Qual è il senso della pandemia? La domanda che spetta alla fede

Mentre alla scienza affidiamo la scelta degli strumenti per affrontare il Covid, è alla religione che poniamo le questioni relative al contesto e al fine di ciò che sta accadendo

È quasi superfluo ripetere una volta di più che l’esperienza della pandemia ha cambiato in maniera irreversibile le nostre vite. Anche se stiamo vivendo un’estate pressoché normale – e Nek, con la sua recente canzone Un’estate normale, ha espresso proprio questo bisogno –, non possiamo far finta che nulla sia accaduto. Oltre che su tanti aspetti della quotidianità, la pandemia ha inciso pure sulle forme della nostra fede e sui modi in cui essa viene vissuta.

Al tema «Credere al tempo della pandemia » è stato dedicato a inizio estate un convegno a Villa Cagnola di Gazzada ( Varese) con Silvio Ferrari, Pierluigi Consorti e monsignor Luca Bressan, oltre a chi scrive. Soprattutto tre punti sono venuti in luce. Riguardano le espressioni della fede – e le limitazioni a cui esse sono state sottoposte –, la portata della fede stessa nell’emergenza che stiamo vivendo, e le sollecitazioni che da questa terribile esperienza tutte le religioni hanno ricevuto. L a pandemia, come ben sappiamo, ha modificato anzitutto i nostri modi di stare insieme, i nostri riti, le forme di esercizio della libertà religiosa. Il principio al quale siamo stati costretti a ubbidire è stato soprattutto il rispetto della distanza. Per un cristiano ciò ha qualcosa di paradossale. Il cristiano si riconosce infatti nel comandamento ‘ama il tuo prossimo’. E il prossimo, appunto, è chi sta vicino, o chi rendiamo vicino, considerandolo un fratello o una sorella. Se invece dobbiamo tenerlo a distanza agiamo proprio in senso contrario a ciò che siamo tenuti a fare. Certo: questo paradosso sembra poter essere risolto abbastanza facilmente. In epoca di pandemia dobbiamo tenere a distanza il prossimo perché è proprio così che dimostriamo il nostro amore nei suoi confronti. Stando a distanza, cioè, facciamo il suo bene, oltre che il nostro. M a tutto questo ha avuto significative conseguenze proprio sul nostro essere comunità. Di più. Ha lasciato un segno proprio nella vita religiosa. Per lungo tempo ci è stato impedito di ritrovarci in presenza per celebrare i nostri riti. Poi, quando ciò è stato possibile, i riti sono stati modificati, al fine di evitare possibili contagi. In parallelo le cerimonie religiose sono state trasmesse in tv o sui social. Questo è certamente servito per mantenere un legame, ma non ha affatto potuto sostituire la celebrazione in presenza. La Messa, infatti, non è uno spet- tacolo a cui si assiste, ma un evento a cui si partecipa. E infatti ciò che è venuto a mancare, in questi casi, è stata la profondità del rito. Intendo il termine ‘profondità’ in un senso letterale, riferito a qualcosa che non può limitarsi a stare su di uno schermo piatto, che non può solamente essere visto ma che coinvolge tutti i nostri sensi: e, grazie a questi, tutto il nostro essere.

L a pandemia, o meglio il modo in cui essa è stata veicolata dai media ed è stata recepita dalla mentalità comune, ha comportato in secondo luogo una trasformazione delle nostre credenze. Ha prodotto anzi un’accelerazione di ciò che, almeno in Occidente, si era già da tempo imposto. Ci siamo affidati sempre di più ai dati scientifici. Ci siamo messi nelle mani di quegli esperti che li spiegavano e che indicavano i comportamenti più sicuri da adottare. Alcuni di noi hanno concepito tutto ciò in maniera estrema, conside- rando la scienza – in questo caso, le discipline biomediche – alla stregua di una nuova religione. Per altri, in maniera altrettanto estrema, l’approccio scientifico alla pandemia è stato un’ulteriore occasione per manifestare i propri dubbi e le proprie personali opinioni, spesso tutt’altro che competenti. Ai nuovi sacerdoti celebrati dai media – i virologi e gli epidemiologi – sono state contrapposte dunque specifiche forme di negazionismo.

I n realtà la stessa fiducia nei rimedi scientifici, che si è rivelata ben riposta visti i risultati che stanno ottenendo, ha lasciato però sullo sfondo altre domande, altrettanto se non più importanti. Sono le domande a cui specificamente la fede è in grado di dare una risposta. L’approccio scientifico, infatti, analizza una situazione, la spiega, offre gli strumenti per interagire con essa ed evitare i danni che ne possono derivare. Tutto ciò si realizza con indubbia efficacia – e così è successo an- che questa volta in relazione alla pandemia, con l’individuazione del virus e la produzione dei vaccini – ma anche con evidenti limiti, di cui peraltro gli scienziati sono ben consapevoli. Le scienze infatti hanno bisogno di tempo per elaborare teorie, fare verifiche, produrre contromisure. E il controllo degli effetti collaterali non potrà mai essere totale (lo mostrano alcune conseguenze della somministrazione dei vaccini). La risposta della religione, in particolare la risposta cristiana, è invece diversa. Certo: non rinuncia a venire concretamente in aiuto di chi ha bisogno. Né ritiene, neppure in questo caso, di fare a meno delle spiegazioni scientifiche per combattere la pandemia. Ma, oltre a ciò, quella a cui essa offre risposta risulta una domanda differente. È la domanda sul perché un certo evento accade. È la domanda relativa al motivo per cui proprio io, o qualcuno dei miei cari, finiamo per patirne le conseguenze. È la domanda sul senso di una certa situazione, non semplicemente l’interrogativo che chiede di spiegarla e di porvi rimedio. D i formulare questa domanda, e di cercare per essa una risposta, abbiamo bisogno. Senza questa prospettiva ulteriore, infatti, anche il nostro impegno contro la pandemia finisce per non essere più sufficientemente motivato. Abbiamo bisogno di uno sfondo certo che permetta di dire che l’emergenza non ha l’ultima parola, che il male non ha il sopravvento, che lo stesso dolore può aprire nuove prospettive alla nostra vita. L’icona di papa Francesco solo, di fronte alla croce, in piazza San Pietro, che eleva la sua preghiera per tutta l’umanità, rinnova proprio in questa prospettiva l’annuncio cristiano. Per combattere il male, per poterlo sconfiggere, dobbiamo insomma comprenderne il senso. Ma, a ben vedere, questo è ciò che fanno, in generale, anche le altre religioni mondiali, seppure con strategie differenti fra loro. Le religioni offrono infatti una risposta al problema del male. Sono chiamate a farlo anche in questa epoca di pandemia. E proprio partendo da qui può emergere un terzo aspetto che da quest’esperienza possiamo ricavare. C ome abbiamo visto, la pandemia ha limitato l’espressione della libertà religiosa. Le varie religioni ne hanno fatto le spese. Tutte hanno sofferto per la sospensione dei riti e per le modifiche che poi, per motivi di sicurezza, le celebrazioni hanno dovuto subire. Tutte hanno cercato e stanno cercando, nelle varie parti del mondo, di venire in soccorso dei propri fedeli, sia materialmente sia spiritualmente. Tutte intendono motivare a combattere la pandemia affrontando il disinteresse e l’indifferenza nei confronti di chi ne è vittima. Proprio da questo punto di vista, però, quello che abbiamo vissuto può essere anche considerato un’occasione: l’occasione per le religioni di sperimentare la possibilità di una reciproca alleanza. È quell’alleanza che viene dalla rivendicazione di uno stile comune nel vedere gli eventi del mondo. È quella possibilità di ritrovarsi insieme a partire dal fatto che le domande che vengono poste sono le stesse, e identica è la volontà di combattere il male in tutte le sue forme. A partire da questo comune impegno, sollecitato dall’emergenza tuttora in corso, può essere riproposto il dialogo interreligioso. È un tema che sta molto a cuore al Santo Padre, come mostra soprattutto l’ultimo capitolo dell’enciclica

Fratelli tutti. Si tratta di un dialogo che coinvolge anzitutto le persone, non solo le istituzioni. Un dialogo che non si limita a spingere a un’azione comune ma che nutre quest’azione con il comune impegno per il bene. Anche questo è un modo di credere, e di promuovere la propria fede, al tempo della pandemia.

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Abbiamo bisogno di formulare l’interrogativo sul significato dell’esperienza umana che stiamo tutti attraversando Senza una simile prospettiva il nostro impegno per superare la crisi non sarà mai abbastanza motivato Tutte le religioni fronteggiano gli stessi nodi È un terreno di dialogo che spinge a un comune impegno per il bene

Un operatore sanitario nel reparto di Terapia intensiva dell’Ospedale Tor Vergata di Roma / Ansa