Quella del giardino è forse la migliore immagine del nostro stare la mondo, dell’equilibrio tra natura e cultura – cioè della creazione di un paesaggio. L’Antico Testamento è ricco di immagini che si riferiscono proprio al giardino, tanto vivide quanto dense di significato – a partire dal giardino per eccellenza, quello dell’Eden. Per esempio nel Cantico dei Cantici (2,1-3) ricorre il contrappunto tra la natura incolta (sebbene florida, magnifica e tutt’altro che ostile) e quella plasmata dalla mano dell’uomo: una contrapposizione non conflittuale tra due declinazioni, ugualmente generose, della natura. Gli alberi del giardino offrono ombra, refrigerio e riposo: particolarmente di valore, in quelle terre d’Oriente dove il Cantico fu composto; e offrono frutti, racchiudendo così in sé la soddisfazione delle prime necessità dell’uomo, quella del riparo e quella del cibo. Non sono gli unici bisogni, e infatti il Cantico celebra quello dell’unione tra i due giovani, felicità pienamente compiuta nell’amore. Il ricco tessuto di similitudini naturali del Cantico attesta l’inestricabile relazione che ci lega, come uomini, alla natura; ma può essere letto anche al rovescio, come cioè relazione della natura con gli uomini. Il mito della natura selvaggia, incontaminata, è esso stesso prodotto culturale, in particolare figlio del Romanticismo; quello che la storia ci ha consegnato è invece la plurimillenaria vicenda di una relazione.
Non che il cambiamento, in sé, sia una novità nella storia dell’uomo, anzi. Sappiamo che nell’antichità un clima più fresco consentiva di coltivare estesamente grano, vite e ulivo in Nordafrica; per contro, nell’Alto Medioevo era diventato talmente più caldo da consentire la coltivazione della vite fino all’Inghilterra, e ai Vichinghi di colonizzare la Groenlandia (letteralmente “terra verde”). Viceversa, in età moderna le temperature calarono così bruscamente che a Parigi la Senna gelava regolarmente, e il vino veniva venduto ghiacciato, a blocchi. Quel che c’è di diverso, oggi, è il fatto che il cambiamento si innesta su una società che ha raggiunto livelli di complessità e di interdipendenza mai visti prima, tali da non lasciarci più margini di errore né terre vergini nelle quali ricercare la soluzione a questi errori. Il nostro compito di giardinieri si è fatto inderogabile: anche se non è ancora stato possibile determinare con millimetrica precisione l’incidenza del fattore umano nel riscaldamento globale, è comunque il banale buon senso (che in realtà banale non è mai) a suggerirci di evitare di depredare le risorse naturali, a preferire fonti di energia rinnovabili, a orientare il nostro sviluppo tecnologico verso la ricerca di una sempre maggiore sostenibilità produttiva. E a prepararci a guidare, e non subire, i cambiamenti che inevitabilmente verranno.
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