PENSARE LA FEDE Gli sposi sono già “diaconi”

Perché dopo due Sinodi sulla famiglia l’importanza ecclesiale degli sposi ha ancora bisogno della “legittimazione clericale” per essere riconosciuta? Ad esempio, e impropriamente secondo me, mediante il filtro del diaconato permanente.

Per spiegare quello che voglio dire, devo ricordare una storia che qui su Vinonuovo ho già raccontato. La storia è quella di Enrico e Desi Ceccarelli. Sposi, genitori e poi missionari in Mozambico. Rientrati a Piombino, in provincia di Livorno, fu loro affidata la corresponsabilità di una parrocchia in una cappellania che ne includeva tre, ma con soli due sacerdoti disponibili. Abitavano “in canonica”. O meglio, la loro casa era divenuta una canonica in stile familiare. Un giorno proposero a Enrico di avviarsi al diaconato permanente. Forse – suppongo io – per offrire una legittimazione, per dare un vestito accettabile al ruolo e al servizio che stavano svolgendo insieme (e insieme ai figli, tra l’altro).

Enrico ringraziò, ma declinò dicendo che tutta la sua esperienza missionaria era stata vissuta in coppia, alla luce e grazie alla “consacrazione matrimoniale” ricevuta con Desi; e che non vedeva come questo potesse essere integrato nella sua ordinazione diaconale. Piuttosto immaginava e proponeva l’istituzione di un “ministero della coppia”. Quello che faceva, il servizio che svolgeva, lo sguardo missionario sul mondo e sulle persone che aveva sviluppato, per Enrico era maturato come coppia di sposi. Per lui insomma erano già “diaconi”, prima come battezzati e poi come sposi.

E’ alla luce di questa intuizione, per me ispiratrice da tanti anni, che ho letto il post di qualche tempo fa di Assunta Steccanella, qui su Vinonuovo. Assunta è un’esperta e riconosciuta teologa, io un brontolone rompiscatole. Ma cercherò di spiegare come posso cosa mi convince e cosa no nella sua riflessione, che invito a rileggere. Lascerò per brevità sullo sfondo tutta una serie di implicazioni a questo ragionamento.

Mi piace in Assunta la sapienza di cogliere lo spiraglio possibile – dato il contesto – e la sua intuizione in prospettiva: vedere come segno di un cammino in avanti, “in uscita”, quello di un incontro diocesano di formazione e programmazione in cui sono stati invitati non solo vescovi, sacerdoti e diaconi, ma “anche” le mogli dei diaconi. Comprensibilmente Assunta gioisce della presenza di quelle che lei ha definito “coppie diaconali” e le è venuto spontaneo chiamare “diacone” le mogli dei diaconi. Ora io qui non sono in grado di affrontare tutte le implicazioni di queste sue due suggestioni. Per inciso mi pare di aver inteso – al netto dei mal di pancia di questo o quel vescovo o responsabile del diaconato – che anche tra i diaconi permanenti (e le loro mogli) queste due, diciamo, soluzioni retoriche non sono “scontate” e possono anche aprire ferite e incomprensioni nella coppia.

Mi piace anche il richiamo di Assunta al fatto che il matrimonio, come il ministero ordinato, è un sacramento di servizio, che imprime un carattere negli sposi e che non si cancella. Con la coppia nasce un nuovo soggetto, scrive Assunta.

Ma perché allora per “immaginare il possibile”, ossia una più ricca integrazione degli sposi in quanto tali nella vita della Chiesa, abbiamo bisogno del cappello clericale? Della legittimazione offerta alla moglie dall’ordinazione del marito diacono?

Per completare l’osservazione di Assunta, cito il catechismo. Nella premessa del capitolo “I sacramenti al servizio della comunione” al numero 1534, si dice: “Due altri sacramenti, l`Ordine e il Matrimonio, sono ordinati alla salvezza altrui. Se contribuiscono anche alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli altri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all`edificazione del popolo di Dio”.

Non si tratta di una nota a margine, o magari dell’ultimo articolo di un paragrafo. Ma è la premessa. A me pare evidente che qui venga detto che, fatti salvi i ministeri propri dell’ordine, nella prospettiva del “servizio alla comunione” questi due sacramenti devono essere integrati. Hanno bisogno l’uno dell’altro per funzionare bene.

Non c’è qui una base migliore rispetto ad altri escamotage per fondare e dare corpo a quel “ministero della coppia” immaginato da Enrico e Desi (anche sul piano liturgico, per esempio) e per far comprendere il valore del matrimonio per la vita della Chiesa?

Non è prima di tutto una questione di ruoli o di incarichi – che spesso mi sembrano ancora una toppa di legittimazione clericale sopra buchi antichi – ma di un sincera visione di Chiesa “tutta ministeriale” (come immaginava il Concilio Vaticano II). E quindi davvero sinodale.

vinonuovo.it