Tema del Messaggio del Santo Padre Francesco per la 54.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

Questo il tema che il Santo Padre Francesco ha scelto per la 54Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che si celebra nel 2020:

Italiano

“Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria” (Es 10,2). La vita si fa storia.

Con la scelta di questo tema, tratto da un passo del Libro dell’Esodo, Papa Francesco sottolinea come sia particolarmente prezioso, nella comunicazione, il patrimonio della memoria. Tante volte il Papa ha sottolineato che non c’è futuro senza radicamento nella storia vissuta. E ci ha aiutato a comprendere che la memoria non va considerata come un “corpo statico”, ma piuttosto una “realtà dinamica”. Attraverso la memoria avviene la consegna di storie, speranze, sogni ed esperienze da una generazione ad un’altra.

Il tema della prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali ci ricorda inoltre che ogni racconto nasce dalla vita, dall’incontro con l’altro. La comunicazione è chiamata dunque a mettere in connessione, attraverso il racconto, la memoria con la vita. Gesù faceva ricorso alle parabole per comunicare la forza vitale del Regno di Dio, lasciando agli ascoltatori la libertà di accogliere questi racconti e riferirli anche a sé stessi. La forza di una storia si esprime nella capacità di generare un cambiamento. Un racconto esemplare ha una forza trasformativa. Lo sperimentiamo quando ci confrontiamo, attraverso il racconto, con le vite dei santi. Un punto che, ultimamente, il Santo Padre ha ripreso rivolgendosi al Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, quando ha esortato a comunicare la “grande ricchezza” offerta dalla testimonianza di vita dei martiri.

Ancora una volta, al centro della riflessione, il Pontefice pone la persona con le sue relazioni e la sua innata capacità di comunicare. Il Papa chiede a tutti, nessuno escluso, di far fruttare questo talento: fare della comunicazione uno strumento per costruire ponti, per unire e per condividere la bellezza dell’essere fratelli in un tempo segnato da contrasti e divisioni.

Vaticano Donne chiesa mondo: Forti della nostra debolezza

L’Osservatore Romano – donne chiesa mondo

Una donna con corazza ed elmo che tiene a bada un leone. Lo scudo accanto alla spada. Una torre sulla roccia che resiste, incrollabile, a forti raffiche di vento. Questo complesso di immagini evoca qualcosa che accumuna donne e uomini di qualsivoglia provenienza culturale o etnica: la virtù della “fortezza”. Il vocabolo è desueto, ma quando capita di incontrarlo ci suggerisce ancora, seppur vagamente, quella disposizione d’animo che si oppone alla paura e non si lascia piegare da forze distruttive.
Oggi si preferisce comunque riflettere su aspetti particolari dell’agire correlati alla fortezza piuttosto che sul significato della fortezza in sé. 
Parliamo cioè più volentieri di resistenza, di coraggio o — per usare un termine assai più alla moda — di resilienza, ovvero della capacità di sopravvivere e di reagire alle avversità con spirito di adattamento, talvolta anche con ironia. Se praticati all’insegna di una ricerca costante del bene, tutti questi comportamenti si rivelano certo fondanti per vivere una “buona vita” a livello sociale, politico e personale. Resistenza, resilienza, coraggio e fermezza sono infatti armi nelle nostre mani per contrastare la prepotenza, il cinismo e l’arroganza. Non solo. Comportamenti di tal sorta arrivano a influenzare positivamente chi ne è testimone. 
I presupposti di questi comportamenti non coincidono però sempre — o almeno non appieno — con il fondamento della fortezza intesa in prospettiva cristiana. In quest’ultimo caso, infatti, la fortezza si svela nella sua compiutezza solo quando viene illuminata dalla fede. Quando, cioè, consapevoli della nostra debolezza, ci si affida a un Dio la cui infinita potenza si rivela nella vulnerabilità della croce: un Dio che proprio in virtù dell’essersi reso vulnerabile diventa nostro scudo, nostra forza, nostra roccia. Da questa scommessa di fede — che è fondamentale apertura alla carità — sgorga il dono di una serena fortezza, assai diversa dalla temerarietà, una fortezza che trascende, pur comprendendoli in sé, anche gli atti di audacia, di resilienza, di resistenza e di coraggio. Si tratta insomma della distensione del cuore, della pace interiore che invochiamo con quelle semplici parole “non ci abbandonare alla tentazione, ma liberaci dal male”. San Paolo scriveva che quando siamo deboli è allora che siamo forti (2 Cor 12, 10). Mero paradosso o profonda verità?L’Osservatore Romano donne chiesa mondo settembre 2019.

Incarico in Cei per Mons. Gianotti. Ecco tutte le nuove nomine

Consiglio permanente della Cei (Foto Sir)

Nel corso dei lavori, il Consiglio episcopale permanente ha provveduto a una serie di nomine. Mons. Giovanni Intini, vescovo di Tricarico è stato nominato membro della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi; mons. Douglas Regattieri, vescovo di Cesena-Sarsina, membro della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute; mons. Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini, membro della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata; mons. Roberto Carboni, Ofm Conv., arcivescovo di Oristano e amministratore apostolico di Ales-Terralba, membro della Commissione episcopale per le migrazioni. Presidente del Comitato per gli studi superiori di teologia e di scienze religiose è stato nominato mons. Daniele Gianotti, vescovo di Crema. Membro della Presidenza di Caritas Italiana mons. Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto.

Nuove nomine anche per alcuni Uffici Cei: direttore dell’Ufficio catechistico nazionale mons.Valentino Bulgarelli (Bologna); direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni socialiVincenzo Corrado; direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia fr. Marco Vianelli, Ofm; responsabile del Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità sr. Veronica Amata Donatello (Suore Francescane Alcantarine).

E ancora: assistente ecclesiastico della Confederazione delle Confraternite delle diocesi d’Italia mons. Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale; assistente ecclesiastico nazionale per la branca Esploratori-Guide dell’Agesci don Luca Delunghi (Perugia-Città della Pieve); coordinatore nazionale della pastorale dei cattolici africani di lingua francese in Italia don Matthieu Malik Faye(Tambacounda, Senegal).

Inoltre la Presidenza, nella riunione del 23 settembre, ha proceduto alla nomina di Bruna Marrocome membro del Comitato per gli studi superiori di teologia e di scienze religiose.

Fonte: Sir

Il più bel coro? L’assemblea che canta

settimananews

I nostalgici del passato non hanno tutti i torti se rimpiangono il vecchio rito. Dove sta però il problema? Non certo nel Messale di Paolo VI o nell’Ordinamento del nuovo rito, quasi bisognasse por mano alla riforma della riforma, bensì negli operatori.

Karl Rahner già nei primi anni dopo il Concilio diceva: «Si ha sovente l’impressione che la liberalizzazione della liturgia, testé sanzionata ufficialmente con l’idea di farla servire ad una rivitalizzazione e a un suo intrinseco rinnovamento, venga sin da adesso sfruttata ai fini d’una dissacrazione spinta sino ai limiti del suicidio della liturgia stessa, e alla formazione d’una liturgia che dà origine soltanto ad un tratto inter-umano, destinato a durare solo al momento in cui si sarà compresa la superficialità di una tale superfetazione aggiuntiva… Si rilevano proliferazioni aberranti, arbitri incontrollati, brame abusive e dispotiche d’innovazione, che sono davvero pericolosi e vanno coraggiosamente seppur amorevolmente rintuzzati».

Certo, l’ingresso in chiesa la domenica delle Palme in groppa ad un asinello nel tripudio generale, coreografie durante la messa di prima comunione sul canto Gesù che sta passando con tanto di applausi, performances canore di celebranti entusiasti durante la celebrazione del matrimonio, sono un piccolo campionario di “proliferazioni aberranti” di ultima generazione. «L’inflazione del rito, della musica, della danza, dello sviluppo simbolico mettono la religione nel rischio di bastare a sé stessa e di perdere la sua funzionalità in ordine alla fede e all’esperienza» (Leonardo Boff ).

Von Balthasar precisa: «Ciò significa che anche il criterio della vivacità di un servizio divino resta sempre dubbio; resta sempre dubbio di fatti se ha come effetto la vivace apertura e la conversione dei cuori o l’autogodimento della propria vivacità o la riduzione della celebrazione ad una riunione di persone che si lasciano portare dalle onde di un avvenimento puramente sociale rinunciando pienamente alla preghiera personale». E, aggiungo, un altro effetto: una sensazione soddisfatta di sé, ma di dubbia caratura, di essere tanto moderni e à la page.

Franz Joseph Haydn alla corte del principe Esterhazy disponeva di un’orchestra eccellente composta – si diceva – da generali nel campo musicale.

Nel campo liturgico tutti si reputano generali, da quei celebranti che si ritengono padroni della liturgia all’ultimo strimpellatore di chitarra o tastiera: generali che però hanno perso lungo la strada il solfeggio e finiscono col cadere nel ridicolo, dando spettacolo di cattivo gusto.

Mozart compose Ein Musikalicher Spaß, una parodia musicale in cui la musica e gli esecutori si rendono ridicoli per gli errori con cui eseguono il pezzo creato volutamente sbagliato nell’armonia, nel fraseggio e nella struttura. Il bel canto Eccomi di Frisina eseguito con chitarra e solista e con un tocco di leggiadro swing condito di portamenti vocali, è un’esecuzione degna di quella spassosa serenata di Mozart, non certo di una celebrazione liturgica.

La crepa nella nuova liturgia si è aperta e tale resta sul fronte del canto

Se Carlo Maria Giulini, richiesto di un parere sui canti di chiesa rispose: «Aspetto pazientemente che finiscano», più impietoso è il giudizi del compositore Nicola Campogrande che parla di «sciatteria della musica liturgica praticata oggi in Italia».

Si possono sentire certe invocazioni in canto allo Spirito Santo così deprimenti e sconsolanti che nulla hanno a che fare con la Sequenza medievale che conserva intatta la freschezza e favorisce l’empito del cuore che si rivolge fiducioso al Consolatore e al dolce Ospite dell’anima.

Che dire poi di certi strazianti Signore pietà e Agnello di Dio, quasi non fossero invece fiduciose invocazioni al Risorto! Bach, Mozart e Schubert nel comporre le messe avevano già capito tutto.

Si va da un eccesso all’altro: musiche da concertino, gridate, pronunciate male con le finali sguaiate e canti alquanto deprimenti o di una lungaggine esasperante, specie quando si ripete in maniera esasperante una frase o una parola, al punto che si è tentati di dire: basta, abbiamo capito! Che dire poi di canti ad effetto, nei quali si interrompe l’accompagnamento per lasciare spazio alle sole voci, con un effetto quasi intimidatorio! Mi è capitato di ascoltare un Santoeseguito in modo teatrale e penso arbitrario, che insiste su Sabaoth, quasi fosse una parola chiave e magica: dopo un colpo di timpano: YHWH Sabaoth! Al riguardo, il mio vescovo mi ha detto che un suo amico ebreo era impallidito nel sentire nominare il nome di Dio in quel modo.

È chiaro che uno stia a disagio, perché era venuto a messa per ascoltare la Parola possibilmente letta in maniera comprensibile e corretta, canti che elevassero il cuore e la mente a Dio e, soprattutto, momenti di silenzio, tanto raccomandati e indicati dalle rubriche.

Il canto stesso porta con sé un misterioso silenzio quando concorda col cuore, perché le parole e la musica coinvolgono tutta la persona. Anselm Grün nel suo libro Ascolta e la tua anima vivrà, citando i Padri, dice che «la musica ci porta in contatto con la melodia nascosta nella profondità della nostra anima che apre il nostro cuore a Dio… Il moto della musica ci trasporta nel punto più intimo, che è immobile, nel punto del silenzio, nella stanza del silenzio dove Dio dimora dentro di noi… È con il canto di gioia che arriviamo al mistero più intimo di Dio, alla dimora segreta di Dio nel nostro cuore».

Non so fino a che punto ciò possa avvenire in certe liturgie in cui alcuni sono affaccendati a eseguire canti e a creare atmosfere all’insegna della superficialità e del frastuono, nell’illusorio tentativo di attirare gente, che semmai ci sta pure, visto il decadente gusto musicale che c’è in giro e una certa superficialità da social network.

C’è però chi ha gusto musicale e sa apprezzare il silenzio.

L’immancabile tastiera con ritmo da batteria che vorrebbe dare un tono di modernità e spigliatezza, nel canto in chiesa invece ha un effetto frenante: è come se il canto avesse una postura sbagliata.

Certi canti di chiesa si riconoscono subito: voci piccole e gutturali, andamento sdolcinato, soliste dalla voce stridula, solisti con improbabile voce stentorea tenorile, pronuncia di gruppi consonantici in una certa maniera, tra il dolciastro e il nasale.

Dopo questa breve carrellata, resta da dire, ad onor del vero, che il panorama non è così negativo. Un po’ dappertutto fioriscono corali guidate da esperti musicisti e accompagnate da altrettanto valenti organisti. Molti di loro hanno frequentato i corsi di perfezionamento liturgico o provengono da conservatori con indirizzo liturgico.

Ci sono gruppi o corali che eseguono i canti tenendo presenti le regole del fraseggio e della giusta pronuncia, e sanno che la musica polifonica rinascimentale aveva ben altra scioltezza: sanno quindi evitare sillabazioni lente ed esasperanti che producono anche un’errata pronuncia.

Il Repertorio Nazionale è una miniera a cui attingere per ridare dignità al canto liturgico: presenta 384 canti per tempi liturgici e celebrazioni particolari. Con esso è stato innalzato un muro portante che può certo prevedere pareti divisorie di diverso spessore, giusto per poter attingere anche da altri repertori.

Certo, i nostalgici ricordano e rimpiangono le composizioni di Perosi, Refice, Antonelli, Picchi, Vittadini, Caudana, Tosi, Migliavacca.

Però anche oggi c’è una bella schiera di compositori di canti all’unisono o polifonici.

Se le esecuzioni a volte lasciano a desiderare (e ciò dipende anche dal fatto che la fonte didattica spesso è Youtube, che fa dilagare dappertutto le storpiature se chi lo usa non vi sa discernere l’esecuzione più corretta fra le tante presenti), non è detto che nel passato tutto fosse impeccabile. «In realtà, nella grandissima parte delle piccole e piccolissime parrocchie non si sentiva altro che qualche pezzo massacrato della Messa degli angeli. E in quelle grandi le corali toglievano voce all’assemblea. Che poi chiamare assemblea i fedeli prima della riforma è grasso che cola» (Tonino Lasconi).

Se certi canti difettano di contenuto, di grammatica o di sintassi, mica possiamo riesumare certi canti popolari anacronistici nei contenuti e nella forma.

Si possono sì rimpiangere le belle messe di Perosi (il bel ritmo andante della Te Deum Laudamus!), di Refice, di Vittadini (Missa Jucunda!), di Tosi: resta però il fatto che la miglioreSchola cantorum è l’assemblea tutta che canta all’unisono. «La vera gioia cristiana può essere espressa da come una comunità canta all’unisono, da come un prete pronuncia le preghiere del canone e le orazioni» (Von Balthasar).

Lasconi giustamente fa notare«Adesso, con tutti i limiti, le storpiature, le scelte di canti non felici…, anche nelle piccole parrocchie, grazie a qualche giovane volenteroso con la chitarra o con la tastiera si “prega-cantando” molto di più. E, se chi presiede ha un po’ di testa e di passione, suggerendo, correggendo, incoraggiando, anche questi “raccapezzati” possono salire di livello».

Volendo concludere, riparto dall’inizio. La competenza liturgica deve riguardare tutti gli operatori: organisti, compositori, cantori, lettori, ministranti.

Il celebrante ha il compito di presiedere l’assemblea e deve quindi avere una competenza particolare in modo che la bellezza del nuovo rito erompa in tutta la sua bellezza e semplicità e faciliti il contatto interiore col mistero di quelli che vorrebbero tornare al passato non per chiusure mentali conservatrici, bensì per il desiderio inappagato di veder risplendere la bellezza nella liturgia.

Paragoniamo il Messale e il nuovo Ordinamento ad una partitura di una sinfonia: se il direttore d’orchestra è carente dal punto di vista tecnico e dell’arte dell’interpretazione, il risultato sarà un’esecuzione mediocre o infedele alla lettera e allo spirito del compositore. Se poi gli orchestrali sono carenti nel solfeggio o nella tecnica, il risultato sarà una esecuzione pessima, disgustosa non certo per colpa della musica scritta, ma del modo di eseguirla.

Il celebrante apprenderà l’ars celebrandi studiando la partitura (il Messale che, oltre alle rubriche, contiene i Principi e norme per l’uso del Messale Romano e, aggiornato nel 2004, l’Ordinamento generale del Messale Romano), in modo da avere una competenza sufficiente, anche se è carente di talento.

I grandi direttori o pianisti non si limitano a studiare lo spartito con un’accurata analisi musicale, ma approfondiscono la figura del compositore leggendone la biografia, la corrispondenza ed eventuali suoi scritti di carattere musicale, cercando di allargare l’orizzonte al contesto storico e culturale del compositore.

Allo stesso modo il celebrante non si potrà limitare al solo spartito (Messale e Ordinamento), bensì riserverà momenti di studio sulla liturgia, sullo spirito della liturgia e sul carattere performativo ed educativo dei riti.

Ad ogni liturgia domenicale va riservato un tempo sufficiente per l’approfondimento della Parola, per l’attualizzazione e la regia liturgica. Ci sono riviste di alto livello che uniscono esegesi e gusto liturgico, regia della celebrazione e, a volte, indicazioni sui canti più appropriati.

Chi presiede, insieme ai collaboratori, cercherà, a partire dalla Parola e dai testi eucologici, di cucire addosso alla liturgia del giorno l’abito adatto, così che il tutto risulti ben armonizzato, a partire dai canti.

Allora la celebrazione liturgica risulterà ben calibrata e favorirà la partecipazione interiore, la cosiddetta actuosa participatio.

IMPURITA’ CANCEROGENE NEI FARMACI, EMA: TESTARLI TUTTI

ansa

FINE VITA: PRESSING PD-M5S PER LEGGE, MA NIENTE EUTANASIA Tutti i farmaci autorizzati al commercio Ue vanno testati per l’eventuale presenza di nitrosammine, sostanze cancerogene alla base del ritiro dei lotti di ranitidina: lo richiede l’Agenzia europea per i medicinali. Divide intanto la sentenza della Consulta che ha aperto al suicidio assistito, mentre Pd e M5s cercano un accordo per una legge e scacciano l’idea eutanasia. 

Il salmo di Giona in mare

Pregare dal ventre di un mostro marino

Come Pinocchio? “Giona e la balena”: era tutto qui l’interesse per il libretto di Giona, fino a qualche decennio fa. Ora non più, per vari motivi. A parte che il libro biblico non dà nemmeno un nome al grosso pesce, altrove chiamato Leviatàn e immaginato forse come un enorme coccodrillo affamato di naufraghi, simbolo del mare ostile ai naviganti. Ma quel libretto è innanzitutto un capolavoro di fine ironia e di profonda teologia, più unico che raro nella Bibbia e negli scaffali di tutte le biblioteche. Riassumiamone il tracciato, come appare anche nell’ultima versione della CEI.

Del tutto sconosciuto altrove il profeta Giona, a parte un accenno insignificante a un «Giona figlio di Amittai» in 2Re 14,25; ignota altrove nell’AT la sua vicenda di profeta inviato da Dio ad annunciare rovina alla città assira di Ninive, crudele peccatrice e odiata dagli ebrei; ma quel profeta teme che quella città si converta ed eviti il castigo divino, perciò fugge per nave verso occidente invece che verso nord; ma la nave subisce una terribile tempesta che spaventa i marinai, mentre Giona si dà al sonno del disinteressato; quei marinai, idolatri, saputa quella sua disobbedienza diventata causa della tempesta, pregano il Dio di Giona e si oppongono alla richiesta del passeggero di gettarlo in mare per salvare se stessi: insomma quei marinai pagani fanno una bellissima figura, ma alla fine ascoltano Giona e lo buttano in mare; qui un grosso pesce ingoia il profeta e gli permette di scampare da morte tre giorni e tre notti.

 Giona e il suo Salmo

Nel turbine di paurosa morte, Giona prega con un Salmo e invoca di essere liberato da inferi, abisso, cuore del mare, correnti, flutti e onde, alghe, fossa: nessuna parola sul mostro marino! Evidentemente questo era solo un’immagine poetica del mare in tempesta. Liberato dalla tempesta marina per poter tornare al tempio di Dio, per offrire un sacrificio di lode, adempiere a un voto, e proclamare a tutti che quelli che servono idoli falsi abbandonano il loro amore vero.

La preghiera al Dio vero ottiene che il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia (cap. 2). Ma sottinteso: Adesso che, invocato, ti ho salvato, ora “Alzati e va’ a Ninive la grande città e annuncia loro quanto ti dico”, perché – come appare dalla fine del cap. 4 – anche la pagana Ninive è una mia creatura. Come un cane bastonato il profeta va e annuncia.

Suo malgrado, Ninive si converte, tutta e improvvisamente, dal re ai bambini e anche agli animali (cf. invece la predicazione di Geremia a re e a gente del suo popolo inascoltata). Giona ne è desolato, anche perché privato del conforto del ricino che gli dava ombra. Il rimprovero di Dio è luminoso: Tu hai pietà per quel ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che non hai fatto spuntare… Io invece non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città anch’essa mia creatura per la quale ho faticato? In essa ci sono pure tanti bambini e tanti animali, che mi interessano… E tu, mio profeta, capisci e credi a questa mia Parola? La risposta non sta scritta: la deve dare il lettore, con l’autore della mirabile novella.

Autore e storicità

Chi può avere prodotto sia il Salmo sia il suo stupendo complesso? Ignoto a noi. Certo era un ebreo di grande fede nel suo Dio e abilissimo poeta. Su quale base ha inventato il racconto? Forse su qualche episodio significativo ma ignoto anch’esso (certo è impensabile anche una conversione come quella di Ninive), o su un naufragio scampato di qualche profeta disubbidiente (il Giona figlio di Amittai?).

L’autore è un ebreo credente, vissuto dopo l’esilio a Babilonia (586-538) e durante la restaurazione della “nazione santa”, ma critico con il suo popolo duro a convertirsi, ma anche con la linea di un’ortodossia religiosa esclusivista e nazionalistico-razziale (cf. Is 56). Per questa critica egli è ricorso anche a una finissima ironia e a immagini poetiche e fantasiose assai eloquenti per il suo contesto… e per sempre.

La successiva fortuna di Giona non dipende solo da Pinocchio, anzi innanzitutto dai richiami che ne ebbe nei Vangeli sinottici. In Mt 12, 38-41 e in Lc 11,29-30 leggiamo che Gesù avrebbe offerto alla sua gente un segno come la risuscitazione di Giona «dopo tre giorni e tre notti dal ventre del pesce», cui era seguita la conversione di Ninive. Sembra quindi che Gesù non avesse dubbi o problemi sulla storicità di quei due ricordi, anche perché gli interessava altro: lui era più di Giona.

Infatti, durante una tempesta sul mare di Genezaret, lui “dorme” e, risvegliato-risuscitato dai suoi impauriti marinai, domina su vento e mare, senza bisogno di invocare Dio! (Mt 8,23-27; Mc 4,35- 41; Lc 8,22-26).

Giona e le religioni

L’autore di Giona voleva un ebraismo più aperto anche ad altri uomini religiosi. In ciò era in linea, per esempio, con Is 2 e più ancora con il cap. 24 del Siracide. Questo libro, composto intorno al 200-150 a.C., è molto giudaico, eppure afferma che la Sapienza/Parola di Dio, pur presente in modo eccellente in Israele, è però diffusa dappertutto: nelle creature celesti e terrestri (cf. Gen 1) e «su ogni popolo e nazione ha preso dominio». Come dire che anche fuori di Israele si potevano trovare segni della Sapienza o Parola di Dio.

Ciò trova conferma nel prologo di Giovanni: «Il Verbo-parola di Dio sta all’origine di tutte le creature e illumina ogni uomo», benché abbia come sede privilegiata la storia di Israele e più ancora la «carne» dell’ebreo Gesù di Nazaret. Eloquente anche Col 1, 15-17: «tutto fu creato in, per mezzo di e in vista di Cristo».

Antichi Padri e scrittori cristiani parlavano di “semi del Verbo” diffusi dappertutto, con una visione del creato e della storia umana molto più positiva di quella poi prevalsa anche nelle Chiese. Oggi, specialmente dopo il Vaticano II e insieme a teologi come Teilhard de Chardin, ricuperiamo quella visione, che abbiamo intravvisto già nel libro di Giona. Cristo è la vera via-verità-vita, ma illumina, guida, giudica e ama ogni sua creatura, per tutti diede anche il sangue e lo Spirito.

Conseguenze: come guardare alla nostra storia umana, con tutte le sue luci e ombre? con tutti i suoi incerti passi? Come considerare il pluralismo religioso e il suo dialogo pur faticoso? In che senso parlare della “missione alle genti” e come pensarla?… Problemi in parte nuovi, discorsi ormai avviati e in progresso. Sotto la guida anche di papa Francesco (cf. in particolare la sua Evangelii gaudium). In cammino anche con Pinocchio – uno dei libri più tradotti nel mondo – e il suo antico e mirabile… predecessore.

Questi però scrisse anche un bel salmo per tutti i pinocchi della terra, piccoli o grandi che siano, credenti tranquilli o magari in mezzo a ondate e burrasche come lui e tanti di noi. E con il “mio” cuore lo rileggo in umile preghiera.

settimananews

Giovani increduli: la maggioranza silenziosa

Settimana News

I giovani non religiosi non sono ai margini, sono la maggioranza. Non si tratta di una nuova religione, ma di un nuovo soggetto sociale fra le religioni e le credenze giovanili. È una delle rivoluzioni silenziose che sta cambiando il panorama delle nostre società occidentali.

Le nuove generazioni hanno un’identità religiosa “altra”, ancora difficilmente definibile. Nella coscienza giovanile confessioni e religioni sono ormai marginali, anche se non in tutte le nazioni. Quelli che le ricerche sociologiche della religione chiamano i nones (da no religion) potrebbero diventare la più forte “religione” in Occidente. La provocazione intellettuale è di Guillame Cuchet (su Études, settembre 2019, pp. 79–92).

La discussione sull’orientamento religioso o non religioso dei giovani è assai vivace anche in Italia. Si possono ricordare i volumi di Armando Matteo (La prima generazione incredula, Rubettino 2009) e di Franco Garelli (Piccoli atei crescono, Mulino 2016).

Quello ipotizzato da Cuchet è il rovesciamento della lettura ancora prevalente: i non-religiosi non sono ai margini, sono ormai il centro. Da settore periferico sono diventati la coscienza comune delle generazioni giovanili dell’Occidente. Ciò che è ancora difficile decifrare è l’identità di questo corpo sociale che veleggia fra ateismo, agnosticismo, indifferenza, credenza libera. Se è chiaro l’abbandono della pratica e dell’identità confessionale cristiana, molto meno comprensibile è la “pasta” di cui i nones si alimentano.

Da decifrare

Si possono identificare alcune radici nelle tradizioni storiche attive in Europa dalla fine dell’800, come i liberi pensatori, i positivisti o gli spiritualisti non cristiani. Diversamente dagli USA in cui la frattura sarebbe più netta.

Si possono anche porre dei dubbi sull’affidabilità delle ricerche. Il Pew Research Center parla, ad esempio, di una permanenza religiosa in Europa per il 71% degli abitanti. Si può sottolineare la diversità di appartenenza che emerge dalle inchieste fra i giovani musulmani europei. Il loro consenso alla fede ha caratteristiche assai diverse da quello dei cristiani.

Rimangono tuttavia i dati che certificano un addio alla religione dei padri o dei nonni. Negli USA i nones sono il 21%, in Europa il 54%. E, all’interno del continente europeo, sono il 70% nel Regno Unito, il 64% in Francia, il 75% in Svezia, l’80% in Estonia, il 91 % in Cechia. Molto meno in Polonia, il 17%. Essi sembrano confermare l’ex-culturazione del cristianesimo. Si giovano della crescente fluidità delle identità personali (sessuali, politiche, culturali) e della psicologizzazione massiccia delle mentalità, come delle nuove forme di ascesi (alimentari, sportive o neo-orientali).

In tale contesto va collocata l’emergenza della presenza musulmana. Se, dal punto di vista della pratica e del consenso, è ormai la seconda religione dei giovani europei, non sembra tuttavia in grado di risultare suggestiva o di riferimento per la grande maggioranza.

Nella vasta area dei non religiosi (nones) emerge una disponibilità ad aprirsi ad un’altra storia. La domanda di senso e di spiritualità che li attraversa difficilmente potrà accontentarsi di una posizione critica alla tradizione. La semplice rottura non è indefinitivamente trasmissibile. Ed è su questo fronte che è possibile aprire i tesori della tradizione cristiana, rendendoli comprensibili in un contesto “non religioso”.

Cuchet chiude il suo saggio identificando nei nones tre aree prevalenti.

La prima è quella dei secolarizzati. Atei e agnostici cresceranno e difficilmente entreranno in dialogo con il cristianesimo.

La seconda è quella transizionale: quanti cioè non fanno della loro area non credente il punto di arrivo.

Infine, gli spiritualisti che, pur estranei a un credo e alle istituzioni ecclesiali, hanno una forte domanda di interiorità e una spiccata ricerca di senso.

Preti sposati documento della Congregazione Clero del Vaticano: aperta la possibilità che i preti dispensati possano riprendere l’esercizio del ministero e, naturalmente, insegnare religione

La Congregazione del clero ha recentemente introdotto alcuni cambiamenti sostanziali nel rescritto per ottenere la dispensa dallo stato clericale. I preti che lasciano il ministero potranno, ad esempio, servire le loro comunità e insegnare nei collegi e nelle università della Chiesa. L’articolo di José Manuel Vidal è stato pubblicato lo scorso 23 settembre 2019 sul sito Religión Digital. Traduzione italiana a cura di Lorenzo Tommaselli.

Da «traditori», quasi appestati ed esiliati a fratelli dispensati.  Cambiamento assoluto e radicale nella procedura che devono seguire i preti che lasciano il ministero e richiedono la dispensa. Cambiamento nel tono e nella sostanza del documento, tecnicamente chiamato «rescritto». Era uno degli argomenti in sospeso di papa Francesco, che solo pochi mesi fa ha appena approvato tramite la Congregazione del clero, presieduta dal cardinale Stella.

Questo cambiamento sostanziale o svolta totale nella procedura per ottenere la dispensa dal celibato e dall’esercizio del ministero sembra essere parte di un movimento più ampio, che contempla l’ordinazione di uomini sposati e la possibilità che i preti dispensati possano riprendere l’esercizio del ministero e, naturalmente, insegnare religione e teologia nei collegi e nelle facoltà ecclesiastiche.

Il primo cambiamento sostanziale è quello del linguaggio utilizzato dal nuovo rescritto. Non si parla più di «secolarizzazione» del prete o della sua «riduzione allo stato laicale» (che comprendeva una chiara sottovalutazione del laicato), ma di «dispensare» o «chierico dispensato».

Diamo un’occhiata ad alcuni di questi cambiamenti fondamentali. Se al prete che lasciava il ministero prima non era permesso neanche continuare ad essere in contatto con la sua parrocchia, ora si chiede che gli si faciliti lo svolgimento di «servizi utili» alla comunità. In particolare, il numero 5 del rescritto recita come segue: «L’Autorità ecclesiastica si adopererà per facilitare che il chierico dispensato svolga servizi utili alla comunità cristiana, mettendo al suo servizio i propri doni e i talenti ricevuti da Dio» (n. 5).

Inoltre, il numero 6 aggiunge che «il chierico dispensato sia accolto dalla comunità ecclesiale in cui risiede, per continuare il suo cammino, fedele ai doveri della vocazione battesimale» (n. 6). Si elimina quindi alla radice il riferimento precedente all’«esilio» del prete, che recitava come segue: «Il prete dispensato dal celibato e a maggior ragione il prete che si è sposato deve stare lontano dal luogo o territorio in cui è conosciuto il suo stato precedente» (n. 5f).

Si è anche totalmente eliminato l’obbligo prescritto dal precedente rescritto di imporre una penitenza al prete dispensato, perché si presupponeva che avesse commesso un peccato e avesse violato i suoi obblighi. Per questo stabiliva: «Verrà imposto all’interessato una qualche opera di carità o di pietà».

D’altra parte, se il prete che chiedeva la dispensa voleva sposarsi (cosa abituale nella maggior parte dei casi), il precedente rescritto prescriveva che «l’ordinario deve prestare la massima attenzione affinché la sua celebrazione venga effettuata con discrezione, senza pompa o sfarzo» (n. 4). Cioè, nascondendo il sacramento del matrimonio del prete alla comunità. Come se ricevere un simile sacramento fosse, in questo caso e solo in questo, una vergogna o, peggio ancora, uno scandalo per i fedeli. Ora invece si dice solo che si celebri il matrimonio «rispettando la sensibilità dei fedeli del luogo» (n. 4).

Oltre ai cambiamenti di linguaggio, di tono e di normativa, il nuovo decreto scende ancora di più nel pratico e consente ai preti dispensati di poter continuare ad essere pastoralmente attivi. Infatti, il precedente rescritto prevedeva quanto segue: «Il prete dispensato è escluso dall’esercizio dell’ordine sacro… e non può fare omelie o ricoprire alcun incarico di direzione nell’ambito pastorale, né gli si potrà conferire alcuna responsabilità nell’amministrazione parrocchiale» (n. 5b) e «non può esercitare in nessun luogo la funzione di lettore, di accolito, o distribuire o essere ministro straordinario dell’eucaristia» (n. 5f). Sebbene contemplasse la possibilità che l’Ordinario della diocesi potesse derogare ad alcune o anche a tutte queste clausole (n. 6).

Il nuovo rescritto proclama: «Il chierico dispensato può esercitare gli uffici ecclesiastici che non richiedono l’ordine sacro, con il permesso del vescovo competente» (n. 5a).

C’è anche un cambiamento sostanziale nelle funzioni che un prete secolarizzato può svolgere in istituti dipendenti o meno dall’autorità ecclesiastica. Il rescritto precedente diceva che «non può svolgere l’incarico di direttore in istituti di studi superiori che in qualche modo dipendano dall’autorità ecclesiastica» (n. 5c), senza eccezioni. Ora, «tale proibizione può essere rimessa dalla Congregazione del clero, su richiesta del vescovo competente e dopo aver consultato la Congregazione per l’educazione cattolica» (n. 8).

Inoltre, il rescritto precedente diceva che «negli istituti di studi superiori, dipendenti o meno dall’autorità ecclesiastica, non può insegnare nessuna disciplina teologica o con essa strettamente connessa» (n. 5d), senza eccezioni. Ora «tale divieto potrà essere rimosso dalla Congregazione per il clero, su richiesta del vescovo competente e dopo aver consultato la Congregazione per l’educazione cattolica».

Il rescritto precedente diceva che «negli istituti di studi inferiori dipendenti dall’autorità ecclesiastica non può esercitare un compito direttivo o di insegnamento di discipline teologiche. Il prete dispensato è tenuto dalla stessa norma per quanto riguarda l’insegnamento della religione negli istituti similari non dipendenti dall’autorità ecclesiastica» (n. 5e), sebbene contemplava il fatto che l’Ordinario della diocesi potesse derogare a questa specifica clausola (n. 6).

Nell’attuale rescritto si dice semplicemente che può farlo, «considerando le circostanze concrete, secondo la prudente valutazione del Vescovo competente» (n. 7).

Il rescritto precedente diceva che «non può svolgere alcuna funzione in seminari o istituti equivalenti» (n. 5c); ora si parla solo del fatto che «non può svolgere funzioni formative» (n. 10).

Inoltre, se di questo essere dispensato da alcuni dei punti prima si diceva che «dovrà essere concesso e comunicato per iscritto» (n. 7), ora nulla viene esplicitamente detto al riguardo, sebbene si faccia capire che dovrebbe essere così. Inoltre, è stato espressamente aggiunto l’obbligo del prete dispensato di confessare il penitente in pericolo di morte (5b).

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