I disperati dell’Albania lezione indimenticabile

Fu come un esodo biblico. Inaspettato e sconvolgente. Erano le 10 di giovedì 8 agosto 1991, trent’anni fa, quando la prua di una nave affollata di corpi esausti e inquieti squarciò il velo di foschia che limitava il mare oltre il porto di Bari. Sembrava una scena dantesca. A bordo della Vlora, partita da Durazzo la sera prima, c’erano 20mila persone: albanesi assetati di libertà che volevano andare verso “Lamerica”, come nel film girato tre anni dopo da Gianni Amelio.

Un viaggio non programmato, un mercantile preso d’assalto con capitano ed equipaggio costretti con la forza a salpare nonostante un’avaria al motore. Sul ponte, nella stiva, dentro le cabine e in sala macchine, uomini, donne, bambini stipati come animali. «Non c’era spazio nemmeno per una mela», raccontò il comandante Halim Milaqi. La fame, la sete, il caldo atroce e i lunghi silenzi smorzarono presto la gioia della partenza. Qualcuno per cibarsi rubò dello zucchero rimasto dal carico precedente. Ma la gola gli arse di più e gli animi s’accesero. Il cargo si muoveva lentamente, oscillava, col rischio di ribaltarsi se il mare si fosse arrabbiato. E ci mise una notte per attraversare quel breve tratto tra le due sponde dell’Adriatico. Il radar non funzionava. «Italia, Italia, Italia!», gridavano alla vista del litorale pugliese. Ma a Brindisi la guardia costiera li respinse. A marzo, invece, le prime imbarcazioni arrivate anche da Valona le lasciò entrare. Adesso no, erano impreparati ad accoglierne così tanti. Lo sconcerto ci fu anche a Bari ma nessuno ormai poteva più fermare quell’ondata di disperati che fuggivano dalla miseria e da un regime comunista agli ultimi rantoli ma ancora senza alternative. Volevano imparare la democrazia. Volevano lavoro e dignità. Erano 20mila e la “terra promessa” ora ce l’avevano sotto gli occhi. Il comandante forzò la mano: «Abbiamo dei bambini a bordo e dei feriti». Così la Vlora entrò in porto e i più giovani, per arrivare prima sulla banchina, si tuffarono dal ponte o si calarono in acqua bruciandosi le mani scorrendo le cime. Poi scesero gli altri e lo spiazzo del molo San Vito si riempì di folla. Erano disidradati e abbigliati alla meglio. Nella ressa, i più deboli finirono a terra sporcandosi con la polvere del carbone che una nave aveva appena scaricato. Un elicottero della polizia sorvegliava dall’alto quella che sembrava una colonia di formiche impazzite e l’esercito fece una cortina umana per impedire che fuggissero. Il sindaco Enrico Dalfino, davanti a tutti, organizzava i soccorsi insieme al capo dell’opposizione. E anche la gente del posto si mobilitò aiutando la protezione civile che gettava bottiglie d’acqua, pane e scatole di biscotti sopra le teste dei profughi i quali, confinati nel recinto e sotto la canicola, erano ancora in attesa di sapere quale fosse il loro destino. Finché non scoppiò la rivolta e furono tutti trasferiti allo stadio della Vittoria, con pochi bagni, scarso cibo e una serrata vigilanza. Qualche volta però i militari abbassavano il fucile facendo finta di non vedere e così i ragazzini potevano uscire dal campo e procurarsi fuori quello che serviva per sopravvivere. C’era chi non mangiava da un giorno e mezzo e fingeva di stare male per avere una razione in più del magro rancio. Le donne di Bari Vecchia che preparavano le orecchiette davanti all’uscio di casa, mandarono i figli a portare agli albanesi focacce, scagliozzi e lasagne. Ma siccome tra i 20mila c’erano anche i cattivi, in poche ore la situazione diventò ingestibile, con scontri tra gruppi, evasioni e scaramucce con la polizia. E si innescò un conflitto tra governo e autorità locali, ragion di Stato contro solidarietà. E Bari perse. A Roma decisero di «bloccare il flusso e programmare gli aiuti». Così, 18mila furono subito rimpa-triati, il resto riuscì a scappare. Il sogno si spezzò all’improvviso: l’Italia non era quella che avevano visto in televisione. «Sono persone, e la Divina Provvidenza trova i suoi canali anche in questo terremoto per far comprendere alla comunità internazionale che l’immigrazione non è un problema solo italiano »: le parole pronunciate allora dal sindaco Dalfino sono di un’attualità sconcertante. Una risposta severa e tagliente alla tragedia che si consuma ogni giorno nel Mediterraneo, alla politica dei porti chiusi e all’Europa che non vuol sentire. Oggi in Italia vivono 500mila albanesi: muratori, manovali ma anche medici, avvocati e docenti universitari. Sono i figli di quella generazione, perché la Vlora, madre di tutti i “barconi”, ci ha dato una lezione che non possiamo dimenticare.

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A sinistra: la nave Vlora attraccata al porto di Bari l’8 agosto 1991 / Ansa

A destra: i profughi albanesi arrivati a terra / Ansa