BIBBIA E LITURGIA. Dalla consolazione alla spoliazione: l’evangelizzatore


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𝐃𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐨𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐩𝐨𝐥𝐢𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞: riusciamo ad avere l’umiltà di interscambiare i ruoli? Forse solo così non ci impadroniremo del ruolo di “inviati”. Chiara Gatti legge per noi la Parola della domenica. (vinonuovo.it)

Oggi la Prima Lettura (Is 66,10-14c) ci fa scivolare dentro al Vangelo (Lc 10,1-12.17-20) con una consolazione particolare: ci apre infatti ad una fluidità che traspare in tante immagini piacevoli.

Scorre la gioia sfavillante “con” e “in” Gerusalemme, scorre il latte nutriente dal suo seno, fluisce un fiume di pace come gloria e, soprattutto, si moltiplicano le carezze della madre che tiene il figlio sulle ginocchia per consolarlo, immagine sempre di Gerusalemme. Il tutto perché la mano del Signore si faccia conoscere ai suoi servi: Dio si fa presente così! Verrebbe subito da chiederci se questa è anche la nostra esperienza di Dio e se siamo consapevoli di tanta fluidità di relazione che Lui vuole con noi.
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In ogni caso, qualunque sia la risposta, oggi rimaniamo inondati e quasi storditi da tanta ricchezza, serena e avvolgente, che ci introduce alle parole di Gesù nel Vangelo. Dopo aver iniziato il suo lungo viaggio verso Gerusalemme, passando dalla Galilea alla Samaria, ora è proprio in questa terra che il Signore manda nuovi messaggeri davanti a sé, come già aveva fatto nel vangelo di domenica scorsa.

Ma questi sono molti di più, settantadue, inviati a due a due con un programma particolare di annuncio e di stile di vita tra la gente. Gesù prospetta qui uno stile fraterno a tutti gli effetti, o meglio sembra tracciarne alcuni tratti salienti. Forse ci lascia abbastanza sorpresi, per la proposta di vita nuova che fa: bisogna partire “disarmati” da sé stessi e ricchi solo di quella pace che, come si diceva all’inizio, è nella Scrittura quasi un sinonimo della consolazione. Chi è in pace, lo è perché è in relazione con il Padre e con i fratelli: infatti Gesù parla di incontrare un “figlio della pace”, quando si entra nelle case visitate. La pace, per come la intende il Signore, ha proprio a che fare con l’essere figli, e quindi conseguentemente fratelli. Se la pace, allora, è un’esperienza da fare, come pure il sentirsi figli, oggi è necessario chiederci se anche noi siamo l’abbiamo fatta quest’esperienza e in quali occasioni.

Perché così possiamo avvertirla come un dono e un compito insieme, e tutto questo vangelo ci parla di ciò. Perché dono? Per prima cosa perché la messe è già abbondante per generosità del Padre che ci ricolma di beni, ed i messaggeri, che il Signore manda, devono pronunciare questa frase “Pace a questa casa!”, augurio non affatto formale, perché regalato da Lui come prima presentazione. E singolarmente questa pace trova spazio solo in chi sa accoglierla, quasi Gesù non voglia che cada nel vuoto, ma venga custodita da mano d’uomini, tanto che ritorni nelle mani di chi l’ha augurata se non trova accoglienza. Il dono poi, sempre più avanti nel brano, consisterà anche nella gioia provata da parte degli inviati, che hanno ricevuto il potere di compiere grandi gesti portatori di bene, come sottomettere i demoni, e camminare sopra la potenza del nemico.

Eppure spesso il dono è incartato di carta molto fragile, la vanagloria, ed è per questo che è facile impossessarsene. Gesù li aiuta ancora, ancora una volta, li aiuta a ridimensionarsi nel capire che il dono è sempre ricevuto e spesso va riconsegnato ad altri. Ci si può tenere solo il proprio nome scritto nei cieli, che deriva dall’aver tentato di svolgere il proprio “compito”, cioè il ruolo avuto nel costruire la pace. Viene da chiedersi, forse con un certo imbarazzo, se sia anche la nostra unica ambizione quello di aver scritto il nome nei cieli.

Eppure questo vangelo ci aiuta a trovare una soluzione anche per questo: si deve avere la forza di non partire pieni delle proprie sicurezze materiali (borsa, sacca e sandali) e spirituali (il saluto nostalgico per via a chi rimane). Forse è tutta questa spogliazione la ricetta che fa accettare come vera la gioia di un nome scritto nei cieli: si deve saper condividere la vita della casa in cui si abita, raffigurata in un cibo accettato comunque, aldilà dei propri gusti, senza cedere alla tentazione di cambiare casa. Si deve avere la forza di scuotere la polvere dai sandali, lasciandola in quei luoghi dove non c’è stata accoglienza dell’annuncio, anche se il regno di Dio è vicino per tutti, e questo va detto sempre.

Ci sono tempi diversi, forse, per accogliere questo annuncio di vita. Ci consola però, “in Gerusalemme”, capire, ancora una volta, che la pace nasce solo dal vivere come fratelli, in un gioco di vita dove ci scambiamo continuamente il ruolo di chi annuncia e di chi riceve l’annuncio. Perché da tutti può arrivare un gesto o una parola degni del Regno di Dio. Riusciamo ad averla questa umiltà di interscambiare i ruoli? Forse solo così non ci impadroniremo del ruolo di “inviati”.
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