffrirà più la vergogna della fame. «La fame è una vergogna». Parole da affiggere all’ingresso di ogni istituzione per lo sviluppo umano, annota Bruni. Ancora una volta il linguaggio dell’economia e della prosperità esprime la benedizione e la vita nuova. I «profeti hanno solo le parole della vita per parlare di Dio, perché sono molto più laici di noi» (p. 177).

Potente la scena descritta nel c. 37. Una valle piena di ossa aride diventerà un popolo rinnovato grazie alla parola profetizzata da YHWH tramite Ezechiele che radunerà i resti in organismi completi e li vivificherà tramite l’immissione dello spirito di Dio. È una vera e propria risurrezione del popolo tornato dall’esilio. L’organismo non può vivere senza lo spirito essenziale (37,9-10). «Queste ossa che tornano a vivere sono la Pentecoste dell’Antico Testamento» (p. 183).

Tentando un’attualizzazione, Bruni ricorda come anche oggi ci sia bisogno di profeti veri, sopravvissuti alla persecuzione, che rianimano le comunità morte. All’inizio esse saranno scheletri ordinati, poi a poco a poco rinasceranno carne e nervi e arriverà lo spirito. Occorrono non solo persone, ma vocazioni, ci sono racconti ma non racconti carismatici, ci sono parole ma senza il verbo che le collega, ci sono opere ma manca il soffio vitale; ci sono progetti ma mancano i sogni grandi; ci sono preghiere ma non sanno parlare. Serve una risurrezione, non la riesumazione di Lazzaro. Serve un profeta vero che, «tornando alla prima valle della prima vocazione ora diventata valle di ossa, riesca a invocare lo spirito e questo, docilmente, arrivi. Alcune di queste invocazioni si chiamano riforme» (p. 186).

Gog e Magog, simboli del male, saranno sconfitti e ci si riscalderà con le armi bruciate (39,9-10). È il sogno di trasformare le imprese che producono armi in imprese che impiegano la tecnologia per le arti della pace.

Bruni denuncia il fatto che l’Europa «ha immaginato molti Gog e Magog inesistenti; ma qualche rara volta Gog e Magog sono arrivati davvero. Hanno distrutto, bruciato, impiccato i bambini, sono stati nube oscurissima che ha coperto il cielo. Abbiamo urlato, siamo morti tutti. Ma poi siamo stati capaci di risorgere, tutti insieme» (p. 193). Il male non viene da lontano, da dietro il muro di Alessandro. Abita in mezzo a noi. Ma la prima radice dell’uomo non è marcia, è radice buona. L’orizzonte più vasto è quello del bene. «È questo il dono immenso che la Bibbia ci sta facendo da tre millenni: credere nella vita. Nonostante tutto» (p. 194).

Un tempio risorto

Nel 573 a.C., nell’anno venticinquesimo della deportazione, Ezechiele ha la visione della risurrezione del tempio (cc. 40–42). Egli è un esiliato in una terra senza tempio ma non senza Dio, servitore di un Dio sconfitto ma ancora vero. Riceve la visione quasi come un premio alla sua fede, conservata pura senza il tempio. Immerso nel caos, l’uomo primitivo e antico godeva nel tempio l’instaurazione dell’ordine, la separazione tra sacro e profano, e con l’entrata in esso l’immersione in un altro tempo. Per Israele il tempio era un nuovo Sinai. Ezechiele vede tornare a Gerusalemme la gloria di YHWH, che produce la teofania della prima visione.

L’esperienza della presenza di Dio liberata dal perimetro della sua casa fu un’esperienza che segnò profondamente l’anima collettiva del popolo e cambiò per sempre la natura dell’esperienza religiosa. Ezechiele descrive il nuovo tempio, fornendo particolari precisi sulle sue dimensioni, ma a lui non interessa disciplinare il culto, i sacrifici, l’abbigliamento, le regole sui matrimoni e le norme sulla purità dei sacerdoti (queste saranno aggiunte dai redattori finali del libro).

Il tempio di Ezechiele è mistico, un tempio risorto, immagine della nuova Gerusalemme celeste. Il profeta non descrive arredi e manufatti degli artisti. «La sua visione del tempio è teologia, non è etica, è eskaton, non è storia» (p. 206). Una scuola di scribi postesilici emendò il libro di Ezechiele facendone una Magna Charta per la ricostituzione del nuovo tempio, diventando da profezia «una autorevolissima legittimazione delle nuove norme religiose: così la profezia divenne religione» (ivi).

Ritornati in patria, gli israeliti ritornarono a peccare e così i discepoli di Ezechiele emendarono le profezie originarie per trasformarle in norme utili a gestire la religione di un popolo tornato corrotto. Ezechiele aveva scritto versi stupendi sull’universalismo e sull’inclusione degli stranieri. Il Terzo Isaia aveva permesso l’accesso al tempio perfino agli eunuchi (Is 56,4-7). La normalizzazione della profezia si fa rigida: «Così dice YHWH: nessun straniero, non circonciso di cuore, non circonciso di carne, entrerà nel mio santuario, nessuno di tutti gli stranieri che sono in mezzo a Israele» (Ez 44,9). In buona fede, si fece un’esegesi ideologica del profeta.

Un altro esempio può essere visto nei sacrifici. Non amati dai profeti, la regolazione dei sacrifici trova invece ampio spazio nella “normalizzazione” di Ezechiele (43,19.25). I sacerdoti dipendevano dai sacrifici per vivere e si diede inizio all’«industria del tempio» (p. 209). Prima e dopo Gesù, essa «uccide i profeti in quanto annunciatori di una “oikonomia della grazia” e della misericordia gratuita che mette radicalmente in crisi la loro “economia della salvezza” basata sui sacrifici e sui loro prezzi necessari. I sacrifici del tempio hanno valore solo se hanno un prezzo; la grazia annunciata dai profeti ha invece valore proprio perché non ha prezzo. E nel dirci che la salvezza vera ha un valore infinito perché è senza prezzo, i profeti annullano il valore dei prezzi delle merci religiose dei sacrifici. I profeti liberano le colombe dagli altari del tempio. Le fanno volar via, trasformandole nell’icona dello Spirito libero e gratuito» (pp. 209-210).

Tasse, interessi e feste

Nel c. 45 si torna a parlare delle tasse e delle imposte. I «profeti sanno che queste umili parole profane dell’economia sono quelle con cui si scrivono la dignità o il disprezzo dei poveri. Se la fede vuol parlare parole di vita, allora Dio deve imparare anche la lingua dell’economia» (p. 211).

Vari principi economici e fiscali presenti nella Bibbia sono unici a causa della diversità e dell’unicità del popolo ebraico e della sua religione speciale. Basti pensare allo shabbat, che traduce la liberazione dal faraone in liberazione dalla schiavitù del tempo, del lavoro, della necessità, della gerarchia e degli status sociali.

Il divieto dei prestiti a interesse, altra eccezione biblica, è l’incarnazione economica di un teologia della liberazione dove il povero non deve diventare, per insolvenza, schiavo del suo creditore. Le tasse vanno lette insieme allo shabbat, al giubileo, alla spigolatura, all’Egitto e al mare aperto. I profeti difendevano i poveri dagli abusi dei potenti civili e religiosi. Ai prìncipi YHWH dice “basta”: «Così dice YHWH: basta prìncipi d’Israele, basta con le violenze e le rapine! Agite secondo il diritto e la giustizia; eliminate le vostre estorsioni dal mio popolo» (45,9).

Le imposte dovute al tempio, destinate quindi ad alcuni beni pubblici essenziali per la vita del popolo quale il funzionamento del tempio, non erano comunque pesanti, rispetto ad altri paesi: 1,66% di ogni efa di frumento e orzo, e 0,5% per il gregge. La decima era la metà di quanto dovuto in Egitto (Gen 47,24.26). La terra promessa si riconosce anche dalla sua giustizia fiscale e redistributiva, e deve essere diversa dalla terra della schiavitù.

Le tasse erano destinate al funzionamento del tempio ma anche alla celebrazione delle grandi feste. Oggi – denuncia amaramente Bruni – il capitalismo sta eliminando le feste (sovversive per loro natura di spreco inutile di gratuità) per sostituirle con mille forme di divertimento prevalentemente individuali. La festa invece ha valore simbolico. «Non si sopravvive agli esili e alle persecuzioni collettive senza la capacità di far festa, e senza far festa insieme, perché le feste sono la radice e la pre-condizione di ogni bene comune e pubblico» (p. 215).

«Le tasse, quindi, erano il principale mezzo per la fornitura dei beni pubblici e non erano, quindi, un prelievo di ricchezza per riempire le casse private dei prìncipi (46,18)» (p. 216). Nel libro di Ezechiele le tasse sono chiamate «offerte votive».

Le imposte erano il principale modo con cui le persone restituivano a Dio e alla comunità una parte della ricchezza che avevano ricevuto. «Le decime e la quasi totalità delle imposte si pagavano solo sui prodotti agricoli. Tutto è grazia, tutto è provvidenza, ciò che siamo e abbiamo è prima e soprattutto dono e gratuità. Le tasse erano quindi espressione della regola aurea della reciprocità» (ivi). La Bibbia e i profeti ci ricordano il senso della provvidenza e della gratitudine. Oggi invece si vivono le tasse come usurpazione, abuso, pura coercizione.

Bruni ricorda però: «Il patto fiscale, il cuore di ogni patto sociale, si può scrivere e vivere solo all’interno di questo orizzonte di reciprocità e di provvidenza che precede il merito e gli incentivi» (p. 217). Non siamo nati per meriti, siamo circondati da gratuità. Sopra e prima del nostro impegno c’è stata e c’è tanta provvidenza, molto dono, infinita generosità. «Sono queste le umili verità laiche che ci ricordano e ci donano i profeti», rammenta lo studioso (p. 218).

Acqua laica e lavoro per tutti

Il libro di Ezechiele si conclude con la potente visione dell’acqua che sgorga abbondante dalla soglia del tempio e con il suo fluire sempre più largo e profondo porta fecondità meravigliosa anche in terra di salsedine e morte come l’Araba (c. 47). Sulla fecondità donata da Dio si innesta il lavoro degli uomini, in questo caso quello dei pescatori. Il grande quadro delle acque e della vita culmina con l’uomo e il suo lavoro (47,10). Senza uomini e donne che lavorano, il miracolo delle acque non è pieno. «Ma al culmine troviamo l’uomo, e infine il lavoro. Questo è l’umanesimo biblico, questo è il canto dell’Adam, che come apice di una manifestazione cosmica di Dio pone dei lavoratori, dei pescatori che stendono reti. Altri pescatori, qualche secolo dopo, porteranno l’acqua dello spirito su tutta la terra» (p. 223).

«Il tempio-sorgente, immerso nelle acque che generano un fiume che inonda, feconda e vivifica il mondo è tra le pagine più belle di tutta la Bibbia», commenta Bruni (p. 223). Questa pagina dice passato e futuro insieme: bereshit ed eskaton, Genesi e Apocalisse.

L’acqua non è fatta per essere conservata e consumata nel tempio, ma scorre fuori. È un’acqua laica, civile, secolare. «L’Ezechiele sacerdote di Gerusalemme crede che il tempio sia luogo della presenza della gloria di YHWH sulla terra. Ma l’Ezechiele profeta sa e dice che quella presenza non è lì per essere consumata nel culto dai suoi fedeli, perché è generata per essere donata a chi si trova fuori del tempio» (p. 224). «Le religioni e le comunità spirituali possono continuare a generare acqua viva e a dissetare la gente se vincono, con la castità, la tentazione perenne di bere l’acqua che da essi nasce» – attualizza Bruni (ivi).

Il tempio con le grandi acque è una grande eredità spirituale di Ezechiele, un messaggio che attraversa tutte le Scritture (Sir 24,30-31; Ap 22,1-2, dove l’acqua non sgorga dal tempio – inesistente – ma dal trono di Dio e dell’Agnello). Il tempio scomparirà a favore di «un incontro immediato con l’acqua viva. In questo mondo nuovo l’“albero della vita” non si trova più nel giardino dell’Eden, ma cresce in mezzo alla piazza della città. Una frase meravigliosa. La piazza sarà il nome nuovo del tempio. È questo il grande cantico della laicità biblica: sorella piazza, fratello ufficio, sorella fabbrica, fratello lavoro. Sorella acqua. Quando tutto ciò in pienezza? “Sì, vengo presto” (Apocalisse 22,20)» (p. 226).

La terra e gli stranieri

La visione della spartizione della terra, con i principi dell’equità e dell’uguaglianza, ricorda che «per i profeti la terra promessa non appartiene al regno della quantità, ma a quello dello spirito e quindi della qualità» (p. 229). La Legge è più rigida verso gli stranieri, i profeti sono più inclusivi. Includono ed equiparano. Diversamente da Dt 23,3-4, Ez 47,21-22 afferma infatti: «Vi dividerete questo territorio secondo le tribù d’Israele. Lo distribuirete in eredità fra voi e i forestieri che abitano con voi, che hanno generato figli in mezzo a voi; questi saranno per voi come indigeni tra i figli d’Israele».

Illuminante la riflessione di Bruni su questa problematica, molto attuale: «Dal dialogo, confronto e scontro tra la Legge e i profeti nascono le regole concrete e mutevoli della convivenza civile, che non potranno che essere disumane e ingiuste se e quando nel dibattito civile mancano le ragioni diverse dei profeti – o quando vengono zittiti, uccisi o convertiti» (p. 230). La parte della terra riservata ai discendenti di Levi non può essere fatta oggetto di compravendita. «Qui la terra non segue le regole della domanda e dell’offerta, e così, grazie a questa striscia diversa, tutta la terra resta ancora promessa anche se già raggiunta. Questa terra non è la terra del contratto perché deve ricordare il patto» (p. 230).

La città: «Là è YHWH»

L’ultima visione di Ezechiele riguarda la nuova Gerusalemme: «Le porte della città porteranno i nomi delle tribù d’Israele (48,31). Il libro poi si chiude con questa frase: «La città si chiamerà da quel giorno in poi: “Là è YHWH”» (48,35).

Dopo aver parlato tanto di visioni, di angeli e di cielo, Ezechiele termina il suo libro con la visione di una città. Iniziato con visioni divine, il libro termina con «una laica e umile parola: “città” […]. Un messaggio stupendo per chi, come noi, non vede cieli aperti, non ha visioni, ma vuole e deve guardare la città, la sua politica, la sua economia, la sua gente, e lì trova il suo paradiso […]. I profeti ci raccontano le loro visioni perché possano diventare nostro patrimonio e sostegno mentre conduciamo le loro stesse battaglie senza sentire “così dice il Signore”. Sta qui una strana ma reale eredità: continuare le loro lotte senza avere la loro luce genera una vera fraternità tra noi e i profeti» (p. 232).

Un libro davvero affascinante questo di Bruni. Egli unisce attenzione amorosa per il testo biblico, competenza variegata e cura delicata e molto concreta per l’uomo del nostro tempo, per la sua vita religiosa, sociale ed economica.

Colpisce il suo approccio alla Bibbia: molto corretto a livello esegetico e teologico, ma fedele a una visione olistica dell’uomo, contemplato con occhi di fede e di sana laicità. Con l’autore speriamo anche noi che l’umanesimo biblico possa ancora fecondare di equità e di fraternità i giorni che il Signore darà agli uomini di trascorrere sotto il sole e sotto la sua grazia.

  • LUIGINO BRUNIL’esilio e la promessa. Commento al libro di EzechielePrefazione di SILVINA CHEMEN (Lapislazzuli), EDB, Bologna 2021, pp. 240, € 17,00, ISBN 978-88-10-55984-0.

BIBBIA E LITURGIA Confessare la fede (e dirsi tutto)

Siamo alla conclusione del capitolo 6 di Giovanni, la moltiplicazione dei cinque pani cui ha fatto seguito una lunga catechesi; ora si fa il punto. Ce la immaginiamo la scena, a cerchi concentrici: i cinquemila uomini, che sono stati saziati all’inizio; poi la cerchia ampia dei discepoli più o meno stabili; poi i Dodici; al centro Gesù. I cinquemila probabilmente sono andati via da tempo; i discepoli fanno fatica a star dietro ai discorsi sul Pane vivo disceso dal cielo, alcuni decidono di andar via (a questo allude l’immagine di una mensa vuota a fine pasto; l’ha presentata qui Giancarlo Olcuire). E siamo così a quelle poche battute conclusive, che generano infinite suggestioni.

Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» Estrapolata dal contesto, ci starebbe bene in mille copioni di vita comunitaria ecclesiale: momenti di crisi (che non mancano mai) e qualcuno che fa la mozione degli affetti. E, se non c’è qualcuno a porre la domanda, può darsi che la stessa risuoni nell’intimo della coscienza: andare via (leggi anche: cambiare) o restare (leggi anche: conservare)? E, mentre nella Scrittura tutto si fa limpido, nella vita lo sappiamo bene che, in talune circostanze, andare via è il modo più fedele di restare, e il discernimento tra le scelte è tutt’altro che semplice.

Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» Come risposta, è perfetta e perfettamente articolata.

Un’invocazione iniziale, Signore, che dice già molto.

Da chi andremo? Non dice “dove andremo?”, non sottintende la possibilità andare altrove a fare fortuna; oramai loro sono alla ricerca di qualcuno che dia senso e sapore alla vita.

Sono stati sedotti dalle parole di vita eterna; non dai segni, ma dalle parole. Come espressione la sentiamo contemporanea a noi e, probabilmente, è contemporanea all’uomo di tutti i tempi. Sarà Paolo a dire, nella lettera ai Romani, che la fede viene dall’ascolto.

Abbiamo creduto e conosciuto. Ci sono la fede, appunto, e poi la conoscenza. Cosa intendere per conoscenza? La conferma venuta dai segni? Per noi oggi sarebbe la lettura delle tracce della presenza di Dio nella storia, la storia di ciascuno e la storia dell’umanità. Oppure possiamo intendere il momento di consapevolezza, della fede che diventa matura, coinvolgendo non più solo il cuore, ma anche la ragione?

La prima lettura svolge, come sempre, il ruolo di preparazione al brano evangelico. Anche nel libro di Giosuè troviamo esattamente una domanda del leader al popolo ed una dichiarazione solenne di adesione al Dio dei padri. Ma non è troppo tutto “troppo perfetto”?

Basta arrivare con un balzo all’ultimo capitolo di Giovanni e troviamo una scena completamente diversa. Sono trascorsi diversi anni in compagnia del Maestro. C’è stato il dramma del tradimento e della condanna a morte. I Dodici, rimasti Undici, hanno visto (da lontano), la morte in croce, ma poi ci sono stati gli incontri con Gesù risorto. Eppure il gruppo sembra che si sia sciolto; in sette sono tornati alla vita di prima, la pesca sul lago di Tiberiade. Esattamente il contrario di quello che si diceva sopra. Sopra dicevamo che i Dodici sono ormai alla ricerca di qualcuno che scaldi il cuore con parole di vita. Qui non leggiamo che sono andati da un altro maestro; sono tornati, prosaicamente, alla vita di prima; la cosa più importante è procurarsi il sostentamento materiale. Che dire di quelle parole di Simon Pietro? Sono evaporate?

Il vangelo, come sempre, dice la verità: così siamo noi, viviamo tra il capitolo 6 e il capitolo 21 di Giovanni. Bene farci i conti con questa verità, tenerla sempre presente.

Alla luce di questo ridimensionamento, c’è ancora una suggestione in quel “da chi andremo?”. Ogni tanto noi ci diciamo che il darsi, ad un partner, così come ad una causa, è da persone mature. Mettersi in relazione richiede, come precondizione, consapevolezza, autonomia, capacità di farcela anche da soli. Qui, nel dialogo, tra Gesù e i Dodici, c’è un momento di confidenza dal sapore familiare. Forse non saremo mai capaci di farcela da soli. Tu, Signore, ci hai visti come siamo; dove potremmo mai andare? Simon Pietro, e noi con lui, lo confessa candidamente. È così anche nelle relazioni umane. Farcela da soli è forse solo una maschera. Simon Pietro sta ricordando a tutti noi l’importanza di dirsi tutto, confessare non solo la fede, ma anche la verità (fragile) di sé stessi. Sono sicuro che questo discorso richieda un’ulteriore messa a fuoco sul piano antropologico, eppure mi sembra anche questo un fatto di non poco conto.

***

In tema di fragilità da confessare, si deve spendere almeno una parola veloce anche sulla seconda lettura, dove si parla di marito capo della moglie (e della famiglia), di mogli sottomesse ai mariti. È tema di questi giorni per via di un paese, l’Afghanistan, che è stato straziato e ingannato dalla guerra, per poi tornare all’incubo dell’emirato, teocratico e fondamentalista; tra le prime vittime proprio le donne.

Ammettiamolo con franchezza, il fondamentalismo non è solo problema degli “altri”; non è affatto facile leggere fedelmente tutta la Scrittura e, contemporaneamente, riuscire a non rimanere “bloccati” nell’interpretazione rigida, se non alla lettera. Come leggere brani come quello di oggi? l’interpretazione rigidamente asimmetrica del rapporto uomo-donna, infatti, ci sembra francamente inaccettabile.

Immagino la Parola come un edificio, con pilastri e muri maestri, poi tramezzi, infine anche stucchi ed orpelli. L’edificio della Scrittura vive nella storia, talvolta tramezzi ed orpelli nascondono le strutture portanti. Per questo la Parola la ascoltiamo/leggiamo insieme, per aiutarci vicendevolmente ad individuare le strutture portanti. Diamo il nostro contributo a questo lavoro mai finito, per consegnare alle generazioni che seguono ciò che abbiamo ricevuto, un edificio ancora vivo, attraente ed “ospitale”. Non è detto che sia compito facile, ma la difficoltà non è ragione sufficiente per rinunciare e noi crediamo che non saremo mai lasciati soli in quest’opera.
vinonuovo.it

Una riflessione sulla «Lettera agli Ebrei» Un varco tra noi e il Cielo

René Magritte, «Il falso specchio» (1928)

Pubblichiamo la prefazione al libro di Albert Vanhoye, «Il Sangue dell’Alleanza» (Cinisello Balsamo, San Paolo 2021, pagine 208, euro 18).

Il testo della Lettera agli Ebrei è un testo del Nuovo Testamento che normalmente non viene particolarmente frequentato dai fedeli, né si trova facilmente nella preghiera liturgica o nella prassi pastorale. Questo forse per un motivo molto semplice: la Lettera agli Ebrei non è un testo facile, non è un testo adatto ai neofiti. Esso è piuttosto un testo della maturità, un’esortazione fortemente cristologica che diviene comprensibile solo dopo aver frequentato molto il Vangelo e la Vita nuova di Cristo.

C’è poi anche da dire che molti aspetti di questo testo rimangono oscuri, come strade che non conducono a una risposta chiara, definitiva, e proprio per questo alludono a una prospettiva di Mistero più ampio. Ciò che non si comprende subito, spalanca la possibilità di cadere in ginocchio davanti al panorama infinito del Mistero. Questa esperienza è essa stessa una rivelazione, un modo altro di sperimentare la verità. Il cardinale Albert Vanhoye sj, è uno dei più grandi esperti della Lettera agli Ebrei. Nelle pagine che seguono sono raccolte le meditazioni tenute dallo stesso negli anni Novanta a un gruppo di sacerdoti Missionari del Preziosissimo Sangue. È proprio grazie a loro che è stato possibile ridonare una nuova edizione di queste meditazioni che hanno come fondale la Lettera agli Ebrei, con un particolare riferimento alla vita eucaristica.

Ciò che colpisce della Lettera agli Ebrei è l’originalità con cui essa ripensa al Sacerdozio di Cristo. L’Autore di tale Lettera ha aperto una nuova comprensione per capire l’Antico Testamento come libro che parla su Cristo. Tutta la tradizione precedente si era fondamentalmente sforzata di pensare a rileggere la figura di Cristo soprattutto in chiave davidica: Egli era appunto il vero Davide, il vero Salomone, il Re di Israele. È significativo come proprio l’apice di questa convinzione trovi il suo zenit sulla Croce quando viene posta come iscrizione l’indicazione che lì crocifisso su quel legno c’è “il Re dei Giudei”. Sembra così compiuta l’attesa di quel Re Messia che il popolo di Israele attendeva.

Ma l’Autore della Lettera agli Ebrei sembra porre la sua attenzione su una citazione che fino a quel momento non era stata notata particolarmente: «tu sei sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (Salmo 110, 4). Gesù non è quindi solo il compimento della promessa davidica, non è solo vero Re di Israele e del mondo, è anche il compimento della promessa del vero Sacerdote. In parte dell’Antico Testamento vi sono due linee separate di attesa: il Re e il Sacerdote. L’Autore della Lettera agli Ebrei, ponendo l’accento su questo versetto, comprende che in Cristo sono unite le due promesse: Cristo è il vero Re, il Figlio di Dio (Salmo 2, 7) ma è anche il vero Sacerdote. Così tutto il mondo cultuale, tutta la realtà dei sacrifici, del sacerdozio, che è alla ricerca del vero sacerdozio, del vero sacrificio, trova in Cristo la sua chiave, il suo adempimento e, con questa chiave, può rileggere l’Antico Testamento e mostrare come proprio anche la legge cultuale, che dopo la distruzione del Tempio è abolita, in realtà andava verso Cristo; quindi, non è semplicemente abolita, ma rinnovata, trasformata, poiché in Cristo tutto trova il suo senso. Il sacerdozio appare allora nella sua purezza e nella sua verità profonda.

In questo modo ogni battezzato non è più ostaggio di un sacrificio fatto semplicemente di culto e di riti, ma è attraversamento di quel ponte, di quell’alleanza che Cristo stabilisce attraverso il suo sangue. «La nuova alleanza, dunque, è la comunicazione di un dinamismo interno che trasforma la persona, rendendola capace di vivere la comunione con Dio e con i fratelli in un amore generoso, frutto dello Spirito Santo» (p.151).

Il testo che segue conserva lo stile colloquiale con cui è stato pronunciato. Le diverse meditazioni riprendono i tempi diversi di preghiera delle giornate di esercizi. La grande capacità di un insigne biblista come il cardinale Vanhoye sta proprio nel riuscire a far diventare accessibile e vivibile ciò che da soli potremmo percepire solo come incomprensibile e distante.

Sono certo che queste pagine aiuteranno molti ad accostarsi al testo biblico e alle pagine del proprio cuore con occhi nuovi, nella consapevolezza che tra noi e il cielo finalmente c’è un varco, un passaggio, un’alleanza che ha un nome proprio: Gesù Cristo.

Osservatore