“Soul”, esempio di un cinema davvero adulto

STEFANIA GARASSINI

Ambizioso, visivamente perfetto – davvero un peccato non poterlo vedere nelle sale –

Soul, nuovo film della Pixar dal 25 dicembre in streaming su DisneyPlus, è ambientato in un mondo ultraterreno e affronta quesiti metafisici, senza paura di azzardare risposte, cosa che ormai il cinema fa molto di rado, meno che mai quello di animazione. Ma non è certo un problema per la Pixar, che da sempre si pone nuove sfide, fin da quando nel 1995 per prima si cimentò con Toy Story nell’impresa di un intero lungometraggio in computer animation. Da lì in poi ogni film ha superato nuovi traguardi sul fronte della tecnologia e dei contenuti. Soul non fa eccezione, con una New York mai così realistica e un aldilà sospeso tra toni sognanti e paurosi, come potrebbe immaginarselo un bambino. Il film, diretto da Peter Docter (regista di Up

e Inside Out, premiati con l’Oscar), alza l’asticella di ciò che l’animazione può raccontare e pone domande epocali: che senso ha la vita? Che cosa dà significato ai giorni che passano? Così facendo accetta di perdere per strada il pubblico dei più piccoli – ed è l’appunto che molti stanno muovendo al film – ma ci regala una vicenda poetica con spunti di riflessione di rara profondità. La storia è quella del jazzista afroamericano, Joe Gardner, costretto suo malgrado a fare l’insegnante di musica in una scuola media, che ha l’occasione attesa da tutta la vita: suonare in un locale prestigioso di New York. Poche ore prima però scivola in un tombino e arriva sulla soglia della morte, trovandosi proiettato nell’“antemondo”, ipotetica fase intermedia nella quale le anime devono scoprire, grazie a un mentore, la “scintilla” che le renderà adatte a prendere un corpo e affrontare così la vita sulla terra. Sarà l’incontro con 22, anima ostinata che stenta a trovare la sua vocazione (con lei ha gettato la spugna persino Madre Teresa), a indurre Joe a mettere in discussione la certezza che la musica soltanto sia il senso della sua vita. Nell’antemondo di

Soul ci sono “anime perse” per nulla malvage ma “colpevoli” di aver reso assoluta la propria passione, che così è diventata una ossessione distaccandole dalla vita vera. Il film di Peter Docter non ha la pretesa di rappresentarci un aldilà dantesco ma intende offrirci una riflessione sull’importanza di cogliere il significato del vivere nell’aldiqua, la più profonda possibile secondo una visione puramente laica. Soul in questo evita riferimenti religiosi diretti, limitandosi a qualche accenno a un misticismo senza nome che consente momentanei “distacchi” dell’anima dal corpo. Il senso del film è in una battuta che cita la celebre storiella dello scrittore David Foster Wallace sul pesce anziano e i pesci giovani: il giovane chiede dove sia “quello che tutti chiamano Oceano” il vecchio risponde “ci stai nuotando dentro”, e il giovane, insoddisfatto, replica “ok questa è l’acqua, ma io cerco l’Oceano”. Spesso crediamo di cercare qualcosa che in realtà abbiamo già. E la “scintilla” per vivere sta nell’essere capaci di stupirsi e di accorgersi delle esigenze di chi ci sta accanto. Impresa ben più difficile dell’eseguire magistralmente un brano al pianoforte. A dare pienezza alla vita non è soltanto una travolgente passione ma saper trarre il meglio da ogni istante, così come si presenta. E per scoprirlo? Nessuna ricetta: è un “comma 22” (nulla è casuale in un prodotto Pixar), un paradosso. Non si può spiegare se non passandoci attraverso. Vivendo.

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