L’UP Santi Crisanto e Daria saluta il parroco don Daniele Casini e lo accompagna all’ingresso della sua nuova UP

Domenica 6 Ottobre 2019

ore 11 S. Messa in Cattedrale e Saluto dell’UP (a seguire rinfresco nel Salone del Vescovado)

Martedì 9 Ottobre 2019

ore 19 S. Messa in S. Stefano e Saluto degli Operatori Pastorali (a seguire Cena insieme nei locali parrocchiali)

Venerdì 11 Ottobre 2019

ore 20.30 S. Messa a Pieve Modolena – Ingresso di don Daniele nella sua nuova UP

I principali appuntamenti dell’anno pastorale nell’Agenda Diocesana

A cura dell’Ufficio Liturgico mettiamo a disposizione l’Agenda Diocesana 2019/20; si tratta dei principali appuntamenti diocesani che caratterizzeranno questo anno pastorale.
Dalla legenda iniziale, sono stati contrasseganti con colori differenti i momenti in cui sarà presente il Vescovo Massimo, quelli riguardanti gli uffici pastorali, gli ingressi dei nuovi parroci, e, ultimo, altri appuntamenti che non rientrano nelle precedenti tre categorie.

SCARICA L’AGENDA DIOCESANA

Un ringraziamento particolare a chi ha prestato tempo, energie e pensiero a questo prezioso lavoro.

Allegati

laliberta.info

STUDI Formazione: ufficiale il protocollo d’intesa tra Unimore e Istituto superiore di scienze religiose dell’Emilia

Diventa ufficiale il protocollo d’intesa tra l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia (Unimore) e l’Istituto superiore di scienze religiose dell’Emilia (Issre) per attività didattiche, di studio e ricerca, dopo l’ultima approvazione del Consiglio di Facoltà della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, a cui è collegato l’Issre, istituzione accademica ecclesiastica promossa dalle diocesi emiliane (Modena-Nonantola, Carpi, Reggio Emilia-Guastalla, Parma, Fidenza e Piacenza-Bobbio) con sede a Modena e polo formativo a Parma, che rilascia i titoli di laurea triennale in Scienze religiose e laurea magistrale in Scienze religiose.
L’impegno di Unimore nell’attivare una politica sistematica di collaborazione tra il mondo accademico e le realtà del territorio per raccordare le attività formative con le esigenze del mondo produttivo ha intercettato l’attenzione dell’Issre di affrontare lo studio della teologia e delle scienze religiose in maniera dialogica con le scienze umane, in particolare con il campo dell’educazione, dell’istruzione, dell’educazione valoriale, del sapere storico, dei beni culturali, della conoscenza storico-artistica.
Alla conferenza stampa di domani, giovedì 19 settembre, alle ore 9, nel salone d’onore dell’arcivescovado, saranno presenti mons. Castellucci, arcivescovo-abate di Modena-Nonantola, il direttore dell’Issre, Fabrizio Rinaldi, e Vincenzo Pacillo, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Unimore.

agensir

New York. Onu, i ragazzi cambiano clima. Greta: siamo inarrestabili

Climate Action Summit, con i delegati di 63 Paesi. Parlerà anche l’attivista svedese Greta (assente Trump), che sabato a New York è stata l’anima dell’incontro dei giovani per il clima

Greta con i dimostranti a New York (Lapresse)

Greta con i dimostranti a New York (Lapresse)

«Noi giovani siamo inarrestabili». Compita ma per niente intimorita, a dispetto dei suoi 16 anni, Greta Thunberg, ha espugnato l’Onu con il “Youth climate summit”. E da quel palcoscenico mondiale ha lanciato il suoi messaggio: è ora di agire, è giunto il tempo della responsabilità. «Milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto giovani, hanno marciato e chiesto vere azioni sul clima. Abbiamo mostrato che siamo uniti», ha detto la ragazzina svedese diventata il volto del movimento ambientalista. «Spero sia un successo, voglio ringraziare il segretario generale per aver organizzato questo evento e aver invitato così tanti giovani attivisti», ha proseguito, anticipando che parlerà anche nella sala dell’Assemblea Generale, lunedì, per il Climate Action Summit.

Sembra proprio che la staffetta sia passata a chi è venuto al mondo in questo millennio. Accanto a Greta, nello storico incontro al Palazzo di Vetro di New York, erano presenti nuove leve da tutto il mondo, compresa la rappresentante italiana dei “Friday for Future” Federica Gasbarro. Una vera e propria “onda” di volti nuovi e di incredibile energia incanalata in una giornata densa di idee, ma soprattutto di determinazione a prendere in mano la difficile sfida di spingere le potenze mondiali ad agire legislativamente.

avvenire

Senza telefonino si può stare. “Connessi” o “sconnessi” non è il vero problema

Molti genitori mi chiedono come devono comportarsi coi loro figli quando li vedono sempre collegati in Rete. Hanno paura che si trasformino in Hikikomori, i ragazzi chiusi in camera giorno e notte da soli di fronte al computer: tragedie vere e proprie sulle quali non si può scherzare. Forse anche per reagire a questi casi estremi stanno fiorendo esperimenti di sconnessioni temporali che alcuni giudicano necessari, altri reputano dannosi. Il tema è più complesso di quel che appare: bastasse un precetto per capire cosa fare, sarebbe tutto semplice. Ecco perché a mio avviso la questione non si può ridurre al dilemma: cellulare sì, cellulare no; andare sui monti o non togliersi mai gli auricolari. Dipende dai casi, dai contesti, dalle situazioni. Dalle fasi dell’esistenza. Dai caratteri, dalle sensibilità, dai momenti della vita, dagli ambienti. Dalle storie che abbiamo alle spalle.

Certo non dovremmo mai disertare la relazione personale, l’incontro diretto. Se non tocchiamo con mano, se non andiamo all’appuntamento, se rinunciamo alla verifica concreta, finiremo per relegare noi stessi e gli altri a una dimensione virtuale. È tuttavia indubbio che credere di trovare la felicità limitandoci a camminare a piedi nudi sui prati, liberi dalle mail che quotidianamente ci assediano, potrebbe risultare altrettanto illusorio.

La rivoluzione digitale ha cambiato il pensiero della realtà. Cose grosse che chiamano in causa il modo di leggere, di percepire il paesaggio, di concepire gli affetti. Troppo facile credere di cavarsela lasciando a casa lo smartphone. Questo non vuol dire che il tempo della disconnessione non possa risultare utile: ad esempio, sarebbe simpatico e istruttivo mostrare a un bambino cresciuto sugli schermi com’era la vita al tempo in cui il telefono restava attaccato alla parete, non te lo portavi dietro ed esistevano apposite cabine sulla strada dove si poteva chiamare chiunque sì, a patto di usare speciali gettoni color rame spezzati da una linea in mezzo.

LEGGI ANCHE Senza web e telefonino oggi non si può stare di Ferdinando Camon

Che mondo, ragazzi! Non saremo più gli stessi di un tempo, d’accordo, ma non rinunceremo al desiderio di essere migliori, qui e ora, non chissà quando e dove. Prendiamo gli strumenti che abbiamo a disposizione, apprezziamoli ma forgiamoli secondo i nostri valori. Non diventiamo schiavi del nuovo sistema, proviamo a dominarlo, senza immaginare che ciò possa davvero accadere. Ripristiniamo le gerarchie culturali nel grande mare informatico e, soprattutto, rifondiamo l’esperienza. L’uso delle nuove tecnologie può essere rischioso in due sensi: credere che l’informazione coincida con la conoscenza e pensare alla libertà come al superamento del limite. Al contrario, se vuoi approfondire un argomento devi impegnarti e studiare, verificando le fonti senza imboccare troppe scorciatoie: in questo senso nulla è cambiato. Inoltre, se commetti un danno, devi risarcire la vittima. Tirare il sasso e nascondere la mano, lo sappiamo, è la moda che oggi i social consentono di praticare. Si tratta di un fondale fangoso in cui annaspano in tanti.

Tutto ciò andrebbe spiegato ai più giovani non in modo teorico e neppure sperimentale. Con loro dovremmo fare dei patti, stabilendo insieme le condizioni per rispettarli. Ciò che conta nel rapporto educativo è l’ingranaggio scoperto, non il trucco o, peggio ancora, l’inganno, anche se fosse a fin di bene.

Connessi o sconnessi: magari fosse soltanto questo il problema! Dobbiamo capire prima cosa significa vivere con consapevolezza questa nostra finitudine, l’unica che abbiamo.

Avvenire

Cellulari ai ragazzi? Perché sì. Senza web e telefonino oggi non si può stare

S’è concluso da pochi giorni sulle Alpi bellunesi un esperimento che raccoglie unanimi consensi, ma che a me invece pare sbagliato. Sono stati radunati in un rifugio della valle agordina, all’altezza di duemila metri, una decina di giovani, provenienti da Italia, Romania, Inghilterra, Slovacchia, metà ragazzi e metà ragazze, col compito di stare insieme cinque giorni, spesati, senza mai usare telefonino, ipad, computer. Insomma, scollegandosi dal mondo. Ce l’han fatta, come quasi tutti i 429 liceali a emiliani di Vignola, che si sottoposero alla prova per tre giorni nel marzo di quest’anno. Coro di elogi, oggi più di ieri. Si dice che si sono ripuliti il cervello. Adesso i dieci ripeteranno l’esperimento a casa un giorno alla settimana. Secondo me, quell’esperienza è un errore.

A me è capitato di trovarmi all’estero, senza media a disposizione, e dunque di ignorare cosa succedeva nella mia patria, per un paio di settimane, ed è stato quando succedeva la strage di Capaci. Ero in Tunisia, ho saputo tutto al rientro, dalla radio della navetta dell’aeroporto. M’è sembrato come se la mia patria fosse stata in guerra, e io mi fossi trovato imboscato, da disertore. Il popolo a cui appartenevo pativa un lutto devastante, ma io non lo sentivo per ignoranza. Ero estraneo al mio popolo. Una settimana senza connessione è una settimana separata dagli altri e dal mondo, una settimana da naufraghi sperduti in un’isola deserta. Il telefonino va usato sapendolo usare, è sbagliato non usarlo e non saperlo usare.

LEGGI ANCHE “Connessi” o “sconnessi” non è il vero problema di Eraldo Affinati

Nel corso della giornata, e tanto più della settimana, non puoi stare senza telefonino o senza giornale, è come stare separato dal mondo. Il mondo lavora per tutti e dunque anche per te, tu devi raccogliere i risultati del suo lavoro, se non leggi i giornali o non usi il telefonino non raccogli quei risultati, è come se il mondo lavorasse per gli altri ma non per te. È quel che è successo a questi dieci ragazzi europei riuniti in un rifugio delle Alpi bellunesi, che tra l’altro hanno già di per sé una pessima connessione. Per loro in quei giorni il mondo e l’umanità si son fermati. La Storia non ha camminato. Noi siamo immersi nel fiume della Storia, che scorrendo ci porta avanti con sé. Quei ragazzi sono usciti dal fiume e son rimasti a riva, immobili. Adesso, tornati a casa e riaccesi telefonini e computer, è come se rientrassero nel fiume, ma la corrente che han perso non la recuperano più. Sì, lo so, il telefonino a scuola è dannoso, perché il ragazzo sta con metà cervello attenta a quel che dice il professore, e l’altra metà attenta al cellulare in tasca, che non vibri. L’ho detto altre volte e lo ripeto qui: il telefonino a scuola andrebbe consegnato o spento prima delle lezioni. Ma pretendere che venga lasciato a casa chiuso in un cassetto dal lunedì al sabato è un abuso.

C’è un ragazzo dalla Slovacchia, uno dalla Romania e uno dall’Inghilterra tra i dieci radunati sulle Alpi bellunesi. In quei giorni non potevano parlare con amici né consultare siti d’informazione. Si creano i nuovi europei, così? I nuovi occidentali? No, i nuovi qualunquisti. Disinformati e indifferenti. Ecco perché trovo dannoso e pericoloso l’esperimento bellunese, e spero che non prenda piede.

avvenire

Il Papa alla stampa cattolica: voce della coscienza del giornalismo

I richiami di Francesco ricevendo una delegazione di giornalisti Ucsi: “Non abbiate paura di rovesciare l’ordine delle notizie”. “Liberi di fronte all’audience. Smascherate parole false e distruttive”

Il Papa alla stampa cattolica: voce della coscienza del giornalismo

Il giornalista – che è il cronista della storia – è chiamato a ricostruire la memoria dei fatti, a lavorare per la coesione sociale, a dire la verità ad ogni costo: c’è anche una ‘parresia’ del giornalista, sempre rispettosa, mai arrogante”. Lo ha sottolineato il Papa ricevendo l’Ucsi, l’Unione Cattolica Stampa Italiana nel suo 60° anniversario.

“Per rinnovare la vostra sintonia con il magistero della Chiesa – ha sollecitato Francesco -, vi esorto a essere voce della coscienza di un giornalismo capace di distinguere il bene dal malele scelte umane da quelle disumane. Perché oggi c’è una mescolanza lì che non si distingue, voi dovete aiutare in questo”. Questo significa, ha proseguito, “anche essere liberi di fronte all’audience: parlare con lo stile evangelico: ‘sì, sì’, ‘no, no’, perché il di più viene dal maligno”.

Per il Papa, “la comunicazione ha bisogno di parole vere in mezzo a tante parole vuote. E in questo avete una grande responsabilità: le vostre parole raccontano il mondo e lo modellano, i vostri racconti possono generare spazi di libertà o di schiavitù, di responsabilità o di dipendenza dal potere”.

“Quante volte il giornalista vuol andare su questa strada, ma ha dietro di sé una direzione editoriale che dice ‘no, questo non si pubblica, questo sì, questo no, e si passa tutta quella verità nell’alambicco delle convenienze finanziarie della direzione editoriale. E finisci comunicando quello che non è vero, che non è bello e che non è buono”, ha sottolineato il Pontefice a braccio. “Da molti vostri predecessori – ha quindi ricordato papa Francesco – avete imparato che solo con l’uso di parole di pace, di giustizia e di solidarietà, rese credibili da una testimonianza coerente, si possono costruire società più giuste e solidali. Purtroppo però vale anche il contrario. Possiate dare il vostro contributo per smascherare le parole false e distruttive“.

Secondo papa Francesco, “nell’era del web il compito del giornalista è identificare le fonti credibili, contestualizzarle, interpretarle e gerarchizzarle. Porto spesso questo esempio: una persona muore assiderata per la strada, e non fa notizia; la Borsa ribassa di due punti, e tutte le agenzie ne parlano. Qualcosa non funziona”.

Non abbiate paura di rovesciare l’ordine delle notizie, per dar voce a chi non ce l’ha – ha aggiunto il Papa -; di raccontare le ‘buone notizie’ che generano amicizia sociale, non raccontare favole, no, ma buon notizie reali; di costruire comunità di pensiero e di vita capaci di leggere i segni dei tempi”. 

“Vi ringrazio perché già vi sforzate di lavorare per questo, anche con documenti come la Laudato sì, che non è un’enciclica ecologica, ma sociale, e promuove un nuovo modello di sviluppo umano integrale: voi cooperate a farlo diventare cultura condivisa, in alternativa a sistemi nei quali si è costretti a ridurre tutto al consumo”, ha concluso.


L’ALTRO DISCORSO AI DIPENDENTI DEL DICASTERO DELLA COMUNICAZIONE

“Passare dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo”. È questo, per il Papa, il segreto di una comunicazione “autenticamente cristiana”. Nel discorso a braccio rivolo ai membri del Dicastero per la comunicazione, Francesco ha denunciato come la “cultura” dell’aggettivo “è entrata nella Chiesa, e noi tutti dimentichiamo di essere fratelli”. “La vostra comunicazione sia austera, ma bella”, l’antidoto proposto dal Papa, secondo il quale “la bellezza non è rococò, si manifesta a se stessa, dà se stessa il sostantivo”.

IL TESTO INTEGRALE

Essere comunicatori cristiani, in questa prospettiva, significa “comunicare con la testimonianzacomunicare coinvolgendosi nella comunicazione, comunicare con i sostantivi, le cose, comunicare da martiri, cioè da testimoni di Cristo. Imparare il linguaggio dei martiri e degli apostoli”. Francesco ha pronunciato inoltre un “no” alla “rassegnazione che tante volte entra nel cuore dei cristiani: vediamo il mondo in modo pagano”. “L’aria di mondanità non è una cosa nuova del XXI secolo, c’è sempre questo stato pericolo”, ha spiegato il Papa mettendo in guardia ancora una volta da questa “tentazione”. “Non avere vergogna di essere pochi, non avere paura del futuro della Chiesa”, l’invito: “Siamo una chiesa di pochi, come il lievito. La rassegnazione, la sconfitta culturale viene dal cattivo spirito, la lamentela della rassegnazione”. “Siamo pochi si ma con la voglia di ‘missionare’, di fare vedere agli altri chi siamo con la testimonianza”, l’esortazione a non avere paura, sulla scorta di San Francesco, che mandava i suoi frati a predicare dicendo loro: “Predicate il Vangelo, e se fosse necessario anche con le parole”.

avvenire

Compassione

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Faccio lo psichiatra da quasi 40 anni, psichiatra di strada, direi da marciapiede, essendomi avviato su questo cammino proprio all’interno di un movimento di restituzione della follia ai luoghi della vita, a quella società che aveva scelto di liberarsi del male volgendo lo sguardo altrove, confinando la follia in cupi contenitori di disperazione.

Mi sto avviando a concludere il mio percorso istituzionale e un brusio accompagna i frequenti risvegli notturni che questa impegnativa stagione della vita mi sta regalando. Il brusio condensa l’affollarsi di tanti incontri, storie, volti, riflessioni, strampalate quanto irriducibili declinazioni del vivere che la professione mi ha dato il privilegio di incrociare.

C’è un’efficace espressione dialettale che rappresenta questo pastoso fluire della memoria: sono le “messe basse”, il brusio del mondo dolente, i racconti sommessi dei disperati, interrotto da inaspettati alleluia, da risate contagiose: “Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi sono in fiore”, diceva il poeta giapponese.

L’assidua frequentazione di persone sofferenti mi ha insegnato che i modi di narrare la sofferenza, per chi sceglie – o è talvolta costretto – a raccontare i propri guai ad uno psichiatra, dissimulano spesso il cuore dei problemi, quasi che un’eccessiva trasparenza possa assomigliare da subito a una resa.

Ho pertanto sviluppato una sorta di trucco, specie nei primi colloqui, che consiste nell’abbassare l’attenzione (e con quella il pregiudizio che proviene dal fin troppo facile riconoscimento deipattern sindromici) per lasciare che i guizzi di senso che riescono a sfuggire alle mimetizzazioni del dolore possano arrivarmi e gettare una prima luce, per quanto fioca, sul sentiero, spesso angusto, della ricerca di un incontro con l’Altro. Tali lampi di senso si danno talvolta quasi come aporie del discorso, come scarti che non infrequentemente compaiono sulla porta, al momento del commiato: «… ah dottore, dimenticavo…».

Ho pertanto iniziato a leggere il bellissimo libro di Erminio Gius con questa disposizione, lasciandomi trasportare dalla sua voce riflessiva, dalle sue discese a corda doppia negli anfratti della profondità, senza troppo fermarmi ad ogni abbassamento dell’altimetro, così da evitare l’angoscia ma anche per mettere a frutto questa sorta di “trucco del mestiere”.

Così un primo soprassalto della coscienza l’ho avvertito quando, a pagina 16, il professor Gius ci confessa il desiderio (la necessità?) di «abitare nel silenzio» «la soggettiva inquietudine esistenziale».

Lo ringrazio per questa confessione, senza la quale, credo, avrei fatto molta fatica a procedere, per almeno tre motivi:

  1. Per il timore (rivelatosi poi del tutto infondato) di trovarmi di fronte ad un testo di psicologia del profondo, timore che si collega ad una sempre più consistente resistenza a dedicarmi a letture che si avvitino in psicologismi intimistici, a riflessioni teoriche che pretendano di esaurire il senso della complessità con ingrandimenti focali su particolarismi scarsamente illuminanti.
  2. Per un bisogno, di direzione quasi opposta e sempre più presente in questa fase della vita, di ricondurre le tante esperienze, i tanti incontri, i tanti frammenti di senso, all’interno di un orizzonte che restituisca a questi valore di essenza, sguardo ampio, visione di sintesi, non per chiudere nuovamente il senso dentro confini sia pure più ampi, ma per rispondere a domande che mi porto dietro da sempre, domande che hanno continuamente rimbalzato sulle pareti di un esercizio provvisorio dell’incontro con l’Altro: per chi? Dentro quale orizzonte di senso? O, più politicamente: «al servizio di quale re, briccone?» (Shakespeare,Enrico IV).
  3. Terzo, e non ultimo. Ho affrontato questo compito, questa gentilissima quanto inaspettata richiesta del prof. Gius con un timore reverenziale, direi, senza tanti giri di parole, con un vissuto di inadeguatezza. Il prof. Gius non ha bisogno di presentazioni, è uomo di grande cultura ed esperienza, terapeuta e profondo conoscitore delle dottrine psicoanalitiche, raffinato teologo, uomo di scienza e uomo di fede.

Io no, non sono nulla di tutto ciò, sono, come dichiarato in premessa, uno psichiatra di strada, un frequentatore assiduo di poveri cristi.

Quella confessione iniziale, quell’ammissione di «inquietudine esistenziale», quella necessità di «abitare il silenzio» me lo ha fatto sentire vicino, fraterno, perché, come diceva Saba, «… il dolore è eterno, ha una voce e non varia» e in essa «si querela ogni altro male, ogni altra vita».

Forse per questo, mi sono detto, il professor Gius mi ha chiesto di presentare la sua ultima fatica, una fatica che assomiglia a un testamento.

Forse la sua generosa richiesta sottende il bisogno di chiedermi: “Torna?”, “Ci può stare?”, “È compatibile con l’esperienza di uno psichiatra di strada?”.

So che l’idea di rivolgersi al sottoscritto gli è venuta ascoltando la presentazione che alcuni mesi fa ho fatto del bel libro del comune amico Fabio Cembrani. Forse, mi sono detto, ha avvertito che quell’inquietudine esistenziale, quel bisogno di abitare il silenzio, ci accomuna.

In questo orizzonte mi sono mosso nella lettura di queste pagine profonde, dense, illuminanti ma a tratti anche difficili per chi, come me, non sempre ha gli strumenti per apprezzarne sino in fondo i rimandi teorici.

Non importa mi sono detto, forse non è questo che chiede a me.

Il tema è sempre, inevitabilmente, quello dell’incontro con l’Altro, con i suoi volti che narrano del destino di noi uomini, gettati in uno spazio e in un tempo, capaci di compassione ma anche di fare il male, costretti a subirlo e capaci di ripararlo, attraverso processi analoghi a quello mirabilmente rappresentato nella parabola del Figlio prodigo, alla quale egli dedica la prima parte del libro. In questa, com’è noto, il figlio minore viene riaccolto dal padre/madre in un abbraccio ad occhi chiusi, così come rappresentato nel celebre e più volte evocato dipinto di Rembrandt, icona dello ”spazio mentale dell’alterità”, metafora della potenza dell’atto riparativo.

L’incontro c’è dove c’è silenzio interiore, dove i nostri apparati percettivi, motori di distrazione, lasciano spazio ad una prossimità che richiama la fusione uterina senza per questo rieditarla. Zona fragile, delicata, quasi pericolosa, come più volte richiamato nel testo. Spazio in cui occorre sapersi muovere all’interno di un paradosso: vicinanza prossima alla fusione che deve riuscire però a marcare una differenza, a innescare un processo riparativo che non può che essere relazionale (trinitario nella parabola del figlio prodigo e nelle successive riflessioni che l’autore fa sul tema dei processi di individuazione dell’adolescente e sulle dinamiche del distacco dalla coppia genitoriale).

In gioco, ovviamente, non c’è solo l’Altro, c’è anche l’Altro che è in noi, c’è la nostra storia, il nostro dolore, la nostra resistenza ad affidarci, le nostre angosce e le nostre contraddizioni, consce e inconsce. «Perdere se stessi per l’altro, permettendo che questi abbia a non essere la conferma di noi stessi, il premio del nostro atto di donazione, costituisce lo spazio psicologico dell’alterità, della dialettica amorosa e, quindi, della bellezza estetica del dono che salva». E’ Gius che parla.

Questo esercizio dell’atto riparativo, compassionevole, ha radici profondamente viscerali, emotive e, nel contempo, richiede una capacità di muoversi in quei territori senza farsi travolgere. «Bella gratitudine per te – dice il pappagallo a Mary Poppins –. non ti hanno neppure salutato». E Mary Poppins, in uno slancio erotico davvero intramontabile, risponde: «Le persone praticamente perfette non si lasciano confondere dai sentimenti».

Mi perdonerete per aver citato un’icona pop in un contesto così serio, ma, come vi ho detto in premessa, ho frequentato tutta la vita poveri cristi e la mia è necessariamente una sensibilitàpop; d’altro canto, occorre riconoscere che questo celebre finale del film di Disney dice una cosa molto importante, che a mio avviso traduce perfettamente ciò che Erminio Gius affronta con grande profondità, spingendosi addirittura a indagare i lati oscuri della compassione, tema fondamentale in relazione ai percorsi formativi degli aspiranti terapeuti.

L’autore avvia infatti questa complessa e delicata indagine con una citazione di Nietzsche, che recita: «Nella dorata guaina della compassione si nasconde talvolta il pugnale dell’invidia» e non credo che la citazione sia stata scelta con leggerezza. Due elementi linguistici colpiscono subito: l’uso insolito del termine “guaina” e la parola “invidia”.

Il termine guaina (buccia, rivestimento esterno) segnala molto efficacemente un rischio immanente alle professioni di aiuto e più in generale – mi sia concesso dirlo – ai professionisti della compassione. A questi Erminio Gius si riferisce indagando con rispetto ma anche con precisione le derive «tossicomaniche» (il termine, efficacissimo, è suo) dell’esercizio della compassione.

Il termine “invidia” viene indagato dal professor Gius con grande precisione e conoscenza dei meccanismi psicodinamici che la sottendono. Lo fa con garbo ma anche con determinazione, consapevole, credo, che il rovescio interrato della compassione è l’ostilità che scaturisce dalla disidentificazione che la prossimità con l’Altro provoca in noi e altrettanto consapevole dei risvolti autoriparativi di ogni intenzione di cura: se il mondo interno (del terapeuta in questo caso) è troppo devastato, l’atto compassionevole dev’essere reiterato in una sorta di coazione all’eroismo poiché la riparazione non può mai essere risolutiva una volta per tutte. Proprio questo mondo interno piagato (del terapeuta) impedisce a questi di provare gioia trasformando l’impulso a gioire in un pericoloso agguato della vita che chiede di dispiegarsi trascinandolo in territori incerti, non controllati. L’invidia riguarda la capacità dell’Altro di utilizzare la sofferenza come deterrente alla gioia, e l’identificazione proiettiva (sempre del terapeuta) tenderà dunque a consegnare il paziente alla necessità di patire.

Questo è a mio avviso un tema cruciale, troppo poco indagato o affrontato non solo all’interno di percorsi individuali di formazione/terapia ma più in generale rispetto alle questioni politiche, globali, che interrogano le coscienze di chi non ha ancora deposto le armi del pensiero rispetto all’inflazione dei paradigmi semplificati.

A proposito di questa dimensione globale, politica, direi antropologica, che spesso emerge dalle dense pagine del libro, mirabili mi sono parse le riflessioni sui processi di differenziazione/individuazione – sempre in riferimento alla parabola del figlio prodigo – che il professor Gius dipana rispetto alla figura del figlio maggiore, da egli definito «attore principale» della stessa.

Il figlio maggiore, quello che con la sua condotta iperadattiva riteneva di aver diritto ad una considerazione speciale del padre, quello che reagisce con fastidio, ostilità, all’accoglienza che quest’ultimo riserva al ritrovato figlio minore.

Questi, avendo dissipato tutte le sostanze con prostitute, non meritava, a dire del fratello maggiore, di essere riaccolto nell’abbraccio amoroso e compassionevole del padre.

Il figlio maggiore, dipinto da Rembrandt nella penombra, con fissità attonita, livido e imbalsamato nella sua «coesione difensiva all’ordine familiare», diviene metafora illuminante di processi, oggi drammaticamente attuali, di forte e ricercata appartenenza ad un gruppo in grado di costellare una sorta di unità superindividuale, un baluardo alla percepita minaccia all’integrità delle persone che lo compongono.

È il pensiero stereotipato che appiattisce le coscienze, il bisogno di dipendenza che si traduce in ricerca di una benevolenza che diviene legalismo: quel “legalismo” – afferma Gius – che «… ipostatizza il soggetto all’interno di una realtà autoreferenziale che non ha aperture per il desiderio».

Interessante appare il gioco etimologico: la considerazione (cum-sidera) da parte del padre al posto del desiderio (de-sidera). Da una parte, la triste certezza di un futuro già scritto nelle stelle. Dall’altra, la vaga inquietudine della notte senza stelle che dispiega il desiderio.

In queste brevi note, che hanno l’unico scopo di sollevare interesse e curiosità rispetto a un testo che merita di essere letto e riletto, ho arbitrariamente raccolto solo alcune piccole tracce all’interno dell’immenso patrimonio di ricerca e approfondimenti che il professor Gius ci regala. Ciò è in parte legato al setting di una presentazione ma anche, e forse soprattutto, alla mia dichiarata difficoltà a seguirlo in ogni luogo, troppo spesso per personali lacune teoretiche che non ho difficoltà ad ammettere.

Nell’ultimo capitolo, quello che sembrerebbe condensare una sorta di lascito spirituale, egli riesce a disegnare lo scenario di un orizzonte futuro, una riflessione sulla responsabilità rispetto ai destini del pianeta, un grido di dolore rispetto ai tanti poveri, emarginati, extracomunitari, profughi, minoranze culturali, linguistiche e religiose che presentano il volto di una sofferenza universale e chiedono aiuto, compassione.

Questa riflessione fa esplicito e frequente riferimento alle prospettive espresse dal teologo tedesco Metz e, in particolare, alla sua proposta, eversiva per questi tempi, di attribuire a coloro che soffrono ingiustamente il valore di Autorità nella quale radicare un “ethos globale”: la pluralità e la complessità delle relazioni umane in vece del consenso universale, un’antropologia “fragile” in grado di contrastare il potere erosivo della tecnica rispetto all’etica, un’epistemologia “debole” in cui la compassione assurgerebbe ad autorità politica mondiale.

Pagine illuminanti, coraggiose, pregne di una visionarietà che non rinuncia a prefigurare nel u-topos dell’utopia la terra promessa che può salvarci.

Erminio GiusCompassione. Bibbia e psicanalisi per uno studio della società, EDB, Bologna 2019, pp. 224, € 18,50. ISBN 9788810560198