Quando una piccola comunità a Messa mostra com’è bello volersi bene nel Signore, in una famiglia…

L’ingresso della cappella feriale si raggiunge girando intorno alla chiesa. C’è un cancello nero; a destra, disturbanti, i bidoni dell’immondizia. Poco più in là, tuttavia, e lungo tutto il viottolino che porta alla canonica, ci sono vasi di gerani multicolori e fioriti. Trovo l’ingresso della cappella; sentendo da dentro una voce maschile, guardo stupita l’orologio, meravigliandomi di essere in ritardo, arrivata a messa già iniziata. In realtà sono ancora in anticipo, per cui entro nella cappella delle celebrazioni feriali. Un gruppetto di persone attende l’inizio della messa; in maggioranza sono uomini, cosa che in Italia accade piuttosto di rado. In fondo, nell’angolino più remoto, c’è la persona la cui voce avevo udito da fuori. È un anziano, che mugola qualcosa. Probabilmente, pensa di star pregando in silenzio; in realtà, si sente una sorta di lamento continuo, interrotto solo a brevi istanti, come a seguire una punteggiatura nota solo a lui.

Mi fa pena, naturalmente; ma, confesso, mi infastidisce anche un po’. Attorno a me, nessuno sembra farci caso: qualcuno legge il breviario, qualcun altro il messale; una donna straniera, inginocchiata, dice il rosario.

Tutt’a un tratto, mentre cerco di recuperare un minimo di concentrazione nonostante il disturbo dei mugolii dell’anziano, mi attraversa la mente un pensiero non mio, e quindi tanto più prezioso. In dono, direi, mi viene dato un frammento del Vangelo, con il dolce rimprovero di Gesù al fariseo che occhieggiava con disprezzo la peccatrice ai piedi del Signore: “Da quando sono entrato, tu non mi hai abbracciato né dato acqua per lavarmi i piedi… Lei non ha smesso di baciarmeli ed asciugarmeli con i suoi capelli”. Mi sento risuonare nella mente una parafrasi di queste parole: “Da quando sei entrata, non hai fatto che lamentarti di come quell’anziano ti impediva di concentrarti… mentre lui non ha fatto altro che pregare”.

Mi sento grata per questo dono, anche se è un po’ un rimprovero, ma capisco che è un regalo prezioso del Signore. E subito mi si presenta un altro pensiero, a sua volta non mio. Attorno a me, nessuno si mostra infastidito da questa sorta di canto lamentoso: perché essere comunità è anche “sopportare”, nel senso bello del “portare i pesi gli uni degli altri”, come dice Paolo. Il “peso” dell’anziano nell’angolo sono queste sue preghiere mugolate e tediose; ma il “peso” che porto io in questa comunità, sicuramente meno udibile ma altrettanto certamente più gravoso, è il peso del mio peccato, delle mie meschinità, dei miei errori. Ognuno dei presenti si carica del peccato degli altri, ed ognuno dei presenti contribuisce alla santificazione degli altri; e tutto avviene, naturalmente, perché il Signore che ci raduna ha portato, lui solo, il peso del peccato di tutti per rendere, lui solo, tutti noi santi.

Si apre la porticina che dà sulla sacrestia. Entra un prete molto anziano; cammina a passi piccolissimi, spostando il peso da una parte all’altra; con fatica ma anche con una certa qual leggerezza. Ha un bel volto che ispira subito simpatia e calore. Si rivolge all’assemblea: “Scusate, sono in ritardo stamattina… ma, sapete, è morto mio cugino… proprio alla vigilia del suo onomastico… Non ci potevo credere…”. Fa un’infinita tenerezza questo vecchio prete che ancora rimane attonito e stupito come un bambino davanti al mistero della morte – e quante persone avrà visto morire, in vita sua…; che si mostra e si confessa inerme e fragile come tutti noi, nonostante il suo ministero e la sua età; e, nello stesso tempo, che sa di trovare sull’altare cui si avvicina, come ogni giorno, la risposta e il senso al suo dolore quasi infantile. E infatti celebra col sorriso, un sorriso che sembra dipinto in permanenza nei suoi occhietti piccoli e vivaci, anche se ormai deboli.

Entra, un po’ in ritardo, una famigliola. La madre, indiana, avrà più o meno la mia età; una figlia già adolescente, e tre maschietti fra gli undici e i cinque anni. Tutti bellissimi. I due più piccoli hanno la divisa rossa della loro scuola, come tutti i bambini qui nel Regno Unito; il penultimo ha anche un distintivo appuntato sulla maglia. Da lontano, forse influenzata dalle mie letture harrypotteriane, lo interpreto come un badge di “Head Boy”.

I bambini, evidentemente abituati a stare in chiesa, sono tranquilli e composti; ogni tanto, presi da un attacco di “coccolite”, abbracciano la mamma – il più piccolo le arriva alla vita, l’abbraccia come fanno i bimbetti che si aggrappano alla gonna. Sorprendentemente, al Padre Nostro i bambini sembrano trovare una voce finora nascosta, e sopra la preghiera degli anziani presenti risuona, squillante, la loro voce convinta.

Finita la messa, uscendo, l’anziano prete si rivolge al bambino più piccolo: “How are you today?”. “Fine!”, esclama con entusiasmo il bambino. È talmente tenero e simpatico che tutti scoppiamo a ridere. Mi avvicino alla giovane mamma per congratularmi con lei per i suoi bellissimi ed educatissimi figli, e lei mi spiega che sono venuti a messa in occasione del compleanno del penultimo figlio: “A noi piace festeggiare anche così i compleanni, venendo a messa prima della scuola”. In effetti, da vicino, vedo che il distintivo recita “Birthday Boy” e non “Head Boy” come avevo letto da lontano – nel caso qualcuno, distrattamente, si dimenticasse di far gli auguri al ragazzino. E infatti, tutti i membri della comunità si avvicinano e si congratulano col “Birthday Boy”. Il prete, poi, vedendo la mia faccia nuova, subito mi viene incontro, mi chiede da dove vengo, perché mi trovo nel Regno Unito, e mi saluta con grande calore.

Esco dalla chiesa. Mi attende una giornata lunga, intensa e faticosa di lavoro accademico. Eppure mi porto nel cuore una gioia intima e grande: perché intorno all’Eucaristia i cristiani si ritrovano in ogni parte del mondo e si sentono a casa dappertutto; perché questa piccola comunità mostra com’è bello volersi bene nel Signore, in una famiglia che racchiude piccoli, grandi, giovani, anziani, britannici e stranieri, ognuno con la sua umanità, con la con la sua fragilità e la sua preziosità. Perché, ancora una volta, la comunione crea comunione. E l’amicizia sgorga dall’amore primigenio della Trinità.

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