Essere cristiano è un incontro, un incontro con Gesù Cristo

Lo scorso 31 agosto è stato celebrato il settimo anniversario della morte del cardinale Carlo Maria Martini. Una memoria che non si spegne, ma continua ad ardere nel cuore della Chiesa proprio come il fuoco di quella Parola di Dio di cui egli fu instancabile studioso, maestro e annunciatore. Sarebbe naturalmente impossibile racchiudere in poche parole la ricchezza di un profilo e di una spiritualità, che hanno fortemente segnato la Chiesa e il cattolicesimo italiani.

Affascinato dalla Parola di Dio, vero faro della sua esistenza sacerdotale ed episcopale, egli fu una figura sobria e austera, un comunicatore semplice ma mai banale, e soprattutto un uomo capace di leggere e interpretare la vita, i problemi e gli aspetti della società con un discernimento intelligente, aperto, sereno e lungimirante. Per lui, la fede era il grande rischio della vita e non una passiva consolazione, e ciò lo rese affascinante ed empatico anche agli occhi di molti non credenti, toccati dal suo stile e dalla sua visione.

Vorrei soffermarmi, però, su un tema che mi sembra particolarmente attuale, trattato dal cardinale Martini in un articolo pubblicato da Avvenire il 27 luglio 2008 dal titolo “Quale cristianesimo nel mondo postmoderno”.

Martini cerca di spostare il baricentro del giudizio dominante dell’ambito ecclesiale e teologico che, purtroppo, ancora oggi, appare piuttosto risentito nei confronti del mondo moderno, facendo emergere tutta la nostra difficoltà a far pace con la perdita di spazio e di rilevanza della fede.

Emergono talvolta da più parti, infatti, alcuni rigurgiti polemici, rigidi moralismi, valutazioni negative, atteggiamenti rancorosi e lamentosi e un’apologetica che il grande teologo francese de Lubac definirebbe aggressiva e difensiva.

Secondo Martini, invece, ci troviamo in un momento di crisi della fede e in mondo pieno di problemi e di sfide, ma, tuttavia, «non vi è mai stato nella storia della Chiesa un periodo così felice come il nostro». Infatti, continua il cardinale, «la nostra Chiesa conosce la sua più grande diffusione geografica e culturale e si trova sostanzialmente unita nella fede, con l’eccezione dei tradizionalisti di Lefebvre».

Non solo: «Nella storia della teologia non vi è mai stato un periodo più ricco di quest’ultimo. Persino nel IV secolo, il periodo dei grandi Padri della Cappadocia della Chiesa orientale e dei grandi Padri della Chiesa occidentale, come san Girolamo, sant’Ambrogio e sant’Agostino, non vi era un’altrettanto grande fioritura teologica. È sufficiente ricordare i nomi di Henri de Lubac e Jean Daniélou, di Yves Congar, Hugo e Karl Rahner, di Hans Urs von Balthasar e del suo maestro Erich Przywara, di Oscar Cullmann, Martin Dibelius, Rudolf Bultmann, Karl Barth e dei grandi teologi americani come Reinhold Niebuhr, per non parlare dei teologi della liberazione (qualunque sia il giudizio che possiamo dare di loro)».

Partendo da questa visione positiva, ci si può inoltrare nel complesso tempo postmoderno senza indulgere alla rassegnazione lamentosa o al risentimento.

Al cardinale non sfugge la problematicità della visione postmoderna della vita e della società, che si configura come una mentalità di opposizione nei confronti del modo in cui abbiamo concepito il mondo fino ad ora e che promuove un’istintiva preferenza per i sentimenti, per le emozioni e per l’attimo presente, invece che per i grandi progetti e ideali.

Naturalmente, in questo clima si fanno strada il rifiuto o un certo giudizio negativo nei confronti della morale, un sentimento anti-istituzionale che penalizza anche la Chiesa, nonché ciò che Martini chiama «il rifiuto del senso del peccato e della redenzione».

Questi aspetti potrebbero facilmente gettare lo spirito del cristiano nello scoraggiamento oppure orientarlo verso un atteggiamento ostile e controversista. Al contrario, nello spirito ignaziano che gli era proprio, il cardinale Martini afferma che occorre un vero discernimento spirituale, capace di osservare la realtà con gli occhi di Dio e di cogliere perciò il grano buono nel mezzo della zizzania.

A ben guardare – afferma sorprendentemente – «forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero».

La lettura è degna di attenta riflessione. La crisi di un certo cristianesimo sociologico, la perdita di rilevanza pubblica della Chiesa e la riduzione del suo potere sociale, così come la mentalità “liquida” che presiede le visioni e l’agire dei nostri contemporanei non rappresentano un “luogo” totalmente negativo per la fede cristiana; al contrario, la crisi diventa e può essere un’occasione per riscoprire un cristianesimo nuovo, che non si instaura più per un influsso sociale o per tradizione culturale, ma si situa nel cuore della gente grazie alla freschezza e alla novità del Vangelo, e diventa attrattiva per il fatto di mostrarsi come una sfida, un rischio, una possibilità di realizzare una vita umana qualitativamente differente.

Insomma, la crisi di un cristianesimo tradizionale e sociologico potrebbe indurre alla riscoperta di una fede viva, fondata sulla Parola, radicata nell’esperienza spirituale e, certamente, più consapevole, più responsabile e più adulta.

Non è superfluo ricordare che Benedetto XVI ebbe a fare la stessa analisi parlando ai cattolici di Germania nel 2011, ricordando loro che «in un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore… Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo». Anni addietro, l’allora professor Ratzinger aveva già parlato di una “Chiesa minoranza”.

In tale direzione, Martini esorta il lettore citando san Paolo: «Esamina tutto con discernimento; conserva ciò che è vero; astieniti dal male» (1Ts 5,21-22). In questo esercizio, il cardinale afferma che, nel tempo postmoderno, la fede è una vera e propria sfida, per affrontare la quale servono quattro attitudini, che vale la pena non solo di enumerare, ma anche di meditare citando le sue stesse parole:

«Non essere sorpreso dalla diversità. Non avere paura di ciò che è diverso o nuovo, ma consideralo come un dono di Dio. Prova ad essere capace di ascoltare cose molto diverse da quelle che normalmente pensi, ma senza giudicare immediatamente chi parla. Cerca di capire che cosa ti viene detto e gli argomenti fondamentali presentati. I giovani sono molto sensibili a un atteggiamento di ascolto senza giudizi. Questa attitudine dà loro il coraggio di parlare»;

«Corri dei rischi. La fede è il grande rischio della vita. “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25)»;

«Sii amico dei poveri. Metti i poveri al centro della tua vita, perché essi sono gli amici di Gesù che ha fatto di se stesso uno di loro»;

«Alimentati con il Vangelo. Come Gesù ci dice nel suo discorso sul pane della vita: “Perché il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (GV 6,33)».

Si tratta di un vero e proprio programma spirituale e pastorale, che non si preoccupa degli spazi da occupare e dei trionfi sociali da raggiungere, ma di sviluppare una spiritualità capace di generare luce nel mondo e di aprire strade al Vangelo; per dar vita a queste quattro attitudini, infatti, Martini propone quattro esercizi: la lectio divina perché è la Parola di Dio che nutre la vita e apre all’incontro con Dio; l’autocontrollo, perché saziare tutti i desideri senza discernimento può portare alla noia e alla sazietà; il silenzio, perché «dobbiamo allontanarci dall’insana schiavitù del rumore e delle chiacchiere senza fine, e trovare ogni giorno almeno mezz’ora di silenzio e mezza giornata ogni settimana per pensare a noi stessi, per riflettere e pregare»; infine, l’umiltà, cioè «non credere che spetti a noi risolvere i grandi problemi dei nostri tempi. Lascia spazio allo Spirito Santo che lavora meglio di noi e più profondamente. Non cercare di soffocare lo Spirito negli altri, è lo Spirito che soffia. Piuttosto, sii pronto a cogliere le sue manifestazioni più sottili».

Anche in un tempo difficile, indifferente e per certi versi ostile alla fede e alla Chiesa, Dio continua a bussare. Tante persone, anche inconsapevolmente, sono inquietate da domande diverse e dal desiderio di vincere il grigiore della routine e la staticità delle abitudini. Il Vangelo continua in qualche modo a suscitare stupore e la figura di Gesù crea ancora scompiglio. Ciò che manca, forse, è un cristianesimo, una Chiesa e dei cristiani capaci di quello sguardo e di quelle attitudini, che il cardinal Martini ha voluto ricordarci.

Non è un caso se questo invito, oggi, in una nuova stagione ecclesiale ricca di sorprese, ci viene proposto da papa Francesco. Proprio il pontefice, nel viaggio apostolico in Marocco del marzo scorso, ha affermato: «la nostra missione di battezzati, di sacerdoti, di consacrati, non è determinata particolarmente dal numero o dalla quantità di spazi che si occupano, ma dalla capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione; dal modo in cui viviamo come discepoli di Gesù, in mezzo a coloro dei quali noi condividiamo il quotidiano, le gioie, i dolori, le sofferenze e le speranze… Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi. Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo. Anche se questo può non portare apparentemente benefici tangibili o immediati. Perché essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro, un incontro con Gesù Cristo».

Su questa strada, tracciata profeticamente da Carlo Maria Martini, siamo ancora in cammino.

Pubblicato su L’Osservatore romano, 3 settembre 2019

Per una Chiesa sensibile ai vissuti. Le nostre chiese sono sovente sì tutte belle pulite, ma anche tremendamente vuote rischiando così di diventare dei musei

Chiesa sensibile alla vita

Dei miei anni di studio a Freiburg mi rimane in mente in particolare una persona che oggi mi appare essere quasi profetica: il gesuita americano Charles Lohr, che a quei tempi dirigeva l’Istituto Raimondo Lullo. Parlava tedesco con forte accento americano, e portava degli occhiali simili a quelli di Sartre (grandi, squadrati, con lenti spesse).

Il Dio di Gesù non parla solo tedesco

Nei suoi seminari portava sempre con sé pile di libri che riempivano la cattedra fino al bordo, in tutte le lingue immaginabili: catalano, spagnolo, latino, francese, tedesco, inglese e addirittura arabo. Sconvolgeva gli studenti del secondo e terzo semestre dando loro da leggere testi in quattro lingue diverse, aggiungendo bonariamente il commento di «non strapazzarsi troppo» per leggerli.

Avevo 21 anni e un giorno gli dissi: «caro padre Lohr, posso leggere solo cose in tedesco». Allora il mio inglese era ancora pessimo, e non parlavo bene neppure il francese. Per padre Lohr era imprescindibile la conoscenza del latino, così da poter lavorare in maniera intelligente su Tommaso d’Aquino oppure Duns Scoto o Sigeri di Brabante – per non parlare poi della sua area di specializzazione, quella dei commentari medioevali delle opere di Aristotele. A questi si aggiungevano i commentari moderni nelle diverse lingue, e non solo in tedesco.

L’insopportabile auto-referenzialità del linguaggio ecclesiale

Padre Lohr usava dire allora che la «teologia tedesca si stava riducendo a essere una mera professione»: avere un lavoro e guadagnare bene, si parlerà sempre più solo tedesco e non si leggerà altro che testi in tedesco. Poi aggiungeva una cosa che allora non capii e che mi sconvolse: ossia che la teologia tedesca era minacciata dal rischio di una riproduzione fra consanguinei.

Autoreferenzialità teologiaOggi, trent’anni dopo, mi è chiaro cosa intendesse: nella teologia tedesca corriamo il rischio di diventare autoreferenziali – e spesso non ce ne accorgiamo neanche. Ed è possibile dare prova di questa autoreferenzialità: nel 2017 delle 324 recensioni pubblicate sullaTheologische Revue 45 riguardavano libri in inglese, tre libri in francese, due in spagnolo e una un libro in svedese. Nel 2018 le recensioni pubblicate sono state 331, di cui 60 riguardavano libri in inglese, sei in francese e due in italiano. Inutile dire che tutte le altre recensioni erano di libri scritti in tedesco.

Non che sul versante evangelico le cose vadano meglio: nel 2017 meno di un terzo delle recensioni pubblicate dalla Theologische Literaturzeitungriguardavano libri in inglese, tre erano su testi scritti in francese, una un libro italiano e un’altra su uno scritto in olandese. Nel 2018 delle circa 600 recensioni meno di un quarto sono dedicate a libri scritti in inglese, quattro a testi in francese e una è su un libro scritto in norvegese.

L’ombelico del mondo

E questa tendenza, questo abito intellettuale, influenza anche la nostra politica ecclesiale. In fin dei conti pensiamo di essere (ancora) l’ombelico del mondo e  riteniamo che Roma e la Chiesa mondiale debbano essere santificate secondo il nostro gusto teutonico.

In merito dobbiamo imparare dalla teologia internazionale. Il disinteresse davanti al mondo linguistico spagnolo lascia sbalorditi. Nelle scuole insegniamo ai bambini lo spagnolo, tanto che ha soppiantato il francese. Ma chi legge teologia scritta in spagnolo? Chi legge pubblicazioni in portoghese? Noi tedeschi spesso riteniamo che la teologia brasiliana non sia in grado di soddisfare il nostro livello di riflessione. Al più ci sono un «paio di buoni brasiliani», come Leonardo Boff e compagni, accettati nel nostro salotto buono perché hanno studiato a Monaco o Francoforte.

Imparare dalle altre Chiese

Ma è comunque falso dire che in Brasile non vi siano teologi e teologhe all’altezza nell’ambito della sistematica, dell’esegesi o della teologia fondamentale. Dal Brasile potremmo imparare cosa significhi «vicinanza al popolo», cosa voglia dire essere una Chiesa per i poveri.

Papa Francesco parla addirittura di una «Chiesa povera per i poveri». L’America Latina ci può dare l’esempio di come la fede sia generatrice di gioia. Si prova gusto ad andare in chiesa, è qualcosa che piace, un evento. Questo ci insegna la Chiesa latino-americana. E questo vale anche per la celebrazione liturgica in una qualsiasi parrocchia di periferia, come ho potuto vivere di persona. Tutto è semplice: ci si vede, ci si incontra, si canta insieme.

Ci manca anche la curiosità di guardare verso Est. Chi legge le teologhe e i teologi polacchi? Quale esegeta polacco è recepito qui da noi in Germania? Quale dogmatico? Cosa ci sfugge? Anche nei Paesi dell’Est vi sono molte persone che procedono nel loro itinerario intellettuale. Ci interessiamo a sufficienza per l’Ortodossia?

Per quanto concerne le riflessioni istituzionali in vista della riforma della Chiesa ci rifacciamo volentieri a esempi presi dall’Ortodossia – per ciò che concerne i preti sposati o un secondo matrimonio dopo il divorzio. Ma leggiamo in maniera sufficiente scritti di spiritualità ortodossa? Verso Est continua a esistere una cortina di ferro che ci rende, qui da noi, più poveri.

Il difficile rapporto franco-tedesco

Per quanto riguarda il nostro vicino a occidente, vi è una vivace ricezione della letteratura francese per mano dei filosofi e degli intellettuali tedeschi. Anche gli scrittori tedeschi sono consapevoli di quello che viene prodotto in lingua francese. Solo nell’ambito della teologia pensiamo di non aver bisogno di quanto viene scritto dalla figlia maggiore della Chiesa.

In questo la teologia francese, con la sua sensibilità per l’esperienza, rappresenta per noi una grande ricchezza. Infatti, il nostro pensiero, a differenza di quello francese induttivo, è strutturato principalmente in maniera deduttiva. Noi tedeschi deduciamo le cose, i francesi le vivono.

Dall’approccio francese potrebbe addirittura venire a noi tedeschi un nuovo concetto di missione e missionarietà. Di seguito vorrei prendere in considerazione tre ambiti in cui la teologia tedesca può imparare da quella francese.

Se c’è un filosofo che può essere considerato un padrino del Concilio Vaticano II questo è sicuramente Maurice Blondel (1861-1949) – almeno questa era la persuasione del domenicano francese Yves Congar. Mi sono confrontato in maniera profonda con il pensiero di Blondel durante i miei anni di studio romani.

Maurice Blondel

Secondo Peter Henrici, che allora era preside della Facoltà di filosofia alla Gregoriana e specialista internazionalmente riconosciuto dell’opera di Blondel, quest’ultimo è stato «il filosofo del concreto». Riprendendo così una definizione che circolava già quando Blondel era ancora in vita.

Già prima dell’esistenzialismo Blondel è stato un filosofo dell’esistenza umana. Questo concetto di esistenza e la sua elaborazione mediante l’esistenzialismo provenivano dalla Francia, si pensi a Jean-Paul Sartre o Simone de Beavoir e più tardi in Germania a Martin Heidegger. Questi approcci filosofici sono stati fruttuosi anche per la teologia.

Nella sua opera Blondel sottolinea in maniera particolare il principio di incarnazione: Dio diventa uomo, carne e sangue. Ha patito e gridato. Ha sudato e puzzato. Lo si poteva toccare. In questo modo Blondel si contrapponeva alla linea hegeliana, secondo la quale era sufficiente la possibilità di pensare l’idea della passione, ossia che il venerdì santo fosse rappresentabile mediante il pensiero. Per il «filosofo del concreto» è invece imprescindibile il fatto che Dio sia divenuto veramente uomo.

Per lui incarnazione vuol dire porsi le seguenti domande: come mi trovo nella mia pelle? Come trovo la mia identità e la mia destinazione? Domande assolutamente moderne e, al tempo stesso, antiche. La sua opera maggiore di allora, ossia L’azione (1893), inizia proprio con tali questioni.

Il sapere del vissuto

Come Scoto, Blondel è convinto che l’uomo non è vincolato solo a una cognitio abstracta, ma anche allacognitio concreta. Infatti, per lui la conoscenza che sostiene la vita non è quella del calcolo. Con la ragione l’uomo può comprendere le leggi di Mendel, se la terra ruota intorno al sole o viceversa, oppure come si possa raffinare il frumento; ma questo tipo di conoscenza non è quella che porta l’uomo e l’umano.

La decisione di affidarsi a una persona in un rapporto d’amore rappresenta un altro genere di conoscenza, non ha nulla a che fare con il calcolo, si tratta piuttosto di una cognitio intuitiva: il cuore, un’intuizione.

La grandi decisioni nella vita di una persona vengono prese a questo livello, e non a quello del calcolo matematico delle scienze naturali. Con i suoi temi portanti, si pensi a quello della «sete di Dio» ad esempio, Blondel prepara filosoficamente lo spazio per una teologia dell’incontro dell’uomo con Dio.

Anche il «fallimento» gioca un ruolo importante nella sua opera. Questo aspetto dell’umano è stato ampiamente messo da parte dalla teologia tedesca. Per Blondel il fallimento rappresenta un aspetto fondamentale dell’esistenza umana. Egli distingue fra «volontà volente» e «volontà voluta» . La volontà volente, il volere fondamentale, è ciò che l’uomo desidera, ciò a cui aspira. Una persona sente il desiderio della vita consacrata e si è fatta un’idea di cosa essa sia, di come vivere i voti di obbedienza, povertà e castità.

La persona elabora una rappresentazione ideale, ma si accorge che nella vita le cose vanno altrimenti, che rimaniamo ben lontani dagli ideali. La volontà voluta, o volere attuale, si realizza sempre nell’agire; e nell’agire non raggiungiamo mai completamente quello che originariamente volevamo (volontà volente). Piuttosto, vengo condotto a qualcosa che espressamente non volevo.

Questo «rimanere indietro», questa crepa, è ciò che Blondel chiama «fallimento». Per lui si dà sempre questa distanza incolmabile rispetto al compimento, proprio come si dice nel salmo 42: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, mio Dio».

Il filosofo si può spingere fino a questo punto. L’ultimo pensiero de L’azione afferma infatti che noi andiamo incontro a una destinazione alla fine della quale si trova Dio. In questo senso la filosofia non può dire una parola conclusiva e definitiva, piuttosto essa deve condurre verso un’apertura – come, per Blondel, nel Pantheon a Roma la corona finale è rappresentata dall’apertura verso il cielo.

Questa domanda su Dio trascina con sé anche la domanda sul suo significato nella vita dell’uomo. Se vi è Dio e io credo in lui, cosa significa questo per la mia vita? Cosa cambia nella mia vita con la fede in Dio? Cosa significa la «svolta», come la chiama Heidegger, la conversione, la metanoia, il nuovo noi?

Ci si ritrova immediatamente nelle trame dell’agire: cosa significa la fede in Dio per il mio modo di essere e agire?

La missione

Da queste riflessioni si apre a mio avviso un ambito ulteriore rispetto al quale la Chiesa tedesca può imparare dal paese vicino: quello della missione. Nel 1996 la Conferenza episcopale francese ha pubblicato il documentoProporre la fede nella società odierna. Un documento simile a questo era da lungo tempo dovuto in Francia.

Ancora durante la II Guerra Mondiale il cardinal Emmanuel Suhard aveva commissionato uno studio sulla situazione cristiana delle banlieues parigine. I risultati dello studio furono scioccanti e vennero pubblicati nel volume La Francia – paese di missione? (1943). Detta in breve, la Chiesa doveva ripensarsi completamente. In precedenza il concetto di missione voleva dire andare ad esempio in Africa e impiantarvi la Chiesa.

Il passo successivo era quello di inoculare la Chiesa e il cristianesimo nella cultura africana. Oggi la Chiesa francese parla di un «proporre», e da ultimo non vi è una visione di missione più moderna di questa. Ti propongo la fede; e anche la mia vita come credente cattolico è una proposta.

Proporre la fede ha ispirato anche i vescovi tedeschi. Nel 2000 è stato pubblicato il documento Tempo di semina. La parte migliore di questo testo è la lettera di Joachim Wanke, in cui possiamo trovare la seguente affermazione: «che una Chiesa locale non cresca può essere qualcosa di sopportabile, ma che una Chiesa locale non voglia crescere è del tutto inaccettabile».

Eppure fino a oggi a noi tedeschi manca una concezione convincente che apra sulla missione, sull’evangelizzazione, su un ingresso convinto nelle dinamiche odierne del paese. Siamo un po’ persi a dire il vero. Ma costruire una teologia della missione su questa frase di Wanke è il mio desiderio rispetto alla teologia stessa. Infatti, la missione era e rimane uno, se non il compito della teologia e della prassi cristiana.

Tommaso d'Aquino

Le somme di Tommaso erano lo svolgimento di un compito ricevuto dal Maestro dell’ordine, che aveva bisogno di uno strumento adeguato per la sua opera missionaria in Nord Africa e Spagna al fine di poter discutere con popolazioni che avevano una religione diversa dal cristianesimo. Oggi come allora è decisivo presentare il cristianesimo in un linguaggio comprensibile, convinto e all’altezza del tempo.

Su questo possiamo imparare ancora dai francesi, che parlano di un condividere la fede (partager la foi). In tedesco questo risuona in maniera estremamente intellettuale e quasi senza riferimento alla vita concreta; ma in francese «partager» ha una valenza immediatamente esistenziale, terrena. Quando condivido la fede do via un pezzo di me stesso.

In Germania pensiamo che si possa trasmettere la fede come se fosse un bicchiere d’acqua: «ecco qui, bevi». Ma in questo modo io non do me stesso nel processo di trasmissione della fede, anzi io rimango a distanza dal gesto di consegna della fede – che in tal modo è qualcosa di clinico, anestetizzato, come sono spesso tra l’altro le nostre chiese.

Un esempio. Quando ero direttore del liceo di Handrup ho avuto un conflitto con il parroco locale che non voleva che nella chiesa parrocchiale appena restaurata si celebrasse una messa di rorate con delle candele vere. Aveva paura che il nuovo pavimento di terracotta potesse venire rovinato dalle macchie di cera, così che per poter celebrare la messa con i ragazzi del liceo (e con le candele) ho dovuto lottare parecchio.

Papa Francesco vuole una Chiesa ammaccata dalla realtà della vita, desidera che noi cattolici usciamo dai nostri recinti sicuri e ci sporchiamo con la materia di cui è fatto il quotidiano degli uomini e delle donne. Le nostre chiese sono sovente sì tutte belle pulite, ma anche tremendamente vuote rischiando così di diventare dei musei.

Gli abusi

Chi riflette sulla nostra Chiesa in questi tempi, arriva ben presto al tema della violenza sessualizzata e dell’abuso del potere. Ci stiamo confrontando su ciò a molti livelli: istituzionale, criminale, psicologico. Si pongono questioni riguardanti le strutture, che sono urgenti e avrebbero dovuto essere risolte da lungo tempo.

Ne fanno parte la questione del ruolo della donna nella Chiesa e quella dei processi di partecipazione a cui abbiamo dato il la. Ci attendono grossi cambiamenti, che rischiano però di finire nel nulla se non consideriamo il tema degli abusi anche da un punto di vista esistenziale-teologico.

Immaginatevi la seguente scena: apparecchiamo in maniera completamente nuova la nostra tavola, nuovi piatti, nuove posate, nuova tovaglia, nuovi posti a sedere… ma non c’è niente da mangiare…

Riforma della Chiesa

La crisi della Chiesa può essere affrontata solo se non perdiamo di vista la nostra meta maggiore, il nostro cibo se così volgiamo dire – ossia: come annunciamo oggi il Vangelo? Come testimoniamo la lieta novella che è Gesù Cristo, questa promessa inafferrabile di Dio? Come viviamo la forza della gioia evangelica con il suo rilievo per la società?

Una riforma senza missione è qualcosa di completamente senza senso.

L’istituzione

La mia immagine è quella di percepire la Chiesa come corpo, come organismo vivente, con tutte le sue bellezze e ferite, nella sua pluralità e divenire. Noi tedeschi pensiamo con la testa, poi non c’è più nulla che serve a pensare… e poi gli abusi, i crimini, i fallimenti. In quanto tedeschi, abbiamo una razionalità talmente astratta che non siamo in grado di lavorare con una metaforica così imperfetta come quella del corpo.

La Chiesa è istituzione, potere e gerarchia; viene sempre descritta come qualcosa che sta davanti a noi e mai come qualcosa che ci appartiene, di cui siamo parte. Della corporeità come visione ecclesiologica in tedesco non vi è praticamente traccia (in italiano vi sono addirittura due termini: corporalità e corporeità). Il significato dei due termini è praticamente impossibile da rendere semanticamente in tedesco.

Il sensuale, il significato proprio, si perde per via. Nella Chiesa abbiamo spesso perso il profumo delle parole. Parliamo del profumo, ma non lo odoriamo più.

Non si tratta di mettere mano a una teologia completamente nuova. Ma nella storia della Chiesa vi sono sempre stati temi fulminanti come l’apparizione di un meteorite. Nel 1755 un terremoto ha sepolto, nel giorno di Ognissanti, migliaia di persone nella chiese di Lisbona. In una chiesa, però, i presenti sono sopravvissuti – non vi fu alcuna scossa. Una marea umana vi si recò per ringraziare Dio. E cosa successe? Vi fu un terremoto che seppellì tutti quanti. Una catastrofe per gli esseri umani. Dio come ha potuto permetterlo?

La stessa domanda, che torna ogni volta di nuovo. Già prima i romani si interrogavano sul perché del sacco della città eterna per mano «barbari», che diedero a fuoco la città distruggendola nel VI secolo (e poi di nuovo in occasione del Sacco di Roma del 1527). Nel nostro tempo si pone, dopo Auschwitz, con particolare veemenza la questione della volontà di Dio.

L’abuso di potere è una ferita profonda per la Chiesa. E non possiamo fare come se non dovessimo riflettere teologicamente su questo. Infatti, fino a quando lasciamo fuori la teologia quando ne va di abuso, allora non saremo in grado di giungere alle radici della questione. Naturalmente, vi sono molte teologhe e teologi che attualmente si confrontano con la questione dell’abuso di potere e della violenza sessualizzata.

Ma questo, per me, è ancora troppo poco. Quello che a mio avviso manca è la profondità esistenziale del dibattito. Anche la Chiesa ha un corpo, come ci indicano i francesi, un body, che respira, odora, puzza. Ma in Germania abbiamo prodotto una tale idealità, che abbiamo finito per dimenticare il corpo.

Il corpo dimenticato dalla Chiesa

Ci sembra che le sole riforme siano in grado di risolvere da sé il nocciolo duro del problema. Certo, i cambiamenti sono necessari. La percezione delle cause «sistemiche» è altrettanto necessaria. Ma anche questo non basta da sé. La ricerca di una colpa individuale, di una colpa gerarchica e di una responsabilità istituzionale è dovuta e aiuta realmente.

Ma guardando le cose a partire dalla fede, dal fondamento della Chiesa, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non ci sarà mai una Chiesa ideale – una Chiesa pura, una perfetta o anche solo santa. Ciò che a prima vista può sembrare una scusa o un palliativo, rappresenta piuttosto lo sguardo profondo gettato sulla necessità di redenzione degli uomini.

Come in occasione del terremoto di Lisbona, ci deve essere posto anche per la disperazione e lo sconcerto, così come per la consapevolezza per la continua ricerca della santità che però noi non possiamo «produrre».

Il DNA della Chiesa

Quando parlo di abuso del potere come qualcosa che fa parte del DNA della Chiesa intendo con più precisione questo: certo, la Chiesa è santa come confessiamo ogni domenica nel Credo; ma, allo stesso tempo, essa ha bisogno di una purificazione nel senso di una conversione permanente.

Si tratta di qualcosa che possiamo trovare anche nella Lumen gentium. Già il Concilio Vaticano II pensava a presentare la Chiesa come istituzionalmente peccatrice, non solo come additivum dei peccatori ma anche in quanto istituzione. La Chiesa è santa in quanto è da Dio e peccatrice in quanto dagli uomini.

Il peccato originale e le sue conseguenze riguardano il singolo e anche la Chiesa. Se in riferimento a Eugen Drewermann parlo di strutture del male, non vuol dire che la Chiesa sia un agglomerato di peccati, ma semplicemente che anche nella Chiesa sono presenti strutture di peccato, e che la Chiesa vive all’interno di queste ultime. Strutture celesti sulla terra non si daranno mai.

Nel 1961 Hans Urs von Balthasar pubblicò un articolo dal titolo Casta meretrix; una comprensione della Chiesa come casta meretrice che risale fino ai Padri. Facciamo dunque il punto di cosa voglio dire quando parlo del DNA peccatore della Chiesa: da quando c’è la Chiesa, ossia dai tempi dell’Evangelo, abbiamo una ricerca ossessiva del potere quale sua parte costitutiva – questo è il DNA.

Il potere nella Chiesa

E abbiamo a che fare anche con l’abuso di potere, perché questa è una delle tentazioni fondamentali degli uomini. Già fin dai discepoli di Gesù, che hanno litigato fra di loro e quando Gesù gliene ha chiesto il motivo la risposta è stata che stavano discutendo su  «chi fosse il primo e chi il secondo». Seconda scena: le madri degli apostoli vanno da Gesù e lo pregano di impegnarsi affinché il loro figlio possa diventare, su da lui, ministro. Negli Atti degli Apostoli Pietro rimprovera a due membri della comunità di essersi arricchiti a costo della comunità stessa.

Alcuni mi hanno accusato di distruggere la Chiesa facendo affermazioni del genere. Dico solo che la Chiesa è anche un’istituzione umana – e cosa altrimenti? E in quanto istituzione umana essa non è meglio di altri gruppi di uomini e donne, un’associazione o uno stato, e ha bisogno di guida, regole e controlli.

Allo stesso, ogni volta che discutiamo sulle riforme, ci deve essere chiaro che la Chiesa è un corpo che ogni tanto puzza, che essa rimane peccatrice. Dobbiamo imparare che la nostra fede non ci risparmia disperazione e viltà, mancanza di vie di uscita e immobilità. Magari con le nostre riforme possiamo migliorare la forma della Chiesa, forse possiamo addirittura renderla più vitale.

Ma solo quando saremo in grado di percepire e custodire a dovere la dimensione esistenziale della fede, e per fare questo dobbiamo guardare oltre il bordo del piatto che sta davanti a noi e lasciarci provocare da quello che può venire da fuori, allora potremo disporre della forza necessaria al rinnovamento della Chiesa – e fare senso di tutto ciò.

Charles Lohr viveva di passione per Raimondo Lullo, il catalano. Nella sua esperienza mistica Lullo aveva percepito la fragranza dell’Altissimo, il profumo di Dio. Lullo non si vergognava di consegnarsi al totalmente altro. Per lui rappresentava qualcosa di vitale che la Chiesa non si chiudesse in se stessa riducendosi a essere poco più di un  museo; ma che essa rimanesse vivente cercando di interloquire con tutti gli uomini e le donne della società in cui viveva.

Così disposto al vissuto reale, Lullo imparò l’arabo e studiò il Corano. Egli sapeva bene, infatti, che solo lo Spirito Santo è in grado di porre fine al nostro essere senza linguaggio e senza parole adeguate.

In collaborazione con l’autore pubblichiamo la traduzione italiana dell’articolo di Heiner Wilmer, vescovo di Hildesheim, Mehr Existentielles wagen apparso sul numero di settembre di Herder Korrespondenz.

in settimananews

Monaci metropolitani

Esistono i monaci metropolitani? Mi piace pensare di sì e pensare che nelle nostre piccole e grandi città ci sono gruppi più o meno grandi di uomini e di donne che, nel silenzio delle loro abitazioni, tessono una fitta trama di preghiera a beneficio di tutti quanti noi. Qualche volta è possibile riconoscerli, alla fermata dell’autobus, in treno, nella sala d’aspetto di un medico, per il libro che leggono, per il modo di salutare, di rispondere con garbo e tenerezza a qualche domanda. A volte non si distinguono, ma ci sono.

Sono convinta di averne incontrati quattro, molto originali, in un luogo altrettanto insolito: il palcoscenico dell’auditorium Santa Chiara di Trento. Si chiamano The Sun e sono una rock band veneta che da qualche anno, prima in sordina e ora sempre più conosciuta e ammirata, riempie i luoghi in cui suona di giovani prevalentemente provenienti dagli ambienti giovanili parrocchiali, ma anche di insegnanti, genitori, educatori e seminaristi, oltre che di giovani “in ricerca”.

Che cosa c’entra con la premessa iniziale? Cercherò di spiegarlo. La storia di questo gruppo parte nel 1997 quando quattro amici di Thiene (Vicenza) fondano una band e cominciano a suonare. Il front-man compone testi e musiche in inglese, la bravura del gruppo cresce e arriva il successo. Nel giro di una decina d’anni incidono album, aprono concerti di band internazionali e suonano in Italia, in Europa e anche in Giappone. Si chiamano Sun Eats Hours, che fa tanto internazionale ma è la traduzione del detto veneto: “Il sole mangia le ore”, che sta per “non perdere tempo”.

Il successo è grande e questi quattro giovani si immergono completamente nel mondo che lo circonda. Ritmi di vita forsennati, sempre in viaggio, interviste, fans si accompagnano presto alle prime esperienze di sballo: sesso e droga, ma anche il semplice alcool, sono il leit motiv che caratterizza le loro giornate. Una vita fatta di eccessi che inizia a minare alla base il rapporto di amicizia tra i componenti del gruppo.

All’apice del successo il gruppo si sfalda. Riccardo, il batterista, viene allontanato; il leader del gruppo è in piena crisi creativa. Quel lavoro che coincideva con la sua passione più grande, la musica, era sempre più difficile. Francesco ricorda inoltre che in un mondo, quello musicale, in cui spesso si parla e si canta di libertà, fraternità, sogni da realizzare, queste erano le cose che concretamente non esistevano.

C’erano solo disagio, vuoto interiore, falsità e tanta, tanta tristezza; si disgregano i legami di amicizia che fino a quel momento erano stati la ragione di esistere della band e della vita di ciascuno di loro. Anche i rapporti con i familiari e la vita sentimentale vanno in pezzi. Scrive Francesco: «E infine la domanda che più mi assillava, seppure non fosse la più complessa: “Perché, pur avendo la vita che ho sempre sognato e che la gran parte dei miei coetanei vorrebbe vivere, non sono felice?”».

***

Il 10 dicembre 2007, la svolta: inaspettata, improvvisa, totale. Un impegno che salta, la serata improvvisamente libera. La madre gli propone qualcosa di decisamente insolito. «Sai, Francesco, questa sera in una parrocchia qui vicino, a San Sebastiano, fanno un incontro che potrebbe fare al caso tuo!». Il volantino recita: Corso di evangelizzazione Giovanni “Alla sequela di Gesù, vieni e vedi”. Francesco ricorda la perplessità di fronte alla proposta: non solo da tempo si era allontanato dalla vita cristiana ma anche la sua famiglia, pur avendo una sensibilità di fondo per gli aspetti genericamente spirituali dell’esistenza, non era di convinti praticanti. Però, di fronte al nulla di una serata vuota e con mille dubbi e pregiudizi, decide di andare: in fondo non aveva nulla da perdere.

All’entrata del locale in cui si svolgeva il corso viene calorosamente accolto da una bella ragazza e la serata inizia. Per chi scrive, non più così giovane come il protagonista, ma invece abituata da una vita a frequentare ambienti parrocchiali di varia pezzatura, le parole di Francesco sono una mazzata: per questo le trascrivo integralmente.

«Ero convinto che avrei dovuto sorbirmi il sermone di uno zelante prete e per questo mi ero preparato esortando me stesso a tenere duro per almeno venti minuti. Invece era ben peggio del previsto: gli animatori presenti dettero il via a dei canti, con annesso invito a partecipare mediante movimenti e mimiche coreografiche. Per chiarire il mio stato d’animo di quel preciso momento non mi è consentito riportare per iscritto i primi trenta secondi dei miei pensieri, però confesso che la circostanza dei bans (balli animati) è tra quelle che più si avvicina alla mia idea di inferno».

Dopo questi attimi di pura follia e una breve introduzione del parroco, un gruppo di laici mette in scena la storia di Gesù attraverso gli occhi del discepolo Giovanni e lo fa con gioia autentica, con la luce negli occhi, con semplicità e autenticità. Francesco ne resta colpito; rimane fino alla fine dell’incontro e, sempre più perplesso, una volta a casa prende in mano un piccolo vangelo verde e comincia a leggere l’inizio del vangelo di Giovanni. Ne esce completamente cambiato. Rimette in discussione tutti i pregiudizi su Dio, Chiesa, preti e quant’altro, frequenta regolarmente l’intero corso per tutta la settimana e prende parte alla messa conclusiva.

«Fu come se fosse stata la prima volta: l’Eucarestia ebbe finalmente un senso per me. Quel giorno piansi di gratitudine perché vidi con gli occhi del cuore un disegno meraviglioso espandersi lungo tutta la mia vita, ben oltre la mia comprensione».

Nella vita di ciascuno di noi si intrecciano incontri significativi, anche quelli con la morte. Il 18 dicembre muore la nonna di Riccardo, il batterista del gruppo. Dopo il funerale il parroco parla con i due giovani e fa loro una proposta ancora più insolita e bizzarra.

«Che ne dite di iniziare a fare un’ora di Adorazione Eucaristica settimanale qui nella Cappellina dell’Adorazione?… E quando sarebbe? È una delle ore più significative: dall’una alle due di notte, tra il martedì e il mercoledì di ogni settimana».

Impulsivamente i due accettano senza sapere dove andranno a finire e, di fatto, all’appuntamento stabilito per il febbraio successivo, si presenta solo Francesco, che nel frattempo continuava a meditare per conto suo e a scoprire, oltre alla messa domenicale, inizio e fine di ogni settimana, la novità della preghiera confidenziale quotidiana. Inizia così, di botto, la sua nuova “carriera” di adoratore di Gesù Eucarestia, al quale presenta la sua vita con il suo passato contorto e il suo futuro incerto. Di fatto però il cambiamento è stato così veloce e strabiliante che il musicista tiene per sé quanto è successo, per capire meglio, per “abituarsi” un po’ e forse anche perché, conoscendo gli amici, sa che per parlarne con loro bisogna maturare una convinzione un po’ più profonda.

***

Dal punto di vista musicale in questo periodo si concretizza provvidenzialmente il sogno della “Casa della Creatività” di Francesco e di Matteo (“Lemma”), bassista del gruppo. Trovano una casa in campagna dove trasferirsi ad abitare e dove potersi dedicare totalmente alla musica, per comporre, suonare, registrare e incontrare amici. Francesco conosce sempre più profondamente altre persone, preti e laici, che lo accompagnano nel suo cammino di rinascita spirituale. Torna a comporre canzoni, questa volta in italiano. Si rende conto che ciò che scrive non solo è totalmente diverso da ciò che scriveva prima ma soprattutto che ora nella musica e nei testi che scrive c’è davvero se stesso e ciò lo rende felice. Passano le settimane e i mesi in un’alternanza di creatività nascosta e di costante preoccupazione per il lavoro: album, tournée, casa discografica…

Francesco decide di confidare a Matteo il motivo del suo cambiamento artistico. Matteo, faticosamente, lo accoglie riconoscendosi anche lui nella verità e nella bellezza delle nuove canzoni, dando una svolta nuova e più profonda all’amicizia di una vita. Poi tocca a Riccardo, sempre più triste e solo nella sua dipendenza dall’alcool, che viene portato quasi recalcitrante a un incontro di evangelizzazione dal quale esce positivamente scosso. Infine Gianluca (“Boston”), quarto componente della band e alla vigilia della laurea, viene coinvolto da Francesco con il racconto di quanto gli è accaduto e si riavvicina non solo agli amici ma anche al nuovo tipo di canzoni, seppure con molte perplessità.

Il cambiamento è compiuto e, di comune accordo, decidono di chiamarsi The Sun, in onore di quel Sole che con la sua luce infinita ed eterna aveva davvero definitivamente illuminato le loro esistenze. Passano ad autoprodurre un album con le nuove canzoni.

Trascorrono i mesi e si succedono quelle che Francesco definisce “Dio-incidenze”: la novità di ciò che stava sperimentando tutta la band, riflessa nel nuovo modo di vivere e di suonare, comincia a trapelare nel mondo dei discografici. Così nel dicembre 2009 i The Sun firmano un contratto con la Sony Music, che è interessata a seguirli e crede nella musica che propongono. Le ispirazioni per altre canzoni continuano ad arrivare insieme a interviste, video, articoli sui giornali. Nonostante i quattro amici tornino ad avvicinarsi a quel mondo che solo due anni prima aveva seriamente minacciato di travolgerli e schiacciarli (come gruppo musicale, ma soprattutto come uomini), questa volta l’amicizia, nutrita da un continuo e costante intenso cammino di fede e di preghiera, supera la prova: Riccardo, dopo l’ennesima caduta nell’alcool, inizia un serio percorso di disintossicazione che non ha più avuto ripensamenti.

Giugno 2010: esce l’album Spiriti del Sole e inizia il tour promozionale. Progressivamente, attraverso il passaparola, il disco si fa notare e al gruppo comincia ad essere data l’etichetta di rock band cristiana, in alcuni casi con molto affetto, in altri come arma di critica.

Il 19 novembre 2010, il passaparola raggiunge… Betlemme! Un giovane prete italiano che vive accanto ai cristiani di Terrasanta invita il gruppo per un concerto di solidarietà. I ragazzi accolgono con gioia e come dono del Cielo questa occasione e il 24 febbraio 2011 partono per la nuova avventura. Il viaggio è ricco di esperienze indimenticabili e di incontri significativi con diverse realtà di sofferenza e di solidarietà che resistono in quella terra martoriata. Non solo l’emozione di visitare i luoghi di Gesù ma anche la perplessità e la rabbia per la situazione umana che il muro eretto a partire dal 2002 dallo Stato di Israele ha prodotto: divisione, odio, sospetto e difficoltà quotidiane di ogni genere che la popolazione locale è costretta a subire. Una situazione che coinvolge anche i giovani soldati israeliani ai posti di blocco. A questo proposito memorabile è il racconto di un’esibizione improvvisata e imposta in piena notte ai militari israeliani di un checkpoint. Ecco come lo descrive Francesco.

«Sulle note di San Salvador (neanche a farlo apposta), questi militari, maschi e femmine, iniziano a ballare, ridere, muoversi, saltare. Mentre canto, una giovane ragazza finge di avere una chitarra al posto del mitra e ‘suona’ la sua arma come se fosse uno strumento: è stupendo! Ecco il miracolo! Non è necessario cercare nel soprannaturale: i miracoli sono qui, di fronte ai nostri occhi. Una militare che dimentica il posto in cui è e che per alcuni minuti riesce a immaginare una chitarra al posto del mitra è un miracolo! Dopo la suonata i soldati sembrano solo dei ragazzi con dei vestiti di carnevale addosso. Ci chiedono di fare foto, scambiamo delle battute e poi, dopo esserci abbracciati, ci salutiamo».

Molte settimane, riflessioni ed esperienze dopo portano alla pubblicazione del secondo album Luce, nel giugno 2012. Il gruppo è ormai lanciatissimo e riflette seriamente sulla propria vocazione perché sono sempre più frequenti e numerose le persone, i gruppi, gli educatori che vogliono conoscere la loro storia e farla conoscere ai giovani. Il loro non è più un semplice lavoro, è una vera e propria missione e i concerti diventano sempre di più dei concerti-testimonianza. Monsignor Gianfranco Ravasi li invita alla LUMSA nel febbraio 2013 per parlare di culture giovanili di fronte a vescovi, cardinali, scrittori, intellettuali ed artisti. Successivamente incontrano sia papa Benedetto che papa Francesco, suonano alla Giornata Mondiale della Gioventù e girano instancabili il mondo per cantare e raccontare la loro storia di redenzione.

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E i monaci metropolitani? A maggio 2014 è uscito il libro La strada del Sole (Rizzoli), con la prefazione del cardinal Ravasi, nel quale Francesco Lorenzi racconta con semplicità e sincerità la storia umana e spirituale sua e dei suoi amici. Da quelle pagine, che ho letto d’un fiato in pochi giorni, ho tratto le citazioni presenti in questo articolo. Al di là dei fatti salienti che ho cercato di esporre mi ha colpito la dimensione spirituale del fenomenoThe Sun, che vive e si nutre di preghiera comunitaria, Messa e adorazione eucaristica, sia a “casa” che dovunque si trovino a viaggiare.

Come donna e mamma che non ha dimenticato i giorni in cui da giovane cercava “luce” per capire quale fosse la propria vocazione non ho potuto fare a meno di notare come le donne siano progressivamente e pacificamente uscite dalla vita di questi giovani. L’autore racconta di alcune sue esperienze sentimentali, prima e dopo la conversione, iniziate con tutto l’entusiasmo e l’impegno possibili e poi terminate. Sembra di capire che la riscoperta della fede e l’urgenza del comunicarla agli altri, a tanti altri, non possa convivere se non con coloro che hanno fatto e continuano a fare la stessa esperienza. Leggendo pensavo e speravo di trovare una conclusione secondo la quale uno, due o tutti i componenti del gruppo avessero trovato una compagna con la quale condividere tutto questo e nella quale trovare quel sostegno per continuare a crescere. Pare invece di no. È come se le due esperienze fossero incompatibili.

Come non pensare allora a tutte le classiche (e anche un po’ retoriche) immagini secondo le quali, pur affermando la bellezza e l’importanza della vita matrimoniale, si presenta quella sacerdotale o religiosa come un “di più” da tutti i punti di vista? Un amore più grande, più difficile, più impegnativo, più bello, più gratuito, più universale, più disinteressato… “più”. Forse è davvero così? L’immagine che mi sono fatta leggendo è proprio quella di una piccola comunità monastica. Questi quattro giovani vivono insieme nella “Casa della Creatività”, qualcuno stabilmente qualcuno a periodi, pregano ripetutamente insieme, lavorano con il canto e la musica, condividono, ospitano, incontrano e poi escono per annunciare il Vangelo di Gesù con lo stile contemporaneo che li contraddistingue: ecco i nuovi monaci.

Con il concerto cui ho partecipato ho fatto un’esperienza decisamente fuori dal comune. Il racconto sincero della propria vita fatto a cuore aperto da questi bravi musicisti si può definire una vera e propria catechesi, e una catechesi davvero incisiva, che colpisce e rimane in mente. Non è infatti comune sentire giovani che parlano apertamente di questi temi e che confidano le loro convinzioni senza vergogna. Ma soprattutto ho sentito parlare di vita da non sprecare, di morte che arriverà per tutti, di vita eterna, di risurrezione (inovissimi!). Da tempo non sento a messa una predica su questi temi, fatta con la semplicità dell’ovvio: è così, ricordiamocelo!

Anche per questo, grazie ai The Sun, lunga vita a voi e al vostro “esperimento monastico”: continuate a regalarci questi attimi di eternità, a ricordarci il nostro destino di figli infinitamente amati dal Padre celeste, salvati dal sacrificio di Gesù e guidati dal suo Spirito sulle strade della vita.

Prima pubblicazione su “Il Margine” (n. 9/2014).

Il Gloria e la colletta: dal canto al sacro silenzio

Adorazione dei magi

Don Ubaldo è perplesso: lui conosce il Gloria della Missa de Angelis, ma don Asdrubale gli ha detto che non lo canta nessuno: ha trovato un canto carino che tutti possono cantare, con un bel ritornello che richiama il Gloria. I bambini possono scandire il tempo battendo le mani e tutto diventa più festoso e gioioso. «Mah!» borbotta don Ubaldo e lascia fare un po’ sconsolato.

In effetti, i riti di introduzione terminano con il canto del Gloria e l’orazione colletta.

«Il Gloria è un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello. Il testo di questo inno non può essere sostituito con un altro» precisano le norme del Messale Romano (PNMR 53).

Don Ubaldo ha ragione ad essere perplesso. Lo si canta nelle domeniche fuori del tempo di Avvento e di Quaresima; e, inoltre, nelle solennità e nelle feste, e in celebrazioni di particolare solennità. Questo è un canto fra i più antichi di tutta la liturgia e nasce come inno per la liturgia delle ore. Entra nella liturgia eucaristica perché riecheggia il canto degli angeli narrato dal Vangelo di Luca per la nascita del Salvatore (cf. Lc 2,14).

È un canto di lode, non una riflessione teologica. È un inno trinitario che loda il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Non ha altri grandi valori se non quello di rendere più solenne, festosa, gioiosa la liturgia. Proprio perché nasce come inno, la sua natura richiede il canto: al canto degli angeli si unisce il canto della Chiesa. Privato della musica e del canto, il Gloria perde il suo significato. Infatti, questo canto non accompagna un rito, ma è rito a se stante: è un momento di lode. Quindi anche don Asdrubale ha ragione a voler far cantare tutti. Ma bisogna trovare una musica che mantenga la solennità e non svilisca o intacchi il testo in un vocio stralunato pieno di confusione.

La colletta conclude i riti introduttivi che, abbiamo visto, servono per condurci da una situazione ad un’altra, per generarci come Chiesa che celebra il suo Signore.

La conclusione è affidata ad un momento di sacro silenzio. Ricordiamo che solo alla parola silenzio viene dato questo aggettivo: è solo il silenzio che è sacro. In un’epoca verbosa come la nostra, è importante sottolineare questo aspetto.

Il Messale prescrive: «Il sacerdote invita il popolo a pregare e tutti insieme con lui stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera» (PNMR 54).

È questo il momento vero della colletta: non soltanto quando il sacerdote pronuncia le parole presidenziali per cui: «Il popolo, unendosi alla preghiera, fa propria l’orazione con l’acclamazione Amen», ma quando tutti insieme veniamo raccolti dal silenzio della preghiera. Infatti, il termine “colletta” deriva dal verbo colligere, che vuol dire raccogliere, quindi raccogliere la preghiera. In quel momento di silenzio avviene la raccolta della preghiera. Quindi la colletta si realizza in quel silenzio dell’assemblea. Paolo dice che: «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26). In quel silenzio non chiediamo nulla, non diciamo nulla: sappiamo soltanto che il nostro spirito geme e grida: «Abbà-Padre!».

Questo deve avvenire realmente e ritualmente. La Chiesa ci dona il silenzio nella liturgia perché questo avvenga. Il presbitero dice: «Preghiamo», e deve esserci silenzio, un vero e palpabile silenzio, che scuota i presenti; dove anche i bambini, che sono sempre agitati, si placano perché percepiscono qualcosa di importante, di grande e sconvolgente. Tutto tace.

La partecipazione attiva dei bambini avviene facendo loro percepire in modo pre-razionale l’esperienza della preghiera della Chiesa.

San Giovanni Crisostomo, commentando la colletta, dice: «… e si fece un grande silenzio». Mi viene in mente quello che succede all’apertura del settimo sigillo nell’Apocalisse: «Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora» (Ap 8,1).

Quel raccogliersi degli spiriti celesti nell’adorazione e nell’attesa, in uno dei momenti più decisivi della storia del regno di Dio, deve insegnare a noi, creature così agitate, così facilmente distratte, il raccoglimento in presenza delle rivelazioni di Dio per meditarle; il raccoglimento in presenza delle opere di Dio nella natura e nella storia per adorare il loro Autore; il raccoglimento in presenza delle vie di Dio riguardo a noi stessi. Non per nulla Dio ci dà la calma della sera e il silenzio delle notti, il riposo santo della domenica e i tempi della prova in cui ci chiama a rientrare in noi stessi e ci parla, nel raccoglimento dell’anima, a tu per tu.

È un silenzio che riusciamo ad avere qualche volta al racconto dell’istituzione, ma che raramente troviamo in questo punto così importante dell’inizio generante della liturgia.

Dopo il movimento, il passaggio, il canto della lode, veniamo generati dal sacro silenzio: l’orazione di colletta raccoglie, nel mistero che celebriamo, tutti i sussulti della nostra anima e della nostra vita.

da Settimana News

12 Settembre: Santissimo Nome di Maria, Anniversario Mons. Caprioli e partenza don Daniele

Domani, 12 settembre, è la festa del Santissimo Nome di Maria. Auguri di buon onomastico a chi porta questo Nome, da solo o insieme ad altro nome! E domani sono 21 anni giusti che monsignor Caprioli è Vescovo. Non ci saranno i festeggiamenti come lo scorso anno, per il XX. Ma chi vuole unirsi al suo rendimento di grazie nella Messa, può farlo stasera in Santa Teresa alle 18.30 o domani in Cripta alle 10.30. Chi non può preghi per lui, soprattutto per quanto sta soffrendo in questo tempo di cambiamenti. Si avvicina infatti la mia partenza. Proprio tra un mese esatto, la sera di venerdì 11 ottobre, alle 20.30, il Vescovo Massimo mi introdurrà nella nuova Unità Pastorale di Pieve Modolena.
Il momento in cui potremo unire tutti i saluti sarà la domenica precedente, 6 ottobre, alle 11 in Cattedrale, quando presiederò la mia ultima Messa da parroco con voi e per voi.
Buon pomeriggio, d. D.

11 Settembre 2019

Trovata l’Emmaus biblica?

Recenti scavi in una fortezza ellenistica di 2.200 anni fa a Kirjat Jearim vicino di Abu Gosch offrono probabilmente dei chiarimenti sulla localizzazione biblica di Emmaus. Come riferisce il quotidiano Haaretz, del 1° settembre scorso, secondo gli archeologi, i reperti convaliderebbero la teoria secondo cui il baluardo potrebbe essere il luogo indicato come Emmaus nel primo libro dei Maccabei e dall’antico scrittore giudeo Giuseppe Flavio. I risultati della ricerca saranno presentati il 24 ottobre prossimo a Gerusalemme.

Gli archeologi dell’università di Tel Aviv e del College de France hanno scoperto le mura di un’antica fortezza di 2.200 anni fa. Questa – secondo i ricercatori – potrebbe essere ricondotta al generale seleucida Bacchide che durante la rivolta giudaica contro i seleucidi nel 160 a.C. uccise il condottiero Giuda Maccabeo. Le mura della fortezza risalgono perciò alle prima metà del secondo secolo prima di Cristo, e sono costruite sopra o accanto ad una fortificazione più antica. La costruzione fu rinnovata sotto i Romani nel 1° secolo dopo Cristo.

La datazione si basa su reperti in ceramica, su altri reperti archeologici e sulla cosiddetta luminescenza otticamente stimolata (OSL), un metodo in cui l’ultima luce del sole viene misurata su determinati materiali

Bacchide, secondo i resoconti biblici, e anche secondo Flavio Giuseppe, riconquistò Gerusalemme ed eresse una cinta fortificata agli ingressi della capitale. Secondo i ricercatori, la costruzione di Bacchide è l’unica fortezza conosciuta di queste proporzioni nella Giudea di quel tempo.

Sebbene Kirjat Jearim non compaia nella lista di queste fonti, ci sono molte cose che identificano la fortezza con la località di Emmaus ad ovest di Gerusalemme.

A favore della tesi parla il fatto che l’Emmaus neotestamentaria , secondo il Vangelo di Luca, si trovava a 60 stadi da Gerusalemme, ciò che a sua volta corrisponde alla distanza di 11 chilometri tra Gerusalemme e Kirjat Jearim-Abu Gosch e Gerusalemme.

Tre località pretendono di essere Emmaus

Il Vangelo che parla dei cosiddetti discepoli di Emmaus (Lc 24,13-25) viene tradizionalmente letto nella liturgia del lunedì di Pasqua. Luca racconta come due discepoli incontrano Gesù risorto, senza tuttavia riconoscerlo. Solo dopo che egli spiegò loro le Scritture e spezzò il pane, si aprirono loro gli occhi.

Attualmente tre località pretendono di essere l’Emmaus biblica: oltre ad Abu Gosch favorita in particolare dai crociati, competono “Emmaus-Nikopolis” (Amwas) vicino a Latrun ed Emmaus-Qubeibeh in Giordania occidentale.

Kirjat Jearim ha un ruolo nella Bibbia in quanto secondo luogo di temporanea permanenza dell’Arca dell’alleanza prima di essere trasferita a Gerusalemme dal re David. Tra le altre cose, gli archeologi hanno trovato negli scavi effettuati dal 2017 dei residui di un culto o di un centro amministrativo dell’8° secolo avanti Cristo.

settimananews

Il clero in Italia: sfide e riconoscimenti

da Settimana News

Il prof. Franco Garelli, docente presso l’Università di Torino, ha tenuto questa relazione a Torreglia (Padova) in occasione del convegno del Centro di Orientamento Pastorale (COP). Dopo aver riportato e confrontato i dati aggiornati sulla presenza del clero nella nostra penisola (cf. SettimanaNews, 24 agosto 2019), il relatore, in questa seconda parte, si sofferma particolarmente sulla figura del prete e sulla funzione della parrocchia.

L’analisi della condizione del clero in Italia (con particolare riferimento al clero diocesano) non si esaurisce nella valutazione della sua presenza numerica e di come esso sia distribuito sul territorio nazionale, nelle varie regioni ecclesiastiche e numerose diocesi (cf. qui).

A questa prospettiva occorre affiancare altre riflessioni relative, da un lato, al consenso e alle attese che attorniano attualmente questa figura religiosa e, dall’altro, al modo in cui i diretti interessati interpretano questo ruolo nel tempo presente. Si tratta, in altri termini, di accennare alle sfide che interpellano le migliaia di sacerdoti impegnati oggi nell’azione pastorale in Italia, in uno scenario che si presenta ben diverso da quello del passato e ricco di ambivalenze.

Che cosa emerge, al riguardo, dalle indagini empiriche svolte in tempi a noi vicini sulla condizione del clero; o da quelle che, essendo incentrate sulla religiosità della popolazione, contengono anche alcune informazioni su questa figura religiosa?

Il vento anti-istituzionale

Si può anzitutto osservare che i sacerdoti sono “operai di una vigna del Signore” che non gode nell’Italia contemporanea di grande reputazione. È del tutto evidente, infatti, che oggi spira un vento anti-istituzione, anti-sistema, che coinvolge anche la Chiesa cattolica, che pur da noi è ancora assai radicata sul territorio e nelle dinamiche sociali. Molti prendono le distanze da una Chiesa che giudicano (facendo proprie immagini pubbliche negative) vecchia, stanca e malandata.

Tuttavia, quella che rifiutano è la Chiesa istituzione, descritta perlopiù come “lontana dai bisogni della gente”, “fonte soltanto di precetti”, “più giudice che madre”.

Mentre, per contro, si tende a rivalutare la Chiesa di base, i preti di strada e quelli che si spendono sul territorio, le figure religiose non conformiste (tra le quali, vari intervistati annoverano ad esempio don Ciotti e il compianto don Gallo).

preti italiani

Ma, oltre a queste figure carismatiche, il consenso va anche a quei preti che agiscono in modo costruttivo nelle realtà locali pur con uno stile più ordinario e feriale, occupandosi dei giovani, tenendo aperti gli oratori, mostrandosi prossimi alle vicende degli ultimi, tenendo viva la speranza in quartieri anonimi o dormitorio. Non mancano, dunque, dei riconoscimenti, pur in una situazione in cui cresce la disaffezione della gente nei confronti delle istituzioni religiose.

Parrocchia: si attraversa

Al di là dell’immagine controversa della Chiesa, qual è la domanda religiosa e sociale che gli italiani continuano a rivolgere agli ambienti ecclesiali, e che quindi grava (direttamente o indirettamente) sul clero che agisce a livello territoriale?

Anche nella società aperta – come ci confermano le indagini più recenti – le parrocchie, gli oratori e i centri religiosi cattolici continuano ad essere dei “luoghi” di presenza pubblica di rilievo. Non soltanto perché più del 20% della popolazione dichiara di accedervi con una certa regolarità per partecipare ai rituali religiosi, mentre sono assai di più i praticanti discontinui o irregolari; a fronte della maggioranza degli italiani che continua a rivolgersi alla Chiesa locale per celebrare i “riti di passaggio” (il battesimo dei figli, la prima comunione, il matrimonio, i funerali).

Ma anche perché la socializzazione dei “giovani” negli ambienti ecclesiali è ancora una prassi diffusa nel paese, coinvolge anche oggi una quota rilevante di bambini e di adolescenti (e delle loro famiglie), pur su livelli un po’ inferiori rispetto a quanto avveniva per le generazioni precedenti. Si tratta della frequentazione della parrocchia e dell’oratorio per i corsi di catechismo e la preparazione ai sacramenti; ma anche per momenti di svago e divertimento, di pratica sportiva, di interazione tra soggetti di pari età, di formazione umana e religiosa, di impegni associativi.

Certo, questa presenza è oggi più orientata al mordi e fuggi o è temporalmente più limitata e discontinua nel tempo; ma ciò non toglie che sia ancora consistente e che costituisca un campo di impegno ricorrente per chi opera (e svolge ruoli di responsabilità) in questi ambienti.

Memorie e tracce positive

Nel ripensare all’esperienza vissuta negli ambienti ecclesiali (perlopiù negli anni dell’adolescenza e della giovinezza), prevalgono di gran lunga nella popolazione i ricordi positivi o perlomeno neutri, rispetto a quelli foschi o da dimenticare. Ciò sembra valere anche per quanti oggi hanno un’età compresa tra i 18 e i 29 anni, la maggioranza dei quali, riflettendo sui suoi trascorsi ecclesiali da bambino o da ragazzo, riporta un “amarcord” sostanzialmente favorevole.

Da miei recenti lavori emerge non solo che oltre il 60% degli attuali 18-29enni italiani ha frequentato gli ambienti ecclesiali per attività extra-catechismo, vivendo in essi dei momenti di svago e divertimento mescolati a impegni formativi, campi scuola estivi, ritiri spirituali; ma anche che la maggior parte di essi ammette di essere stato coinvolto a questo livello in esperienze umanamente e spiritualmente significative.

Preti in Italia

Maggioritaria è anche la quota di giovani che dichiara di aver conosciuto in queste circostanze e ambienti delle figure religiose (preti e suore) che li hanno colpiti positivamente, che hanno trasmesso loro delle cose che contano.

Non mancano, dunque, dei riconoscimenti anche per un clero che la pubblicistica diffusa ritiene sia in difficoltà a raccordarsi al linguaggio delle giovani generazioni e ai nuovi stili comunicativi.

Più bare che culle

Al di là di questi riconoscimenti, è del tutto evidente, però, che l’attività del clero ordinario è attualmente assai condizionata dai cambiamenti che hanno interessato – negli ultimi decenni – la domanda dei riti religiosi di passaggio da parte della popolazione. Per effetto sia del fenomeno delle “culle vuote” (e quindi della riduzione del numero dei giovani nella nostra società), sia per il diffondersi della quota dei “non credenti”, diminuisce negli ambienti ecclesiali l’erogazione dei servizi per preparare e celebrare l’unione in chiesa degli sposi, mentre si mantiene per varie ragioni elevato l’impegno per far fronte alla richiesta dei funerali religiosi.

In tutti i casi, si tratta di impegni che non si compensano, in quanto l’organizzazione ecclesiastica deve fare i conti da vari anni a questa parte con una progressiva riduzione del personale religioso in grado di svolgere tali funzioni (per la crisi delle vocazioni e un clero sempre più anziano).

Preti in ItaliaSi delinea così una situazione particolare, tipica di una Chiesa locale costretta a investire molte più risorse (di tempo, umane e organizzative) per celebrare la morte dei fedeli che per accogliere le nuove vite o per seguire la nascita di nuove famiglie. Si rompono dunque antichi equilibri.

La pastorale delle esequie e del lutto (insieme a quella della salute) è molto sollecitata, anche a scapito dell’azione a tutto campo che ha sempre caratterizzato la presenza delle parrocchie sul territorio: nella sfera educativa, nell’animazione dei giovani, nella pastorale del lavoro, nell’impegno socio-assistenziale ecc.

Appartenenze di territorio e di elezione

Altre tensioni per il clero possono derivare da alcuni scricchiolii che si stanno registrando nel modello parrocchia, sin qui ritenuta dalla Chiesa come la struttura di base più adeguata a favorire l’incontro tra la domanda religiosa della gente e la proposta evangelica.

Al di là delle riflessioni maturate al riguardo negli ambienti specializzati (tra i teologi e i pastoralisti), ciò che qui preme rilevare è il minor consenso di cui gode oggi la parrocchia nella considerazione pubblica, rispetto alla centralità sociale e religiosa attribuita a questa struttura nel passato (recente e remoto).

Cresce, nel tempo, l’insieme degli italiani che ritengono che l’eventuale soppressione della parrocchia nel proprio territorio non comporterebbe delle conseguenze negative (sia su versante sociale sia su quello religioso) nell’ambiente. E ciò per vari motivi: perché molte persone non àncorano più la loro esperienza ad un particolare territorio, caratterizzandosi per una mobilità diffusa che si manifesta nelle diverse sfere della vita; in quanto cresce nella società la quota di persone che si identificano in una visione laica e secolarizzata dell’esistenza, per cui si sentono estranei agli ambienti religiosi ed ecclesiali; e anche perché cresce tra i fedeli, soprattutto quelli più impegnati, la tendenza a convergere più verso una parrocchia di “elezione” che a riconoscersi in quella territoriale, in linea con quella propensione alla mobilità geografica che può manifestarsi anche in campo religioso.

Quest’ultima tendenza è ancora minoritaria, ma è comunque un segnale degno di nota e ricco di implicazioni per le dinamiche ecclesiali. Quanto l’idea che la parrocchia sia una formula datata rende più incerto l’impegno pastorale del clero medio e si ripercuote sul suo vissuto?

Dialoghi e vissuto

Dedico l’ultima considerazione (tra le molte che si possono avanzare) ad un dilemma che di tanto in tanto agita la coscienza di numerosi sacerdoti oggi impegnati in una pastorale ordinaria che risulta appesantita da molte altre incombenze.

Al di là dei servizi religiosi e sociali che una parte ancora consistente di popolazione chiede alla Chiesa locale e ai suoi ministri, quanto sono valorizzati i sacerdoti dal punto di vista umano e spirituale dall’insieme dei fedeli ed eventualmente da chi ha altri orientamenti?

Una risposta, almeno parziale, a questo interrogativo emerge dalla quota di popolazione che riconosce di parlare di tanto in tanto con un sacerdote (o con una figura religiosa) di questioni personali (di fede, umane e familiari), per un confronto o un discernimento cui attribuisce particolare importanza.

Circa il 25% della popolazione (stando alle indicazioni delle indagini anche recenti che hanno trattato questo tema) dichiara di essere coinvolto in questo tipo di esperienza; dunque, una quota minoritaria di popolazione, ma per nulla irrilevante.

Certo, non è detto che questi dialoghi avvengano perlopiù con il clero che opera nelle varie realtà di base, visto che nel nostro paese vi sono altre figure religiose che possono rappresentare dei referenti religiosi o umani significativi (figure che sono presenti nei monasteri, negli istituti religiosi, nel volontariato cattolico, nelle molte reti associative ecclesiali).

Tuttavia, per la numerosità del clero diocesano è indubbio che una parte consistente di questa domanda coinvolga proprio quei sacerdoti la cui vocazione li porta a non stare sul “monte”, ma a vivere a stretto contatto con la gente comune. Soprattutto quelli che riescono a essere una presenza spiritualmente feconda pur dentro il “rumore” della “città” e dei molti impegni cui devono far fronte.