In mostra a New York immagini del dopo Hiroshima rimaste nascoste per decenni. Le foto che nessuno doveva vedere

di GAETANO VALLINI

I terrificanti bombardamenti atomici di Hiroshima e di Nagasaki hanno modificato per sempre l'idea della guerra e di cosa significhi il rischio da allora paventato – soprattutto durante la guerra fredda – di un olocausto nucleare. Nonostante il significato storico di tali azioni, per anni è stato tuttavia difficile visualizzare e comprendere pienamente l'entità della distruzione causata da Little Boy e Fat Man, e questo anche perché vennero diffuse pochissime immagini degli effetti devastanti delle esplosioni; effetti inimmaginabili visto che gli esperimenti erano stati condotti in zone desertiche. Dopo aver deciso di sganciare la bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945, il governo statunitense, su indicazione del presidente Harry Truman, limita la circolazione delle immagini della città. È troppo rischioso "alterare la tranquillità pubblica". Si temono le reazione dei giapponesi, degli stessi americani e delle persone di ogni luogo del pianeta di fronte agli effetti della prima bomba atomica utilizzata in un conflitto convenzionale, che ha provocato la morte istantanea di 140.000 persone e la distruzione del settanta per cento delle strutture cittadine. Per non parlare delle conseguenze di quella sconosciuta "pestilenza" che continua a mietere vittime anche nei giorni e nei mesi successivi, e che avrebbe continuato a colpire silenziosamente anche negli anni a venire. Washington impedisce, dunque, a giornalisti e fotografi di recarsi a Hiroshima. Ma il coraggioso reporter australiano Wilfred Burchett, riesce a eludere i ferrei controlli e per primo, il 5 settembre 1945, mostra al mondo dalle pagine del "The Daily Express" le istantanee della tragedia, raccontando quanto vede: "Non sembra una città bombardata. È come se un mostruoso rullo compressore ci fosse passato sopra schiacciando tutto". Alle autorità appare evidente l'enorme potere che la fotografia esercita sulle coscienze per il suo alto tasso di realismo, per la sua capacità di raffigurare i fatti così come avvengono. Del resto in quegli stessi anni cominciano a circolare altre immagini che avrebbero raccontato in maniera più incisiva di qualsiasi trattato storico i crimini della guerra appena conclusa, come l'orrore dei campi di sterminio nazisti o gli effetti del bombardamento di Dresda. Ma il segreto non può rimanere tale per sempre. E infatti le immagini della città giapponese cancellata dalla bomba atomica vengono desecretate venticinque anni dopo. Di fatto, però, non le vede nessuno. Anzi quelle foto rischiano persino di andare tutte perdute per sempre, dato che per decenni non se ne ha più traccia. Salvo rispuntare all'improvviso, dopo un ritrovamento casuale, per finire nelle collezioni dell'International Center of Photography (Icp) di New York, che le espone fino al 28 agosto con il titolo evocativo "Hiroshima – Ground Zero 1945". La storia delle immagini che nessuno avrebbe dovuto vedere – dagli scatti alla loro scomparsa, fino al successivo ritrovamento sessant'anni dopo – ha del romanzesco. A due mesi dall'esplosione l'amministrazione statunitense invia a Hiroshima alcuni membri della Divisione valutazione danni dello United States Strategic Bombing Survey con il compito di analizzarne gli effetti. In sei settimane di lavoro vengono fotografati i resti di 135 edifici e 52 ponti, macchinari e strutture varie, calcolando il rapporto tra la distanza dall'epicentro della bomba e i danni provocati. Il rapporto finale è contenuto in tre volumi con ottomila immagini. Come detto, rimane top secret fino al 1960, ma diviene una sorta di "bibbia" dell'urbanistica americana, che ne trae notevoli insegnamenti. Una volta tolto il segreto, anziché in un archivio, le fotografie finiscono nel garage di uno degli ingegneri coinvolti nel progetto. Ma per un incidente la casa va a fuoco, e le istantanee vengono in gran parte distrutte, tranne una piccola parte che però viene gettata via, forse inconsapevolmente. Non se ne sa più nulla finché Don Levy, ristoratore di Watertown, una cittadina del Massachusetts, nel 2000 ne ritrova, per caso, una sessantina mentre passeggia con il suo cane in una notte piovosa. "Sul marciapiede – racconta Adam Harrison Levy nel saggio che ricostruisce la vicenda – l'uomo si imbatte in un cumulo di immondizie: vecchi materassi, scatole di cartone, qualche lampada rotta. Nel mucchio scorge una valigia. La prende, apre le fibbie. Dentro, una pila di foto in bianco e nero, alcune piegate o strappate, di edifici distrutti, travi contorte, ponti crollati, immagini di una città in rovina". Ne comprende subito l'oggetto, una Hiroshima mai vista prima così in dettaglio, ma non ne realizza subito il reale valore storico documentario. Un amico gli suggerisce di contattare un esperto gallerista di New York e, grazie a questi, nel 2006 si risale al proprietario della valigia, Mark Levitt. L'uomo è stupefatto per il ritrovamento perché pensa che le foto siano ancora nella cantina della sua casa. Anzi è sicuro di avere altro materiale relativo a quelle ricerche. Racconta che a dargli le immagini è stata un'amica, Nancy Mason, figlia di Robert L. Corsbie, ovvero il responsabile del rapporto su Hiroshima – morto con la moglie nel citato incendio del 1967 – affinché la liberasse di quanto si era salvato dalle fiamme. La loro definitiva acquisizione ed esposizione allo Icp – a cura di Erin Barnett, vice curatrice delle collezioni, con la collaborazione di Philomena Mariani, direttore delle pubblicazioni – offre oggi l'opportunità per riflettere ancora una volta su limiti e conseguenze dell'uso bellico dell'energia atomica, nonché sulla politica nucleare portata avanti dal termine della seconda guerra mondiale fino a oggi dagli Stati Uniti e dalle altre potenze che hanno arsenali atomici. Soprattutto in America l'esposizione sta facendo discutere. I bombardamenti rimangono un argomento controverso. "Nel 1994 – si legge infatti nell'introduzione del catalogo (New York-Göttingen, Icp/Steidl Plubishers, 2011, pagine 248) – curatori e storici del Museo Smithsoniano Nazionale dell'Aria e dello Spazio cominciarono a organizzare una mostra legata al sessantesimo anniversario del bombardamento, incentrata sull'Enola Gay, il bombardiere B-29, restaurato di recente, che trasportava la bomba sganciata su Hiroshima. La proposta della mostra fu osteggiata dai gruppi conservatori, incluse la Legione Americana e la Air Force Association, in quanto troppo revisionista e anti americana. Avrebbe minimizzato sia l'aggressione militare giapponese sia il valore americano". Andando oltre le disquisizioni ideologiche, le fotografie di "Hiroshima: Ground Zero 1945" e le altre tratte dalla collezione permanente dello Icp, confermano la tremenda forza distruttrice della bomba, mentre i saggi di John W. Dower, Adam Harrison Lavy e David Monteyne pubblicati nel catalogo analizzano i motivi per i quali la bomba viene costruita, come si giunge alla decisione di utilizzarla, nonché le sue ripercussioni sull'urbanistica e l'ingegneria. Concentrandosi sulle immagini, si nota la presenza limitata di persone; si tratta sostanzialmente di pochi sopravvissuti, alcuni soccorritori. Eppure, si legge nel rapporto segreto consegnato al Governo, "il risultato che colpisce di più della bomba atomica è il gran numero di vittime. Il numero esatto non si saprà mai data la confusione creatasi dopo lo scoppio: persone considerate disperse potrebbero essere arse negli edifici crollati, finite nelle cremazioni di massa". Ciononostante i tecnici si concentrano sugli edifici, sulle cose. Ecco allora la foto dei magazzini Odamas, i più grandi della città, di cui rimane solo uno scheletro aggrovigliato di lamiere. O quella della scala della Biblioteca Asamo, costruita nel 1926, senza più muratura e deformata dal calore. O, ancora, la veduta di ciò che resta all'interno dell'auditorium cittadino: un rudere sventrato coperto di cenere e detriti. Ma c'è anche l'immagine di una scuola elementare, danneggiata e tuttavia rimasta in piedi – come avvenuto solo al dieci per cento degli edifici cittadini – perché costruita con criteri antisismici d'avanguardia per l'epoca. Ma, per ciò che evoca, la più terribile tra le foto è forse quella di una sedia con una giacca appoggiata allo schienale. La sedia sembra intatta, ma la giacca è in gran parte bruciata: apparteneva a un ragazzino che al momento dell'esplosione si trovava all'aperto vicino al municipio, l'edificio 28, segnato con cura dai tecnici americani all'interno della fascia a tremilaottocento metri dall'epicentro. È evidente che chi imbraccia la macchina fotografica non ha alcuna intenzione artistica o storiografica, ma solo la distaccata attenzione che occorre per una documentazione tecnica. Le immagini delle rovine di Hiroshima sono un ottimo esempio degli usi scientifici e probatori della fotografia. "Scattate sotto l'egida del Governo statunitense, queste fotografie – si legge ancora nell'introduzione – sono state tutt'altro che neutrali. Utilizzate da scienziati, ingegneri civili e architetti, esse, affiancate da dettagliate analisi strutturali, hanno fornito informazioni essenziali per creare un'arma atomica ancora più potente e proteggere la vita e le strutture negli Stati Uniti da un attacco simile". Eppure le foto di guerra, a partire da quelle di Alexander Gardner e Mattew Brady che mostrano i morti della guerra civile americana caduti a Gettysburg, si mostrano sempre come documenti inequivocabili della brutalità di ogni conflitto. E così oggi – nonostante il dettagliato corredo di schemi, mappe, rapporti, spiegazioni tecniche frutto degli studi degli esperti dell'epoca – agli occhi del visitatore quelle istantanee di Hiroshima appaiono per quel che sono: testimonianza di una tragedia immane; immagini di una città polverizzata in pochi attimi, trasformata in un impressionante deserto; istantanee di un'agghiacciante assenza di vita. Di vite cancellate per sempre in un inatteso e innaturale baleno che infiammò un cielo che pareva sereno. (©L'Osservatore Romano 22 luglio 2011)

Direttore dei Musei Vaticani


di LUCETTA SCARAFFIA

C'è un'opinione diffusa – e neppure tanto recente – secondo la quale il Vaticano sarebbe luogo di conservazione di rilevantissimi tesori di arte e cultura, ma non più di viva elaborazione culturale: solo erudizione, ma poca vita e passione intellettuale. L'elezione di Joseph Ratzinger, intellettuale raffinato e universalmente riconosciuto, nonché l'attività del cardinale Ravasi al dicastero della cultura, stanno cancellando questo pregiudizio.
A queste due figure di riconosciuto valore si deve aggiungere certamente il nome del direttore dei Musei vaticani nominato da Benedetto XVI, Antonio Paolucci. Un piccolo libro intervista (Arte e bellezza, La Scuola) serve ai molti che non lo conoscono personalmente per scoprire questo personaggio, che non solo è senza dubbio uno dei più seri e profondi conoscitori contemporanei dell'arte, ma anche persona divertente e capace di comunicare con tutti – ben lontano dal modello dell'esperto snob ed elitario che ci si potrebbe aspettare in questo posto – e soprattutto pieno di passione per il suo lavoro. Perché, dice, "la bellezza non è questione di filosofia, ma di percettività, di libertà. L'approccio alla bellezza è questo: è l'infinita curiosità, la percettività e quindi la pura felicità senza tormenti né filosofie".
Felicità è proprio la parola che ricorre più spesso nel corso del dialogo, sempre intesa come frutto del rapporto con la bellezza e quindi con l'arte: la contemplazione delle infinite cose belle che si possono incontrare in una passeggiata per Roma, dice, "basterebbe a renderci felici, almeno per un po'". Fonte di felicità è il suo lavoro nei musei: "Quando entra la luce nel tardo pomeriggio dell'estate romana, io giro per le grandi sale, percorro le collezioni in solitudine e mi sento semplicemente felice".
Moltissimi sono gli spunti interessanti che offre questo piccolo libro. Come la suggestione che nasce dall'immaginare un suo museo ideale, dove riunire i capolavori dell'arte mondiale a lui più cari; suggestione che consente attraverso le sue parole di cogliere impreviste luci su opere magari poco note o su altre fin troppo conosciute ma proprio per questo quasi non più "viste" con stupore. Oppure i suggerimenti per scoprire percorsi poco battuti, ma estremamente affascinanti, nel dedalo degli immensi musei che dirige.
La particolarità di Paolucci è quella di non limitarsi a una visione estetica dei capolavori conservati, ma di vederli nella loro dimensione storica e vitale: così il restauro della Paolina è strettamente collegato alla sua funzione di cappella del Papa, quella dove viene conservato sempre il Santissimo Sacramento, ma anche dove Michelangelo ormai vecchio dipinge san Pietro che si offre al martirio rivolgendo i suoi occhi profondi e pensosi verso il volto del Pontefice che entra per dirgli: "Tu es Petrus, la croce è il tuo destino". Così, nelle sue parole, uno dei luoghi apparentemente meno intriganti del percorso museale, la Galleria lapidaria, diventa la testimonianza della Roma multietnica e multiculturale, "il luogo dove tutti i popoli del mondo si incontravano e si confrontavano (…) Noi siamo quella gente (…) nasciamo da quell'impasto".
Nell'amore per l'arte e la storia Paolucci fonda il suo amore per l'Italia, dove è stato ministro per i Beni culturali e che considera l'unico Paese del mondo in cui "il patrimonio è minuziosamente presente e universalmente distribuito", in cui cioè il museo esce dai propri confini. Qui, e proprio in Vaticano, è nata l'idea di museo "per coltivare la memoria, per esorcizzare l'insignificanza e la morte".
Contrario a forme di sfruttamento commerciale di questo patrimonio, Paolucci ricorda però che "se c'è una fruttuosità del patrimonio culturale italiano, questa è una fruttuosità indotta. Quando una persona (…) compra un vestito, un paio di scarpe, una bottiglia d'olio e di vino italiani, l'apprezzamento per ciò che compra è l'immediata conseguenza delle colline di Siena, dei dipinti di Leonardo (…) Questo è un valore incommensurabile".
Favorevole a ogni forma di comunicazione – a cui si dedica con successo e abilità – Paolucci mira a mantenere ampio l'orario di apertura dei musei, cercando al tempo stesso di preservare dagli effetti del pubblico i tesori che sono conservati. Ma questo non significa certo ritenere che i musei debbano diventare luogo di intrattenimento e di divertimento: il museo, dice, "è un po' come una chiesa, il museo è il luogo dove il meglio dell'uomo si sublima e prende forma". Proprio per questo, afferma risolutamente, "la cultura ha bisogno di talento e non di soldi". E un tesoro di talenti i Musei vaticani l'hanno trovato sicuramente nel loro direttore.

(©L'Osservatore Romano 17 giugno 2011)

Direttore dei Musei Vaticani


di LUCETTA SCARAFFIA

C'è un'opinione diffusa – e neppure tanto recente – secondo la quale il Vaticano sarebbe luogo di conservazione di rilevantissimi tesori di arte e cultura, ma non più di viva elaborazione culturale: solo erudizione, ma poca vita e passione intellettuale. L'elezione di Joseph Ratzinger, intellettuale raffinato e universalmente riconosciuto, nonché l'attività del cardinale Ravasi al dicastero della cultura, stanno cancellando questo pregiudizio.
A queste due figure di riconosciuto valore si deve aggiungere certamente il nome del direttore dei Musei vaticani nominato da Benedetto XVI, Antonio Paolucci. Un piccolo libro intervista (Arte e bellezza, La Scuola) serve ai molti che non lo conoscono personalmente per scoprire questo personaggio, che non solo è senza dubbio uno dei più seri e profondi conoscitori contemporanei dell'arte, ma anche persona divertente e capace di comunicare con tutti – ben lontano dal modello dell'esperto snob ed elitario che ci si potrebbe aspettare in questo posto – e soprattutto pieno di passione per il suo lavoro. Perché, dice, "la bellezza non è questione di filosofia, ma di percettività, di libertà. L'approccio alla bellezza è questo: è l'infinita curiosità, la percettività e quindi la pura felicità senza tormenti né filosofie".
Felicità è proprio la parola che ricorre più spesso nel corso del dialogo, sempre intesa come frutto del rapporto con la bellezza e quindi con l'arte: la contemplazione delle infinite cose belle che si possono incontrare in una passeggiata per Roma, dice, "basterebbe a renderci felici, almeno per un po'". Fonte di felicità è il suo lavoro nei musei: "Quando entra la luce nel tardo pomeriggio dell'estate romana, io giro per le grandi sale, percorro le collezioni in solitudine e mi sento semplicemente felice".
Moltissimi sono gli spunti interessanti che offre questo piccolo libro. Come la suggestione che nasce dall'immaginare un suo museo ideale, dove riunire i capolavori dell'arte mondiale a lui più cari; suggestione che consente attraverso le sue parole di cogliere impreviste luci su opere magari poco note o su altre fin troppo conosciute ma proprio per questo quasi non più "viste" con stupore. Oppure i suggerimenti per scoprire percorsi poco battuti, ma estremamente affascinanti, nel dedalo degli immensi musei che dirige.
La particolarità di Paolucci è quella di non limitarsi a una visione estetica dei capolavori conservati, ma di vederli nella loro dimensione storica e vitale: così il restauro della Paolina è strettamente collegato alla sua funzione di cappella del Papa, quella dove viene conservato sempre il Santissimo Sacramento, ma anche dove Michelangelo ormai vecchio dipinge san Pietro che si offre al martirio rivolgendo i suoi occhi profondi e pensosi verso il volto del Pontefice che entra per dirgli: "Tu es Petrus, la croce è il tuo destino". Così, nelle sue parole, uno dei luoghi apparentemente meno intriganti del percorso museale, la Galleria lapidaria, diventa la testimonianza della Roma multietnica e multiculturale, "il luogo dove tutti i popoli del mondo si incontravano e si confrontavano (…) Noi siamo quella gente (…) nasciamo da quell'impasto".
Nell'amore per l'arte e la storia Paolucci fonda il suo amore per l'Italia, dove è stato ministro per i Beni culturali e che considera l'unico Paese del mondo in cui "il patrimonio è minuziosamente presente e universalmente distribuito", in cui cioè il museo esce dai propri confini. Qui, e proprio in Vaticano, è nata l'idea di museo "per coltivare la memoria, per esorcizzare l'insignificanza e la morte".
Contrario a forme di sfruttamento commerciale di questo patrimonio, Paolucci ricorda però che "se c'è una fruttuosità del patrimonio culturale italiano, questa è una fruttuosità indotta. Quando una persona (…) compra un vestito, un paio di scarpe, una bottiglia d'olio e di vino italiani, l'apprezzamento per ciò che compra è l'immediata conseguenza delle colline di Siena, dei dipinti di Leonardo (…) Questo è un valore incommensurabile".
Favorevole a ogni forma di comunicazione – a cui si dedica con successo e abilità – Paolucci mira a mantenere ampio l'orario di apertura dei musei, cercando al tempo stesso di preservare dagli effetti del pubblico i tesori che sono conservati. Ma questo non significa certo ritenere che i musei debbano diventare luogo di intrattenimento e di divertimento: il museo, dice, "è un po' come una chiesa, il museo è il luogo dove il meglio dell'uomo si sublima e prende forma". Proprio per questo, afferma risolutamente, "la cultura ha bisogno di talento e non di soldi". E un tesoro di talenti i Musei vaticani l'hanno trovato sicuramente nel loro direttore.

(©L'Osservatore Romano 17 giugno 2011)

I giovani evangelizzano sulle spiagge: torna la chiesa gonfiabile

ROMA, lunedì, 19 luglio 2010 (ZENIT.org).- Vengono da tutta Italia e qualcuno persino dalla Slovenia: sono più di cento i giovani della task force della Chiesa cattolica che hanno scelto lo stile fashion per evangelizzare i loro coetanei. Dal 21 al 25 luglio invaderanno la costa pescarese per la loro “missione nazionale”, un evento che ormai ha una lunga storia. Niente a che vedere con chiassosi ragazzi di oratorio e della colonia estiva dei tempi passati. Questi giovani glamour vestono in fuxia, nero e bianco, i colori che hanno scelto per mostrare il loro stile inconfondibile anche nell’annuncio. Nessun disturbo ai bagnanti, ma solo buona musica d’ascolto in uno scenario mozzafiato: davanti al mare innalzeranno un gonfiabile lungo trentacinque metri e largo quindici, capace di ospitare più di mille giovani che, sotto la luna, potranno parlare della loro fede o della loro non fede con qualche coetaneo. Naturalmente anche la struttura (battezzata dalla BBC come “chiesa gonfiabile”) è fuxia e nera, i colori che contraddistinguono il progetto internazionale organizzatore dell’evento. Sulla spiaggia ci saranno anche balli latino-americani guidati da uno staff professionale di “convertiti” a questo nuovo stile di essere Chiesa, mentre altri saranno impegnati ad invitare i villeggianti all’iniziativa “Una luce nella notte”, che inizierà il 24 luglio sera alle 22 e continuerà per tutta la notte. Moltissimi giovani in queste notti hanno riscoperto Dio e ora si prendono anche le ferie per vivere “missioni” estive e testimoniare la loro gioia di essere credenti. Piccoli miracoli, di questi tempi. “Una luce nella notte” (un evento promosso da queste giovani “sentinelle” da ormai dieci anni in più di cinquanta città italiane ed estere) sarà ripetuto anche a Milano Marittima, l‘8 agosto, una delle città più fashion d’Italia. Recentemente anche il sito www.sentinelledelmattino.org si è rinnovato colorandosi di fuxia e nero, battendo ogni record di utenti nel piuttosto grigio panorama dei siti religiosi. Insomma, i giovani cattolici sembrano volersi scrollare di dosso la polvere di questi ultimi mesi e vogliono indossare una t-shirt fuxia e bianca. Mode e stranezze d’estate.

Diciassette giovani uccisi nell'irruzione di un commando armato in un locale di Torreón Messico, terra di stragi

Città del Messico, 19. Anche l’ultimo fine settimana è stato segnato in Messico da nuove stragi perpetrate dai gruppi criminali che gestiscono il traffico degli stupefacenti e che sono impegnati da anni in una vera e propria guerra per il controllo sul territorio. L’episodio più grave è accaduto a Torreón, nello Stato di Coahuila, a ridosso della frontiera con il Texas, dove un commando armato ha ucciso almeno 17 persone, tutti fra i 20 e i 30 anni, facendo irruzione in un locale durante una festa organizzata da un gruppo di giovani. I feriti sono 17, molti del quali versano in condizioni critiche negli ospedali della zona. L’attacco è avvenuto all’una e trenta del mattino di domenica in un centro residenziale chiamato Quinta Italia Inn. Gli investigatori hanno accertato che il commando è arrivato sul posto a bordo di cinque veicoli e ha subito incominciato a sparare all’impazzata, secondo quanto riferito da Adrian Olivas Jurado, della procura della città, che ha raccolto le testimonianze delle persone uscite illese dalla festa. Olivas Jurado ha aggiunto che i sicari avevano armi pesanti – Ar-15 e Ak-47, i fucili automatici preferiti dai narcotrafficanti messicani – e che sul posto sono stati trovati i bossoli di circa duecento pallottole. Il massacro dei partecipanti alla festa nel Quinta Italia Inn ha avuto luogo poche ore dopo una vera e propria battaglia tra narcotrafficanti ed esercito nella città di Nuevo Laredo – anch’essa non lontana dal confine con il Texas – concluso con un bilancio particolarmente pesante di 12 morti e 21 feriti, tra cui tre bambini in gravi condizioni. La strage di ieri notte a Torreón è la sesta di questo tipo avvenuta nel 2010, a conferma di un’intensificazione delle violenze dei cartelli del narcotraffico. Il primo caso del genere, quest’anno, era avvenuto in gennaio a Ciudad Juárez, la città dove si registrano più uccisioni al mondo, escludendo le zone teatro di guerre dichiarate. In quell’occasione furono quindici i giovani uccisi in un’irruzione di sicari in un locale, nell’ambito del conflitto tra i cartelli narcotrafficanti di La Linea e di Sinaloa. Proprio Ciudad Juárez è stata teatro, tre giorni fa, di un attentato per il quale i narcotrafficanti hanno usato un’autobomba, a conferma di un’escalation della violenza anche sul piano delle modalità di esecuzione, oltre che su quello quantitativo. In proposito, i dati riferiti venerdì scorso dal procuratore generale messicano, Arturo Chávez, non lasciano dubbi. Dall’inizio dell’anno sono state già più di settemila le persone uccise nelle sparatorie, negli attentati e nelle altre violenze legate al narcotraffico. In tutto il 2009 c’erano stati novemila morti. A partire dal dicembre 2006, quando il presidente Felipe Calderón si è insediato al potere e ha deciso l’impiego dell’esercito contro i narcotrafficanti, i morti sono stati più di 25.000, numeri che sembrano raccontare più una situazione di guerra che un contesto di sia pur difficile lotta alla criminalità. (©L’Osservatore Romano – 19-20 luglio 2010)

Mark Twain, dopo un secolo esce l’autobiografia

Dubbi sull’esistenza di Dio, forti perplessità sull’operato del presidente americano Theodore Roosevelt, commenti al vetriolo su amici, politici e intellettuali e tanti particolari sulle sue avventure galanti, a partire dalla relazione con la sua segretaria: è destinata a essere riscritta la vita di Mark Twain (1835-1910), il padre della letteratura americana, con la pubblicazione della sua autobiografia inedita, il cui primo volume uscirà in autunno. Lo scrittore volle che la sua autobiografia restasse segreta per 100 anni dopo la sua morte e lasciò precise disposizionisulle modalità di pubblicazione. L’Università della California ha custodito gelosamente per un secolo le cinquemila pagine autografe dell’autore delle avventure di Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Ora gli studiosi della biblioteca dell’ateneo di Berkeley hanno annunciato che uscirà in tre volumi, il primo dei quali già a novembre. (avvenire.it)

Crociata: al centro della nostra missione l’impegno educativo

Sulla pedofilia il segretario generale della Cei ha riconosciuto «la drammaticità e la gravità del fenomeno», ribadendo l’impegno ad affrontare i casi che si presentassero

DA ROMA MIMMO MUOLO – avvenire

Non è sicuramente l’unico ar­gomento fin qui emerso nel corso della 61ª Assemblea ge­nerale della Cei, che ha al centro dei suoi lavori l’impegno educativo per i prossimi dieci anni, «vero fulcro della missione della Chiesa». Ma è quello che più ha attratto l’attenzione dei giornalisti. Così, leggendo i resoconti della conferenza stampa tenuta ieri dal segretario generale della Cei, mon­signor Mariano Crociata, si potrebbe avere l’impressione che solo di pedo­filia si stiano occupando i vescovi in questi giorni. In realtà il presule – pur non tirandosi indietro anche quando si è trattato di fornire alcuni dati sulla situazione italiana («sono un centinaio i casi di abusi sessuali da parte di sa­cerdoti rilevati da procedimenti cano­nici in Italia negli ultimi dieci anni») – ha tenuto a precisare che « sarebbe u­na distorsione profonda dell’ottica con cui guardare alla vita della Chiesa nel suo insieme, prenderla in considera­zione solo da questa prospettiva». Il segretario generale della Cei ha quin­di affermato: «La Chiesa in realtà è fe­rita da questi fatti in se stessa e insie­me alle vittime. La totalità dei creden­ti, e tra essi degli educatori, svolge or­dinariamente in maniera valida, po­sitiva, spesso esemplare e qualche vol­ta in modo eroico il proprio servizio. Pertanto è importante porre nella giu­sta luce questo fenomeno». E la giusta luce consiste ad esempio nel dire che «la Chiesa riconosce l’as­soluta drammaticità e gravità del fe­nomeno e ribadisce il proprio impe­gno ad affrontare i casi che si presen­tino. Al contempo esprime l’impegno costante in campo educativo e for­mativo, che costituisce il centro della sua missione, impegno che assorbe, possiamo dire, la totalità della sua vi­ta e del ‘personale’ religioso, eccle­siastico e laico». Anche i fedeli sono sulla linea dei ve­scovi, ha riferito il segretario generale della Cei. Una maturità cristiana che si esprime, ha detto il presule rispon­dendo a una precisa domanda, «nel fatto che non abbiamo notizie di ab­bandoni o di cali di iscrizioni» alle scuole cattoliche. «Il popolo dei cre­denti – ha sottolineato, infatti, il ve­scovo – prova orrore per queste cose, vuole chiarezza perché i fatti siano af­frontati e risolti, perché la vita della Chiesa possa crescere in qualità». La questione pedofilia, dunque, «può es­sere l’occasione per un salto di qua­lità ». A tal proposito monsignor Crociata ha anche riferito che «è volontà dei ve­scovi accompagnare chi vive questi problemi, tanto le vittime quanto i sa­cerdoti che ne fossero responsabili con gli strumenti necessari ed a­deguati. Una volontà quindi di farsi carico di tutti». In risposta a un’altra do­manda il presule ha poi det­to che non c’è bisogno in Ita­lia di alcuna Commissione speciale perché le indicazio­ni della Lettera del Papa ai cattolici d’Irlanda e le linee guida della Congregazione per la dottrina della Fede «contengono tutti gli ele­menti necessari». Crociata ha inoltre assicurato che nonostante la legge italiana non prevede l’obbligo di denuncia, «ciò non esclude la coo­perazione che consiste nel render possibile in tutti i modi l’accerta­mento dei fatti», anche attraverso la testimonianza giudiziale di un ve­scovo, «fatto del tutto ordinario». In ogni caso «i vescovi italiani hanno mostrato di non sottovalutare il fe­nomeno » e «non ci sono stati casi di trascuratezza nella vigilanza». Una domanda anche sulla legge per le intercettazioni. Crociata non è entra­to nel merito, ma ha auspicato che i beni in gioco – i singoli individui, l’or­dinamento della giustizia, le esigenze della solidarietà e giustizia nella vita sociale, l’informazione – siano il più possibile, insieme ed equilibrata­mente, salvaguardati tutti». Quanto al 150° dell’unità d’Italia, «i cattolici – ha concluso – contribuiranno, come sempre, in tutte le forme possibili, al bene del Paese».

Vicini ai preti di oggi e di domani

DA ROMA MIMMO MUOLO  – avvenire
 Il Serra International Italia ricon­ferma anche per il prossimo bien­nio la fedeltà alla propria missio­ne di sostenere le vocazioni e i sacer­doti. A farsene interprete, a conclu­sione del XII Congresso nazionale, ce­lebrato nei giorni scorsi a Roma, è sta­to il nuovo presidente nazionale, Do­nato Viti. Ricevendo il testimone da Gemma Sarteschi, prima presidente donna nella storia della sezione ita­liana (che ha concluso il suo manda­to), Viti non ha nascosto le difficoltà («non è certamente un buon mo­mento per parlare al mondo di voca­zioni sacerdotali»), ma ha espresso fi­ducia che il momento difficile sarà presto superato. «Bene ha fatto il Pa­pa – ha detto il neo presidente – a chiedere perdono a Dio e alle vittime a nome della Chiesa e a impegnarsi per eliminare la sporcizia dalla co­munità ecclesiale. Noi dunque non siamo soli. E daremo il nostro contri­buto, dimostrando affetto, amicizia e vicinanza a tutti i ministri di Dio e a coloro che si stanno preparando per diventarlo».
  I lavori del Congresso hanno piena­mente confermato queste intenzioni. Numerosi gli interventi di porporati e vescovi. Dal cardinale José Saraiva Martins, consulente episcopale per il Serra Italia, all’arcivescovo Mauro Pia­cenza, segretario della Congregazio­ne per il clero, che ha auspicato «una cura reciproca tra sacerdoti e laici», senza che questi ultimi si clericalizzi­no; al vescovo di Lucera-Troia Do­menico Cornacchia, che ha ricorda­to come il mondo sacerdotale abbia bisogno di preti che diano la loro vi­ta per gli altri; fino al vescovo ausilia­re dell’Aquila Giovanni D’Ercole, che ha ricordato la tragedia del terremo­to e il ruolo dei sacerdoti accanto al­le popolazioni disagiate; e al vescovo di Livorno Simone Giusti, che ha por­tato la sua testimonianza.
  Il rilancio delle vocazioni nasce da un cuore nuovo. A tal proposito don Ni­co Dal Molin, direttore del Centro na­zionale vocazioni, ha parlato della sindrome di Narciso, che ha conta­giato molti nell’odierna società. «Noi invece – ha sottolineato – dobbiamo far trapelare l’amore di Dio, per il tra­mite della fedeltà, della gratuità e del­la pazienza».
  La cronaca è entrata nei lavori grazie agli interventi del direttore de L’ Os­servatore Romano , Giovanni Maria Vian. «Stiamo vicini ai preti perché ci siano vicini», ha detto. Il Serra Club, infatti, «è chiamato ad un impegno di rilievo nella missione che porta a­vanti a favore delle vocazioni». Una visione condivisa anche da Giusep­pe De Carli della Rai, direttore di Rai Vaticano.
 Il Serra International Italia ha celebrato il XII congresso nazionale. Il nuovo presidente è Donato Viti. Gli interventi di Saraiva Martins, Piacenza, Cornacchia, D’Ercole, Giusti, Dal Molin,Vian e De Carli