Il Verbo incarnato, illuminato e inculturato

23 dicembre 2020

Il Dio che si fa uomo, s’incarna, illumina il mondo, dialoga con la cultura del popolo e si fa uno con l’umanità senza perdere la sua divinità, è il fulcro del Natale. Il cristianesimo non è una filosofia né un’ideologia perché non parte da un Dio concettuale o ideologico, bensì da Gesù che si concretizza e si fa uno di noi. Si lascia vedere, toccare e si muove a partire da una genesi spaziale primigenia fino a un kronos storico specifico, per proiettarsi in un kairos da una parusia che si prolunga a un infinito pieno del suo regno di pace. Ai tempi della prima lettera dell’apostolo Giovanni, quando il tempio di Gerusalemme era stato distrutto e nessuno dei dodici apostoli era più in vita, venti di mode filosofiche, ideologiche e teologiche minacciano i principi sopramenzionati. In questa lettera, discorso od omelia il discepolo amato comincia affermando che: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1 Giovanni, 1, 1). Affrontando quei falsi profeti “cristiani” che condizionano la luce della natività, ossia l’incarnazione in Cristo con i loro pensieri gnostici e docetisti, testimonia in prima persona l’umanità di Dio, fondamento del suo annuncio evangelico.

Questa tensione teologica, filosofica e cosmica che ha continuato a esistere, in tentativi più o meno dissimulati, di disumanizzare Gesù e con lui la fede cristiana, generando una pericolosa dissociazione tra la sfera mondana e quella divina, è messa in luce dal teologo Hans Küng in Essere cristiani quando scrive che: «Questo Dio è, così, trascendente e immanente, lontano e vicino, sovramondano e intramondano, futuro e presente. Dio è orientato verso il mondo: non c’è Dio senza mondo. E il mondo è riferito interamente a Dio: non c’è mondo senza Dio. Pertanto, la contraddizione non risiede, come per i greci, tra il Dio spirituale e il mondo materiale in sé, bensì tra Dio e un mondo peccatore che si è allontanato da Lui. E la redenzione che si attende non è il superamento del dualismo platonico Dio-mondo, spirito-materia, ma la liberazione del mondo dalla colpa, dalla miseria e dalla morte, e la comunione con Dio».

L’incarnazione del Verbo porta con sé la luminosità della sua presenza che si fa cammino in mezzo all’oscurità. «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» ( 1 Giovanni, 1, 5). In questo tempo di pandemia, oscurità e sconforto, scopriamo che i nostri occhi non sono pensati per attraversare questa densità oppressiva. Solo la luce di Dio attraverso gli occhi di Cristo la possono vincere e lasciarci intravedere cammini luminosi di speranza. In altri momenti della storia, come nella Shoah, quando le tenebre del male avvolsero l’intera umanità, molti si sono interrogati su questa lotta cosmica ma tanto umana tra luce e oscurità, dove abbondano le domande sulla divinità, sulle sue parole e sui suoi silenzi. Così ha fatto il filosofo e teologo ebreo Martin Buber, che nel suo saggio L’eclissi di Dio, rispondendo a un altro filosofo, ha scritto: «Sartre è partito dal silenzio di Dio senza domandarsi in che misura il nostro non udire e il nostro non aver udito hanno inciso su questo silenzio». Poi, comprendendo che quell’oscurità aveva creato una distanza tra la luce di Dio e l’oscurità terrena, ha aggiunto: «Eclissi della luce del cielo, eclissi di Dio, tale è in realtà il carattere del momento storico che l’uomo sta attraversando». Infine, riflettendo sul ruolo della fede e sulla realtà impellente ha affermato: «Il rapporto tra religione e realtà che prevale in una determinata epoca è l’indice più esatto del suo vero carattere».

Dobbiamo vivere questo Natale in tempi di silenzi, oscurità e domande. Che la luce vera che ci ricorda il presepe di Betlemme ci aiuti a non lasciarci eclissare dalla confusione e dall’oscurità e a vivere la speranza della luminosità del Signore della storia, di tutte le storie umane.

Il terzo concetto di queste riflessioni natalizie ha a che vedere con un Dio che si è fatto cultura, per dialogare con essa, nutrirsi di essa e influenzarla senza assoggettarla, amandola fino a inculturarsi come parte della stessa. Papa Francesco ha affrontato in diverse occasioni il rapporto tra incarnazione cristiana in dialogo con le culture, come nella Evangelii gaudium, quando ha asserito che: «Non renderebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare a un cristianesimo monoculturale e monocorde» (n. 117). «Questo criterio è legato all’incarnazione della Parola e alla sua messa in pratica: “In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio” ( 1 Giovanni, 4, 2). Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione» (n. 233).

Il rapporto tra evangelizzazione, incarnazione e inculturazione è molto presente nel pensiero e nell’opera del teologo Juan Carlos Scannone, che viene in nostro aiuto affermando che «sebbene l’inculturazione (che è l’altra faccia dell’evangelizzazione della cultura ) ponga l’enfasi su ciò che è proprio e particolare di ognuna, lo fa senza perdere di vista l’aspetto umano universale della cultura e dell’uomo in quanto tali, non considerati — chiaro — in modo univoco e astorico, bensì analogico e storico, e, sebbene accentui la relazione organica e costitutiva tra fede e cultura, preserva la trascendenza della prima e l’autonomia dell’ultima, secondo il modello dell’incarnazione» (in Evangelizzazione, cultura e teologia).

In questo Natale così diverso e complesso, che questi concetti di incarnazione, illuminazione e inculturazione ci umanizzino in amore, risplendano in speranza e benedicano la nostra cultura. Perché «sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio, nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna» ( 1 Giovanni, 5, 20).

di Marcelo Figueroa

Osservatore

Il Natale del cuore

Piero Casentini, «Natale del Signore»
23 dicembre 2020

Varcato il cancello dell’abbazia Mater Ecclesiae sull’isola di San Giulio, il fragore delle onde del lago d’Orta ammutolisce. A parlare adesso è il silenzio della preghiera. E proprio in questo prodigioso silentium , e in costante colloquio con Dio, che negli anni l’abbadessa Anna Maria Cànopi (1931-2019) ha vergato pensieri luminosi sulla nascita di Gesù Cristo. E ora, per la prima volta, i testi inediti sul Natale di una delle figure tanto  significative della Chiesa cattolica del Novecento vengono raccolti in un volume intitolato Il Natale del cuore (Teramo, Edizioni Palumbi, 2020, pagine 183, euro 20). Il lettore s’imbatterà in ventiquattro capitoli — di cui pubblichiamo uno stralcio di seguito — scritti, pensati e meditati nella quiete del chiostro. Un libro che in realtà è un canto di lode al Signore, l’eterna Alleluia , dove le persone orientate dalla verità-Persona, Gesù Cristo, trovano la speranza e la gioia per rinfrancarsi dalla fatica, dalla sofferenza e dall’incertezza in questo sfibrante tempo pandemico. «Il Natale, la festa della luce, della gioia, della tenerezza», scrivono nella presentazione le benedettine dell’isola di San Giulio, «sembra essere fuori luogo ora che il grande male della pandemia continua a dilagare, a penetrare oscuramente nelle nostre case, fra la nostra gente, fra tutte le genti con il suo corteo di paure e di sospetti angosciosi». Ecco le tessere di un mosaico suggestivo e luminoso che le figlie di madre Cànopi, secondo lo stile della spiritualità benedettina, offrono a tutti come bussola accesa per orientarsi nella vita e nel mondo: «Sia lei, la Madre che ha tanto amato e pregato, la nostra guida per farci vivere un nuovo Natale, il Natale del cuore, disponendoci ad accogliere la visita di Dio e a imparare a riconoscere nel volto di ogni fratello quello del nostro misericordioso Signore, venuto a visitarci come Sole dall’Alto». (roberto cutaia)

Il Natale è sempre festa di doni perché riceviamo il Dono; dobbiamo quindi sempre più educarci a una vita che si dona, che non è egoista e chiusa in se stessa ma attenta al prossimo, dando tutto l’aiuto che possiamo, consapevoli anche che riceviamo aiuto dagli altri e sapendolo umilmente ricevere. Perché questo avvenga dobbiamo vivere con purezza di cuore, con bontà, con benevolenza e con generosa attenzione a tutti. Questi sentimenti buoni possono allora rivestirci in modo degno per accogliere il Signore che viene nel mistero del Natale. Quello che conta è avere nel cuore la Luce che è Cristo, avere la sua grazia ed effonderla in tutta la nostra condotta di vita. Nessuno basta a se stesso, abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri; siamo dunque grati a coloro che ci danno aiuto in vario modo e cerchiamo a nostra volta di essere sempre pronti ad aiutare i fratelli e a essere vicino a loro con benevolenza, con premura e generosità. Lungo la giornata possiamo sempre trovare il modo di fare questa elemosina: sarà un piccolo aiuto dove è necessario, o un sorriso, oppure si tratterà di raccogliere una cosa caduta dalle mani di un altro, ma sempre bisogna essere pronti e solleciti nella benevolenza e nell’aiuto vicendevole.

Bisogna conservare il cuore libero per poter dire: «Signore, tutto ciò che mi doni è per te!», vivendo per il Signore, e questo poi si traduce anche nel vivere per gli altri, ma in modo oblativo, non possessivo, come servizio agli altri, come servizio alla vita, come compimento del comandamento dell’amore secondo la legge del Signore. Vivere nella comunione significa quindi vivere nell’amore oblativo e non chiudere il cuore, ma avere sempre il cuore aperto e dato a tutti. Dove c’è la vera libertà ci sono anche il vero amore e la vera capacità di fare della vita un dono. Anche nel nostro tempo questa corsa al potere o per possedere è sempre in atto se si segue lo spirito del mondo. Dobbiamo invece vivere secondo lo spirito del Signore, lasciarci guidare dallo Spirito Santo che è amore, e l’amore è sempre oblativo, è sempre una forza mite che si mette al servizio degli altri. Ogni giorno questo è un impegno da assumere con vigilanza, perché la natura ha ancora le sue inclinazioni verso l’egoismo, da cui in fondo nasce tutto il male. Dobbiamo invece guardare al Signore che è venuto a offrirsi per noi nell’estrema umiltà e nell’estrema nudità; è venuto per essere la nostra salvezza e per mostrarci come si deve vivere. Allora impegniamoci a non distogliere mai lo sguardo da Lui, a non avere altri orientamenti e a non cercare altri modelli di vita, ma solo il Signore Gesù, la sua umiltà e la sua oblatività. Dunque la vera sapienza si mostra, ha le sue opere, che esprimono la carità, Dio stesso. Chi attinge la vera vita dal Signore e la esprime, la dona, agisce in conformità al progetto che Dio ha su di lui. Allora diventa, come il Signore, longanime, magnanimo, generoso, oblativo, e trova la gioia più nel dare che nel ricevere, più nel servire che nel dominare, più nel perdere che nel vincere.

Tutte le lotte che ci sono nel mondo sono suscitate dalla cupidigia, dalla superbia, dalla ricerca di prestigio, da tutto quello che procede dal nemico del bene, che è anche nemico di Dio. Dobbiamo invece cercare di vivere in santità di vita, cercando sempre il bene nell’umiltà, nella verità e nella pace. Cerchiamo quindi ogni giorno di diventare più nuovi, di nascere continuamente a nuova vita in Cristo, impegnandoci sempre a compiere il suo volere nella verità e nell’umiltà e in comunione con tutti i fratelli. Il Signore infatti è venuto per unirci, per instaurare tra noi la comunione, e tutti dobbiamo cercare il bene vicendevole, perché nessuno può godere veramente il bene se non in comunione con gli altri. Non c’è una gioia egocentrica ed egoistica, la gioia è sempre comunione, condivisione, è sempre dono. Cerchiamo questa gioia vera che viene dal Signore e che nasce dal sacrificio, dal dono di sé, ma è anche quella che non viene mai meno, perché nella grazia del Signore rimane quello che è eterno e non quello che passa ed è fugace.

Se abbiamo avuto la beata sorte di nascere in una famiglia e in un ambiente cristiani, di essere battezzati diventando così figli di Dio, di essere cresciuti in questa fede, dobbiamo però pensare anche a quelli che sono infelici, dobbiamo fare in modo che tutto il bene e di conseguenza tutta la gioia spirituale, che sono donati a profusione, possano scorrere verso i poveri, verso tutte le regioni desolate del mondo, verso tutte le persone che non sanno neanche che cosa sia il Natale, oppure che l’hanno vissuto solo in un modo superficiale. Viviamo questo Natale andando verso i poveri di tutto il mondo, tenendoli presenti nel nostro cuore: sono quelli che non conoscono il Signore o che magari lo hanno conosciuto e lo hanno rifiutato, quelli che cercano affannosamente altrove motivi di felicità e gioia, e trovano sempre delusione, perché ciò che non è eterno e divino, ciò che non è dono di Dio delude o finisce presto.

di Anna Maria Cànopi

Osservatore

A proposito di san Giuseppe. Il bene nascosto

Margarita Sigorskaia «Paternità»
23 dicembre 2020

Gesù, il Verbo incarnato di Dio, nasce in una grotta. Fra qualche giorno celebrando il Natale 2020, lo ricorderanno nel mondo oltre due miliardi di cristiani. Il numero fa impressione ma non si deve cadere nella trappola di una visione “muscolare” della fede, il cristianesimo non ha mai avuto buoni rapporti con i grandi numeri. A Betlemme Gesù nasce “fuori casa” perché l’imperatore Augusto, all’epoca l’uomo più potente del mondo, aveva indetto un censimento, voleva cioè contare tutti i suoi sudditi. È sempre la logica di Babele: gli uomini come mattoni, sudditi che “contano” solo se possono essere contati, calcolati, misurati (ed eventualmente scartati). È la logica esattamente opposta a quella del Dio della Bibbia che si china su ciascuno dei suoi figli, che lascia il grande numero, 99, per andare a cercare quell’unica (e insostituibile) pecorella che ha smarrito la strada. Quella pecora è piccola, non si vede, si trova come in un cono d’ombra, ma è proprio lei che spinge il Signore della Storia a muoversi, a operare meraviglie, a compiere il miracolo della salvezza.

Questo stile piccolo e nascosto di Dio splende anche nella scena di Betlemme, un’immagine piena di ombra, come si addice a una grotta. È lì che Dio ha scelto di nascere, di diventare uomo, anzi bambino, per ripercorrere tutte le esperienze che rendono l’esistenza veramente umana: vero Dio e vero uomo. E se l’uomo ha vissuto su questo mondo abitando per migliaia di anni nelle caverne, allora è giusto ripartire proprio da lì, dall’ombra fredda e inospitale di una grotta. Tutto di quella vicenda rivela lo stile discreto di Dio che non mostra i muscoli al centro della scena ma si presenta piccolo e fragile ai margini della storia, nelle periferie del mondo. La Palestina, piccola provincia ai confini dell’impero, Maria la giovane vergine di Nazaret («cosa di buono può venire da lì?» Esclama l’apostolo Natanaele) e ora Betlemme, «il più piccolo capoluogo di Giuda» (Mt 2, 6) e poi i pastori, i primi a incontrare Gesù e infine la piccola famiglia, Maria e, soprattutto Giuseppe, il più in ombra di tutti. Un uomo che per lo più fa due cose: tacere e sognare (e prestare fede ai suoi sogni).

Centocinquanta anni fa il Papa Pio IX ha dichiarato san Giuseppe patrono della Chiesa universale e l’8 dicembre scorso, in occasione dell’anniversario, Papa Francesco ha pubblicato e donato al mondo una intensa, profonda lettera apostolica, intitolata Patris corde, “con cuore di padre”, un testo da leggere e approfondire perché rivela molto del fenomeno della paternità ma, ancora di più, spiega agli uomini, attraverso la figura del falegname di Nazaret, molti aspetti del mistero dell’esistenza umana. Lo dice chiaramente il Papa all’inizio della lettera quando scrive che vuole condividere con il lettore «alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi». Questo desiderio, dice il Papa, è cresciuto durante i mesi di pandemia e, citando il discorso pronunciato il 27 marzo durante la Statio Orbis in piazza San Pietro, Francesco ci ha ricordato come abbiamo potuto sperimentare, proprio in questi tempi drammatici, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni — solitamente dimenticate — che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti». Tutte queste persone sono “tanti san Giuseppe” e, dice il Papa, nel padre putativo di Gesù «possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza».

Questo tema della “santità della porta accanto”, o “della classe media della santità”, espressione che il Papa prende in prestito dal romanziere francese Joseph Malègue (e dal suo capolavoro Augustin) è molto caro a Francesco che spesso ne fa accenno, ma appunto in modo discreto, tra le righe dei suoi discorsi e dei suoi gesti. Al ritorno del viaggio del febbraio 2019 ad Abu Dhabi parlando con i giornalisti fece notare che non si era trattato di un viaggio “storico”, un momento “grande” della storia, perché ogni vita umana è grande, anche quella dell’ultimo della terra, e possiede una dignità immensa e immortale. Il fatto è che Papa Bergoglio è convinto che la storia degli uomini è sospinta ed elevata non dai “grandi” della storia, ma dalla «gente meccanica e di piccolo affare» come direbbe Manzoni o come intuisce Edith Stein nel cuore del momento più buio del XX secolo quando scrive: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato».

Il più bel film di questo duro 2020 che volge al termine è senz’altro La vita nascosta di Terrence Malick dedicato alla figura di Franz Jagerstatter, contadino austriaco, beatificato nel 2007, un “san Giuseppe” del Novecento che pagò con la vita la sua personale, silenziosa, resistenza al nazismo. Il titolo del film è preso da una frase della scrittrice inglese George Eliot che esprime in modo efficace questo pensiero che il vero bene è quello che spesso non si vede, non fa clamore, ma esiste e resiste: «Il bene a venire del mondo — scrive la Eliot — dipende in parte da azioni di portata non storica; e se le cose per voi e per me non vanno così male come sarebbe stato possibile lo dobbiamo in parte a tutti quelli che vissero con fede una vita nascosta e riposano in tombe che nessuno visita».

È la logica degli Hobbit del capolavoro di Tolkien, Il signore degli anelli, per cui il piccolo Merry, un personaggio apparentemente “minore” del romanzo, ad un certo punto afferma: «Il terreno nella Contea è profondo. Tuttavia ci sono cose ancora più profonde e più alte; e se non fosse per loro, un giardiniere non potrebbe curare il suo giardino in quella che lui chiama pace», intuendo che la pace nel mondo è assicurata non dalle grande potenze ma dall’operare nascosto di tante piccole mani, le stesse mani che un altro personaggio del libro, Elrond, celebra con queste parole: «Spesso questo è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo: sono piccole mani a metterli in movimento, perché vi sono costrette, mentre gli occhi dei grandi stanno guardando da un’altra parte». Erode il Grande cercava nel posto sbagliato perché il suo cuore era distorto e accecato dalla logica della forza e del potere, mentre lo sguardo dei pastori e dei magi si lascia guidare dalle stelle e trova la “grandissima gioia” (Mt 2, 11) in una piccola grotta alle porte di Betlemme.

Esiste una rete misteriosa del bene che sorregge il mondo e anche se ogni tanto può accadere che attorno ad alcuni personaggi o eventi, questa rete affiori e si mostri, per un attimo, visibile, in realtà per lo più essa si dipana e opera nell’oscurità, al contrario del male che è sempre fragoroso e ha bisogno del clamore ma poi finisce per non resistere e si consuma nel momento stesso in cui si mostra. Questo è un discorso che sottolinea in modo evidente la grande responsabilità che grava sulle spalle di chi è chiamato al delicato compito dell’informazione soprattutto nel mondo contemporaneo sempre alla ricerca di “eventi” che in quanto tali, fagocitano se stessi. Quale rete tra le due, quella del bene o quella del male, è giusto raccontare, illustrare, illuminare? Quale telegiornale avrebbe inviato una troupe per raccontare la nascita di Gesù nella grotta di Betlemme? La “grandiosa” rete del male infatti sembra più facile da raccontare, si impone da sé, mentre il bene deve essere intuito, ricercato, scoperto. Il problema è che la speranza è senz’altro più faticosa della disperazione. La strada della speranza è più impegnativa, richiede creatività, ma è anche la strada per permette una lettura e un racconto della realtà più corretta, come ha ricordato il Papa nel discorso alla Curia del 21 dicembre: «Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica», questo può scontrarsi con la mentalità di tanta informazione secondo la quale «i problemi vanno a finire subito sui giornali, questo è di tutti i giorni, invece i segni di speranza fanno notizia solo dopo molto tempo, e non sempre». Il bene va quindi intuito come un barlume che resiste anche nel buio; ci vuole speranza e la consapevolezza che anche la crisi si sviluppa all’interno dell’azione dello Spirito Santo, allora, dice il Papa «anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio».

Nascosta nel buio della grotta di Betlemme, splende la grazia del Natale, ai cristiani il compito di abbeverarsi a quella luce e trasmetterla, raccontarla, possibilmente senza guastarne la freschezza, svilirne la forza, disperderne il profumo. Edith Stein parlava di profeti e di santi. Forse a questi si possono aggiungere i poeti: di queste persone, umili strumenti di “qualcosa” più grande, abbiamo bisogno per cogliere il bene che opera nel mondo e raccontarlo, rimettendolo in circolo. È quello che ha fatto san Giuseppe, l’oscuro falegname, poeta e sognatore, di Nazaret.

di Andrea Monda

Osservatore

DA DOMANI IL LOCKDOWN DI NATALE, CORSA A SHOPPING LAST MINUTE 70MILA I MORTI DA INIZIO PANDEMIA, IN CALO TASSO POSITIVITA’

Scatta domani il lockdown di Natale: tutta Italia entra in zona rossa fino a domenica 27. Ultime ore per gli acquisti natalizi nei negozi al dettaglio che domani resteranno chiusi, come previsto dal decreto, saranno aperti i supermercati, gli alimentari, e le farmacie. Intanto gli ultimi dati del ministero della Salute indicano che in Italia è stata superata la soglia delle 70 mila vittime dall’inizio della pandemia, compresi i 533 morti nelle ultime 24 ore. Sono 14.522 i casi di positivi da ieri. Arcuri:’tasso positività mai così basso da 60 giorni, con un rapporto positivi tamponi al 7,9%. Anche il Papa si è sottoposto al tampone.

ansa