Euro2020. La festa nelle piazze riscattate dal buio deserto dei lockdown

«E allora, con ’sto clacson! ». Quando mai succede di sentirsi rimproverati non già per aver suonato ma perché tutti lo fanno, e tu no? D’accordo: c’è chi avrà tardato a prender sonno, l’altra notte, biasimando l’usanza di festeggiare il successo calcistico con un concerto stonato per auto e motorini.

Ma chi si è trovato più o meno casualmente per strada dopo il rigore decisivo timbrato da Jorginho ha impiegato poco a capire che insieme alla gente era scesa in strada una voglia di festeggiare e condividere a lungo repressa. E quando dall’auto strombazzante ferma accanto, nell’unica lunga coda attraverso il centro urbano, è partito l’invito a unirsi al clamore, è sembrato più che naturale fare la propria parte fino in fondo. Forse persino doveroso. È vero che spettacoli di massa simili li abbiamo già vissuti, e che lo spartito ogni volta è sempre uguale.

Ed è altrettanto vero che la fatica emotiva di una partita interminabile, col destino giocato sulla differenza sottilissima tra un tiro in rete o parato, esigeva uno sfogo collettivo. Come quando ti succede qualcosa di impensato e hai fretta di condividerlo con chiunque. Martedì notte c’era però nelle città italiane qualcosa di diverso, di più profondo e urgente, che nella fretta della festa è forse passato inavvertito. E stava nascosto dentro la memoria che tutti portiamo dentro, marchiata a fuoco, di quelle stesse piazze deserte nei giorni dei lockdown, infiniti e sfibranti come una partita che va ai rigori. Le abbiamo incise nell’anima le strade delle nostra città senza il sangue della vita, col pallore di un innaturale vuoto, noi costretti in casa aspettando il tempo di una qualunque festa rimandato a un futuro indefinito. Abbiamo attraversato un tempo in cui le piazze della quotidianità ci sono state interdette come fossimo finiti chissà come su un pianeta inospitale. Ci siamo appena passati, in fondo, e ne portiamo i segni più di quanto riusciamo noi stessi a riconoscere. Per questo la prima occasione di festa collettiva sembra travolgerci ben oltre la conquista di una finale, chi in strada con bandiere e trombe, chi sul divano in famiglia – e non c’è agnostico del calcio che tenga –, altri coinvolgendo parenti lontani, come un ritrovarsi tra reduci sul campo della vita tornato verde Wembley.

Abbiamo sempre saputo che ci saremmo riappropriati di quel che ci veniva sottratto, degli spazi condivisi dai quali il virus ci aveva espulsi come un arbitro esageratamente severo. Nei tratti più duri ci siamo anche detti che ‘andrà tutto bene’, ma abbiamo presto capito che occorreva ben altro che uno slogan consolatorio. Una gioia di tutti serviva, liberante e senza fazioni, come per lavar via il fango di incertezze e paure. La fretta in questo inizio estate di tagliar corto con le regole è il sintomo di una misura ormai colma, di una speranza che tracima e chiede di poterci riportare alla realtà vera, fuori dal tempo sospeso, dentro il futuro di tutti. La pandemia ci ha ricordato – a modo suo – che siamo una comunità. Per questo in cuor nostro non abbiamo dubitato che Jorginho l’avrebbe buttata dentro: figurati se adesso ci fa paura un calcio di rigore.
Avvenire