Nulla, nella fede cristiana, si dà senza che sia incarnato, cioè senza che sia vissuto realmente da quella comunità, in quel momento, in quelle condizioni

Il precedente articolo su “La messa in acqua” ha provocato molte richieste di spiegazioni, chiarificazioni e approfondimenti. Credo perciò sia giusto tornare sul tema e provare a rispondere.

L’eucarestia è fonte e culmine della vita cristiana. Perciò è assolutamente vera la massima antica formulata da S. Prospero d’Aquitania attorno al 431 d.c.: “lex orandi, lex credenti”, cioè la legge della preghiera è la legge del credere, nel senso che i contenuti, i modi e le forme in cui si esprime la preghiera ecclesiale indicano e richiamano i contenuti, i modi e le forme del credere. Ciò significa che tutto quello che attiene alla liturgia è di capitale importanza anche per la fede. Se perciò si ritiene che davvero Don Mattia abbia sbagliato non si può semplicemente liquidare la faccenda come se fosse una sciocchezza, una stupidaggine, o una “leggerezza” o “un incidente che si può chiudere”, come letto da più parti. Tra l’altro, spesso senza che sia per nulla chiaro il motivo per cui queste espressioni sono state usate.

Perciò è giusto che io espliciti la mia valutazione, nella speranza che anche altri spieghino le loro. Essenzialmente credo che la scelta di Don Mattia sia stata scorretta perché estemporanea, senza una decisione sensata, a monte, che la giustificasse. Dalla lettera di scuse è evidente come la decisione di celebrare in acqua sia nata da una situazione contingente, senza che ciò potesse avere un senso rispetto all’esperienza e al cammino del gruppo delle persone che stavano celebrando. Il principio di S. Prospero sta in piedi, infatti, sulla categoria teologica dell’incarnazione: nulla, nella fede cristiana, si dà senza che sia incarnato, cioè senza che sia vissuto realmente da quella comunità, in quel momento, in quelle condizioni.

Nessuno si è mai scandalizzato se da oltre 40 anni, in diocesi di Trieste si celebra, una volta l’anno, una messa subacquea, dove il prete celebra la parte eucaristica del rito sott’acqua. Da anni non si contano le messe sulle barche; non parliamo poi di quelle all’aperto in ogni tipo di luoghi, persino sui tetti, durante il covid. Ma in tutti questi casi c’era e c’è un motivo riconosciuto, socialmente condiviso e connesso a quella comunità in quel momento e per quelle persone, che dà senso e giustifica queste scelte. La categoria teologica dell’incarnazione giustifica la specificità di questi riti non consueti. Nel caso di Don Mattia sembra che la cura per l’applicazione del criterio di incarnazione sia stata molto poca.

Con lo stesso criterio, però, credo si debba affermare che di per sé, lo stare in acqua, in costume da bagno, alla presenza di altre persone estranee non sono di per sé ostacoli alla cura dell’incarnazione liturgica. Se la comunità che celebra ha un buon motivo per dare senso ad una celebrazione con questi caratteri particolari, perché per quella comunità ciò è rilevante per la loro fede, non ci sono motivi per evitare a priori queste condizioni.

O siamo ancora alla prese con la paura di mostrare il corpo e con l’impossibilità di concepire il sacro e il corpo umano in una unica percezione positiva? S. Giovanni Paolo II ebbe una intuizione, a mio avviso, geniale: connettere la liturgia alla sessualità, nel senso che la sessualità è la liturgia della coppia e la liturgia è la sessualità della comunità. Il corpo perciò si trova esattamente al centro della celebrazione, proprio perchè nel fare l’amore le parole e le idee non bastano. Nella nostra liturgia sacro e corpo sono un tutt’uno che non può essere scisso. Se per secoli abbiamo sconsigliato la partecipazione all’eucarestia agli sposi che avevano fatto l’amore nel medesimo giorno, abbiamo “castrato” la liturgia del suo significato più pieno: il dono totale di Cristo a me (questo è il mio corpo per voi) e la risposta mia come dono totale di me a Cristo, (questo è il mio corpo per Lui) così com’è.

O siamo ancora alle prese con la paura di derogare dalla tradizione, come se il nostro celebrare la liturgia sia qualcosa di assoluto e inamovibile. Faccio presente che la forma concreta che la messa ha oggi è il frutto di almeno sei modifiche intervenute nel corso della storia, a partire dalla celebrazione dei primissimi discepoli fatta nelle case, in forma di cena conviviale. E faccio presente che questo cammino bimillenario della liturgia ha messo capo a ben 23 riti diversi, per il momento, tutti attualmente riconosciuti da Roma, in cui la Chiesa cattolica esprime la sua fede. Qualcosa di assoluto e inamovibile? E forse questo dovrebbe suggerisci che anche oggi dobbiamo chiederci se qualcosa del rito non debba essere modificato.

Lo stesso criterio dell’incarnazione presiede, poi, anche al concetto tanto chiacchierato di “decoro”. Quando il vaticano II ha tentato di descrivere cosa significa così si è espresso: “I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (S.C. 34). Semplici, trasparenti, adatti alla comprensione delle persone. Se dovessimo davvero valutare le nostre abituali celebrazioni su questi tre verbi, dovremmo dire che moltissime di queste non sono decorose.

Come giustamente riconosce Sequeri “La liturgia ‘ci tiene’ a noi (…) perché ha piacere di renderci presentabili al Signore, di presentarci e di essere riconosciuti da Lui”. Il decoro è appunto questo: l’essere presentabili e riconoscibili da lui. Ma se la liturgia ci tiene a noi, se Gesù “desidera ardentemente mangiare con noi”, il decoro nasce dall’essere attirati da Lui a quel gesto che nell’intimo chiede il dono totale di sé, a partire proprio dal corpo. Decorosa è la messa in cui io davvero mi arrendo a Cristo e lascio che la mia vita diventi la sua. Questo al di là degli abiti, perché l’abito richiesto è solo la nostra fede amorosa, che quando c’è, da sola trova forme e gesti per esprimere il decoro di questo amore, nel qui e ora in cui si celebra.

Se vale il parallelo di San Giovanni Paolo II che dire di celebrazioni che durano due ore, a volte anche in lingua non corrente, ove l’aspetto estetico e “spettacolare” è così rilevante da far dire che solo a queste condizioni si celebra davvero? Probabilmente è pornografia liturgica. Ma per rovescio allora che dire di una messa che dura quindici minuti, distratta, tirata via e senza attenzione a come si celebra? Probabilmente roba da “marciapiede”.

Nella sessualità i gesti e le parole sono profondamente integrati tra loro, e sono il veicolo necessario del significato di quel gesto. Perciò senza “cura” dei gesti e del rapporto con le parole il significato non passa. Ma nemmeno passa se il significato stesso dell’atto d’amore è identificato con quei gesti e quelle parole solamente, come se tutte le coppie dovessero dire e fare sempre e solo le stesse cose. Lo stesso vale per la liturgia. Se c’è amore, il gesto viene da sè e la sua cura è parte stessa di quell’amore. Curare il gesto e non preoccuparsi, invece, che ci sia amore è un artificio che a Dio non interessa.

vinonuovo