Il Papa lancia un evento mondiale nella giornata del 14 maggio 2020, che avrà per tema “Ricostruire il patto educativo globale” e richiama anche il Documento che ha sottoscritto con il Grande Imam di Al-Azhar ad Abu Dhabi, il 4 febbraio scorso ad Abu Dhabi

Ricostruire “un patto educativo globale” che ci educhi alla “solidarietà universale” e a “un nuovo umanesimo”, al fine di affrontare le sfide di un mondo in “continua trasformazione” e “attraversato da molteplici crisi”. Questo è l’appello lanciato da Papa Francesco a tutti gli operatori del campo dell’educazione e della ricerca e alle “personalità pubbliche che a livello mondiale occupano posti di responsabilità e hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni”, in vista di un incontro su questo tema previsto per il 14 maggio 2020 in Vaticano.

Costruire il futuro del pianeta

L’invito del Pontefice è a unire gli sforzi per rinnovare il dialogo “sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta” e creare “un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna”. Un’alleanza, spiega il Papa, “tra gli abitanti della Terra e la ‘casa comune’, alla quale dobbiamo cura e rispetto. Un’alleanza generatrice di pace, giustizia e accoglienza tra tutti i popoli della famiglia umana nonché di dialogo tra le religioni”.

Educazione contro rapidàcion

Un patto che per Francesco passa innanzitutto attraverso l’educazione, che nei nostri tempi si sta scontrando con un cambiamento epocale, segnato da quella che il Papa chiama rapidàcion. Una “rapidizzazione” culturale, in cui la digitalizzazione “imprigiona l’esistenza nel vortice della velocità tecnologica” e cambia continuamente punti di riferimento, generando nuovi linguaggi che scartano “senza discernimento, i paradigmi consegnatici dalla storia”.  In questo contesto, prosegue il Papa citando l’enciclica Laudato Si’, “l’identità stessa perde consistenza e la struttura psicologica si disintegra di fronte a un mutamento incessante che contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica”.

Il villaggio dell’educazione

Questo cambiamento, ricorda il Papa, ha bisogno di un “cammino educativo che coinvolga tutti” perché, come recita un proverbio africano, “per educare un bambino serve un intero villaggio”. Un “villaggio dell’educazione”, appunto, dove “nella diversità, si condivida l’impegno di generare una rete di relazioni umane e aperte” in un terreno che, afferma Francesco citando il Documento sottoscritto lo scorso febbraio ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar, “va anzitutto bonificato dalle discriminazioni con l’immissione di fraternità”.

Rimettere la persona al centro

Per far sì che si realizzi questa convergenza globale “tra lo studio e la vita;  tra le generazioni; tra i docenti, gli studenti, le famiglie e la società civile con le sue espressioni intellettuali, scientifiche, artistiche, sportive, politiche, imprenditoriali e solidali”, il cammino comune del “villaggio dell’educazione” deve muovere tre passi fondamentali. Innanzitutto “avere il coraggio di mettere al centro la persona”, dando “un’anima ai processi educativi” e trovando, secondo una “sana antropologia”, altri modi di intendere “l’economia, la politica, la crescita e il progresso”. Poi bisogna avere “il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità”. Infine è necessario avere “il coraggio di formare persone disponibili a mettersi al servizio della comunità”, “come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli apostoli”.

vaticannews

Papa: Patto educativo, evento 14 maggio 2020

 © ANSA

(ANSA) – CITTA’ DEL VATICANO, 12 SET – Un evento per lanciare un “patto educativo” per l’ambiente e il clima: Papa Francesco invita in Vaticano, nell’Aula Paolo VI, istituzioni e studenti ad un grande appuntamento che si terrà il 14 maggio 2020.
“Nell’Enciclica Laudato si’ ho invitato tutti a collaborare per custodire la nostra casa comune, affrontando insieme le sfide che ci interpellano. A distanza di qualche anno – dice il Papa nel Messaggio per il lancio del Patto Educativo – rinnovo l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente. Per questo scopo desidero promuovere un evento mondiale nella giornata del 14 maggio 2020, che avrà per tema ‘Ricostruire il patto educativo globale’: un incontro per ravvivare l’impegno per e con le giovani generazioni, rinnovando la passione per un’educazione più aperta ed inclusiva”.

Video Messaggio. Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo

Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una “società più accogliente“. La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: “Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà”.

“L’iniziativa – spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota – è la risposta ad una richiesta. In occasione
di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una
iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti,
è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento”.

In un messaggio il Pontefice rinnova “l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente“. Ricorda ancora Bergoglio che “in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità”.

IL TESTO DEL MESSAGGIO DEL PAPA

L’itinerario verso maggio sarà segnato da una serie di incontri, organizzati in luoghi assai significativi. Ecco l’elenco

Pontificia Fondazione Gravissimum educationis – 16-17 settembre 2019“Democrazia: un’urgenza educativa in contesti pluriculturali e plurireligiosi”

Pontificia Università Lateranense – 31 ottobre 2019 “Educazione, diritti umani, pace. Gli strumenti dell’azione interculturale ed il ruolo dellereligioni”

Emirati Arabi – Abu Dhabi – 4 febbraio 2020 “Convegno sul documento di Abu Dhabi (4 febbraio 2019)”

Università Pontificia Antonianum con l’Istituto Teologico Seraphicum– 14-16 gennaio 2020 “Natura e ambiente nel patto educativo: la bellezza fa l’uomo buono”

Università Cattolica LUMSA con l’Alta Scuola EIS – 30-31 gennaio-1° febbraio 2020 “Costruire comunità. La proposta del service learning”

Pontificia Accademia delle Scienze Sociali – 6-7 febbraio 2020 Workshop on “Education: The global Compact” – Casina Pio IV

Università Pontificia Salesiana con l’Auxilium (Sede: Città dei ragazzi) – 22 febbraio 2020 “We are we share we care. Generazioni a confronto per un’alleanza educativa”

Centro “Centro Card. Bea” (Gregoriana) – Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamistica – 24 febbraio 2020 “L’immagine dell’altro nelle proprie tradizioni: quali risorse le nostre tradizioni religiose e culturali possiedono in vista della costruzione di una fratellanza universale?”

Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Brescia) – 13 marzo 2020 Scienze politiche e pedagogiche – “Le sfide educative per la cooperazione internazionale”

Città dei Ragazzi – 24 marzo 2020 “Percorsi di cittadinanza. Dall’esclusione all’inclusione”

Villaggio della Terra – 22-26 aprile 2020 “C’è un mondo che ti aspetta” – Villa Borghese

Istituto Universitario “Sophia” – Loppiano (Incisa in Valdarno) Incontri per studenti – “Terza missione e impegno degli studi: leadership per strade nuove”

Pontificia Fondazione Scholas Occurrentes (Convegno mondiale delle Cattedre Scholas)

da avvenire

L’Amazzonia, il Sinodo e noi

L’Amazzonia, il Sinodo e noi

MILANO-ADISTA. Il Sinodo speciale dei vescovi del prossimo ottobre sarà sull’Amazzonia, ma anche su di noi. Lo sostiene p. Giacomo Costa nell’editoriale dell’ultimo numero di Aggiornamenti sociali, il mensile dei gesuiti del Centro San Fedele di Milano.

«Occuparci del Sinodo per l’Amazzonia – scrive il direttore di Aggiornamenti sociali, che è anche Consultore della Segreteria dello stesso Sinodo – non è una fuga esotica dai nostri problemi locali. (…)  Questo Sinodo è un esperimento, il primo probabilmente, di articolazione tra la dimensione locale e quella globale all’interno del paradigma dell’ecologia integrale. L’attenzione a legami e connessioni permette di cogliere ciò che fa dell’Amazzonia una unità peculiare, al di là delle frontiere che la percorrono, e obbliga a non dimenticare ciò che la collega al resto del pianeta». In questo senso, «sebbene applicare altrove proposte e soluzioni elaborate per il contesto amazzonico sarebbe un cortocircuito, resta vero che tutti abbiamo da imparare che cosa significa affrontare problemi peculiari di un territorio con un metodo sinodale».

Dopo avere passato rapidamente in rassegna alcuni tratti caratteristici del «bioma amazzonico», definizione che esprime la complessità di questa regione dal punto di vista geografico, antropico e ambientale, l’editoriale si sofferma sull’importanza di porsi «in ascolto dei popoli indigeni, liberandoci da molti retaggi, (…) dal mito del “buon selvaggio” alla dialettica tra arretratezza e modernità. Le culture amazzoniche sono tutt’altro: una civiltà articolata e viva, che da secoli si confronta con la sfida della modernità e della colonizzazione, e continua a fare i conti con conflitti e contraddizioni interni ed esterni».

Solo questo atteggiamento di ascolto contentirà, durante e dopo il Sinodo, di comprendere meglio un concetto chiave, quello del buen vivir, ovvero «un modo di vivere che affonda le radici nelle tradizioni indigene e fa riferimento non a una dottrina compiuta, ma a pratiche di creazione di relazione tra le persone e i gruppi attraverso il legame con il territorio». Il buen vivir – precisa padre Costa – «non è una condizione idilliaca data una volta per tutte, ma un cammino tanto concreto quanto fragile».

Per noi occidentali, questo ascolto potrebbe e dovrebbe generare «un interrogativo radicale sulla definizione di “vita buona” alla base del nostro modello di progresso». Occorre infatti «abituarsi a vedere la realtà da più punti di vista e accettare di essere messi in discussione da quelli degli altri, non per assumerli supinamente – il complesso di colpa dell’Occidente –, ma per esserne stimolati e a nostra volta stimolarli. Sono legittimi quei rilievi che segnalano limiti e debiti ideologici in certe argomentazioni e letture dei fenomeni sociali ed economici che provengono dai contesti latinoamericani, ma a condizione che accettiamo di lasciarci dire che, visto dalla loro prospettiva, il nostro ideale di “vita buona”, anche nella sua versione migliore, è intriso di materialismo, che la nostra cultura, anche ecclesiale, trasuda non solo secolarizzazione, ma secolarismo, e fatica a lasciare uno spazio riconoscibile per la trascendenza».

Risulta allora chiaro come il Sinodo del prossimo ottobre possa e debba coinvolgerci molto più di quanto pensiamo. E se è evidente, conclude Costa, che «le soluzioni a cui il percorso sinodale giungerà difficilmente risulteranno appropriate ad altri contesti», tuttavia l’approccio richiesto dal Sinodo, il suo appello a mettersi in ascolto di una pluralità di prospettive potrebbe risultare prezioso anche per altri contesti. «È il caso del Mediterraneo – suggerisce Costa -, che ha molte analogie e altrettante differenze rispetto all’Amazzonia. (…) Davvero non riusciamo a guardare al Mediterraneo da prospettive alternative, capaci di farci superare le contraddizioni in cui continuiamo a inciampare e i problemi a cui non riusciamo a dare soluzione? (…) Perché non sognare anche un Sinodo mediterraneo, senza con questo scaricare sul Papa l’onere di assumere tutte le iniziative? I nuovi cammini dell’ecologia integrale riguardano l’Amazzonia, ma non solo».

Il preside Pierangelo Sequeri presenta offerta formativa, piano di studi e relative cattedre del nuovo Istituto per le Scienze del matrimonio e della famiglia

da Avvenire

Tra sapere teologico e scienze sociali ci dev’essere una collaborazione coerente ispirata a «dialogo amichevole e confronto competente». È la definizione scelta dal preside del nuovo “Giovanni Paolo II”, monsignor Pierangelo Sequeri, per presentare offerta formativa, piano di studi più relative cattedre, con titoli e docenti. Così il Pontificio Istituto per le scienze del matrimonio e della famiglia entra nel vivo dell’anno accademico e, secondo le indicazioni di papa Francesco spiegate nel Motu proprio Summa familiae cura, supera le forme e i modelli del passato, ampliando i suoi campi di interesse «sia in ordine alle nuove dimensioni del compito pastorale e della missione ecclesiale, sia in riferimento agli sviluppi delle scienze umane e della cultura antropologica».

Per coniugare teologia e scienze umane sono state create nuove cattedre e nominati nuovi docenti. Per quanto riguarda la Licenza in teologia due i nomi che andranno ad arricchire le competenze già presenti per quanto riguarda i corsi fondamentali, quello della canonista Orietta Rachele Grazioli, docente anche alla Lateranense, una delle maggiori esperte del Motu proprio di papa Francesco sulla nullità matrimoniale che insegnerà infatti “Diritto canonico matrimoniale”, e il moralista don Maurizio Chiodiche arriva dalla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano, a cui è stata affidata la cattedra di “Etica teologica della vita”. Nel corso di dottorato invece insegnerà “Coscienza e discernimento. Testo e contesto del capitolo VIII di Amoris laetitia“, uno dei punti più originali ma anche controversi del magistero di papa Francesco sulla famiglia che don Chiodi ha già approfondito in vari saggi.

Sempre tra i corsi fondamentali di nuova istituzione c’è poi “Ecclesiologia cristiana e comunità familiare” affidata a don Cesare Pagazzi, anche lui proveniente da Milano dove insegna teologia sistematica, e Vincenzo Rosito, già docente di filosofia teoretica in varie facoltà romane, a cui è stata affidata la cattedra di “Storia e cultura delle istituzioni familiari”. Nuova anche la cattedra di “Teologia orientale dell’amore e del matrimonio”, affidata a un altro laico, Natalino Valentini, che tra l’altro ha già insegnato Storia del pensiero teologico ortodosso a Urbino. Sempre tra i corsi fondamentali, ma per quanto riguarda la licenza secondo il vecchio ordinamento, spunta anche la cattedra di “Antropologia ed etica del nascere”. È stata affidata al moralista Pier Davide Guenzi, anche lui docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e alla Cattolica che, tra l’altro, è presidente dell’associazione teologica italiana per lo studio della morale (Atism).

Sempre tra le nuove cattedre, questa volta nel corso di dottorato per quanto riguarda le scienze umane, da segnalare ancora quella su “Famiglia e società conviviale: beni comuni, imprese collaborative e nuove forme di socializzazione”, affidata sempre a Vincenzo Rosito. Ma si parlerà anche di demografia, con una cattedra affidata a Giancarlo Blangiardo e, contrariamente alle previsioni dei critici più accesi, non scomparirà l’insegnamento della teologia del corpo di Giovanni Paolo II. Una cattedra a cui è stato riconfermato il teologo polacco don Jaroslaw Marecki, tra i massimi conoscitori del tema. Tra i nuovi docenti anche don Andrea Ciucci, che si occuperà di “Famiglia e trasmissione della fede”.

Alla fine, dopo tante polemiche, è soddisfatto anche monsignor Sequeri. In questo modo, osserva, siamo riusciti a superare «ogni intellettualistica separazione tra teologia e pastorale, spiritualità e vita, conoscenza e amore. Si tratta di rendere persuasiva per tutti questa evidenza: il sapere della fede vuole bene agli uomini e alle donne del nostro tempo».

Sequeri – a cui sono stati affidati vari insegnamenti di teologia fondamentale – ricorda che il rinnovamento del Pontificio Istituto è stato voluto direttamente da papa Francesco che, con il suo Motu proprio, ha dichiarato soppresso il vecchio istituto e ha dato vita a una nuova realtà accademica, ispirata «a una coerente integrazione della formazione teologica, morale e pastorale con la più ampia frequentazione, competente e critica, del sapere umano». Il collegamento con l’idea profetica di papa Wojtyla rimane comunque saldissimo. Anzi, ha fatto notare il preside del “Giovanni Paolo II”, si tratta di «un’apertura che dovremmo onorare con generosità ancora più creativa».

L’oratorio diventa «green» se c’è il buon esempio

da Avvenire

Durante il 3° Happening di Molfetta l’arcivescovo Giulietti ha parlato delle pratiche virtuose per l’ambiente, la casa di tutti, anche negli spazi parrocchiali per i ragazzi
Happening degli Oratori (ufficio stampa FOI)

Happening degli Oratori (ufficio stampa FOI)

La conversione ecologica ha bisogno di esortazioni, inviti, perfino cortesi minacce, lusinghe. Certamente. Forse… Ma più di tutto ha bisogno di esempi. La migliore conversione si fa costruendo un ambiente in armonia con il creato e vivendoci. Cominciando, perché no, dall’oratorio. Con laLaudato si’ come faro che indica la rotta, giovedì scorso a Molfetta, al terzo Happening degli Oratori, uno dei laboratori era dedicato a “Oratorio e ambiente”. Affidato alla conduzione di Diego Buratta e dell’arcivescovo di Lucca, Paolo Giulietti, per molti anni responsabile nazionale della pastorale giovanile, il gruppo ha sì fatto riferimento all’enciclica sociale di papa Francesco, ma soprattutto ha giocato. Un gioco serissimo, dove occorrevano competenze da architetto, ingegnere, geometra, biochimico, carpentiere e altre ancora. Divisi in piccole squadre, i giovani partecipanti al laboratorio si son visti consegnare la pianta di un oratorio, con il compito di progettare un “oratorio green”.

Un passo indietro. Giulietti ha spiegato in che cosa consista la conversione ecologica: in una nuova economia e in nuovi stili di vita, e qui tutti possiamo fare qualcosa: uscire dal paradigma consumista, compiere acquisti responsabili, aderire a stili di vita non individualisti e a una “austerità responsabile” che rifugga dal superfluo, scoprire una spiritualità ecologica. Ma soprattutto, ha concluso Giulietti, è bene e bello essere «ambientalisti non della paura ma dell’amore». Temere le catastrofi può essere logico, ma più che il timore di una natura vendicativa vale la passione per il creato, sull’esempio di san Francesco. A poco serve educare bambini, ragazzi, giovani e adulti ricorrendo al moralismo del «devi, devi, devi», in negativo. È bello educare all’amore, in positivo.

E l’oratorio verde? I giovani di Albano, Ales-Terralba, Altamura, Bari-Bitonto, Cesena, Conversano-Monopoli, Cuneo, Loreto, Lucca, Milano, Padova, Perugia, Pordenone-Concordia e Roma hanno trasformato i loro oratori in piccoli paradisi dotati di pannelli solari, illuminazione a led, arredamento in legno riciclato, bibite alla spina, cortili alberati. La strategia educativa è evidente: se un bambino o un ragazzo passano del tempo in un ambiente che “pensa ecologico”, e ci staranno bene, impareranno ad apprezzarlo al di là delle esortazioni e delle proibizioni.

Particolarmente apprezzato l’oratorio “Sorella acqua”, che riutilizza le acque piovane anche per irrigare l’orto, per gli scarichi e le fontanelle; dove ogni ragazzo ha la sua bottiglietta riutilizzabile con l’eliminazione della plastica e i più grandi, se al baretto desiderano un caffè, lo berranno dalla tazzina in ceramica e fatto con la moka, eliminando le cialde. E dove una biblioteca accoglierà i libri abbandonati o indesiderati, fuggiti da ambienti sovraccarichi, dando loro una seconda lunga vita.

In oratorio le “prediche” vanno ridotte al minimo. Più utile, hanno detto i giovani che l’oratorio lo vivono, disincentivare l’uso del cellulare, riciclare tutto il riciclabile, addirittura accompagnare il prete o i suoi collaboratori a fare la spesa, prima dei campi scuola e del Grest, per imparare concretamente come si acquistano alimentari a minimo impatto ambientale. E fuori? Ad esempio, disegnare la mappa dei luoghi curati o trascurati, segnalarli e provare a intervenire. In estrema sintesi, l’obiettivo è sfuggire al “comprare per comprare”, al consumo come pensiero ossessivo. Tutto questo, unito alla preghiera, dovrebbe contribuire a costruire un oratorio dove si respiri una spiritualità ecologica, fondata su questa consapevolezza: ogni dono del Creatore va restituito e ciò che è bello va reso bellissimo.

Al via la Conferenza delle Chiese europee sulla pace

Mettersi insieme in ascolto delle “dure lezioni del passato” per impegnarsi ad essere oggi in Europa e nel mondo strumenti di pace e di riconciliazione. Lo ha sottolineato il rev. Christian Krieger, presidente della Conferenza delle Chiese europee, aprendo l’assemblea. Krieger ha ricordato – riferisce l’Agenzia Sir – che il contesto storico in cui 60 anni fa nacque la Cec (1959), era “un’Europa frammentata e divisa dopo la Seconda Guerra mondiale. A quel tempo c’era una reale necessità di superare le divisioni politiche e lavorare per la guarigione e la pace”. È questa la missione che le Chiese cristiane in Europa continuano a svolgere ancora oggi per far emergere “un’Europa umana, sociale e sostenibile in pace con se stessa e con i suoi vicini, in cui prevalgono i diritti umani e la solidarietà”.

Pace e riconciliazione

Rifacendosi quindi al Trattato di Pace che fu firmato proprio a Palazzo di Versailles nel 1919, il pastore protestante ha detto: “La prima guerra mondiale ha portato alla fine di un ordine mondiale. La mappa dell’Europa fu ridisegnata così come la maggior parte della mappa del mondo”. In questi giorni, rappresentanti delle Chiese aiutati da esperti e politici, esploreranno “le dure lezioni del nostro passato europeo e globale”, identificando quali sono oggi “le minacce alla pace in Europa e nel mondo”. “Speriamo – ha aggiunto – di trarre ispirazione dal ruolo e dal lavoro della Conferenza delle Chiese europee, sin dalla sua creazione, come strumento ecumenico impegnato nella costruzione della pace, nella guarigione delle ferite del passato e nella riconciliazione”.

Dialogo ecumenico

La Conferenza delle Chiese europee è un organismo ecclesiale ed ecumenico che unisce 114 Chiese di tradizioni ortodosse, protestanti e anglicane in Europa per il dialogo, la difesa e l’azione comune per la promozione della pace e per l’unità della Chiesa. (Sir)

Ricordo di san Óscar Arnulfo Romero

da Osservatore Romano

Pubblichiamo l’articolo Óscar Romero: essere umano, cristiano e arcivescovo esemplare tratto dal numero 3/2019 della rivista internazionale di teologia «Concilium», dedicato al tema «Tecnologia: fra apocalisse e integrazione». Jon Sobrino è nato nel 1938 a Barcellona da famiglia basca e ha compiuto gli studi in Spagna, in Germania e negli Stati Uniti. Gesuita della provincia dell’America centrale dal 1957, dal 1974 risiede in El Salvador e dirige il Centro Monseñor Romero presso l’Università cattolica dell’America centrale con sede a San Salvador. È stato membro del comitato internazionale di direzione di «Concilium». Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo Monseñor Romero (San Salvador 1989) e Il martirio dei gesuiti salvadoregni (La Piccola, Celleno 1990).

Esterno di El Pueblo de Dios en Camino a San Ramón (1998 circa, particolare) foto di Rachel Heidenry

Scrivo da San Salvador, dove avevo vissuto già tre anni, dal 1977, quando Romero fu nominato arcivescovo, fino al suo assassinio avvenuto nel 1980. Ciò che sto per dire è una cosa nota tra noi. Altrove, nonostante si accetti e persino si ammiri monsignor Romero, l’approccio può essere diverso, e spesso lo è.

Ritengo che persone come Ellacuría — martire a sua volta — oppure quel servitore che io sono, possano aggiungere qualcosa, ossia l’esperienza personale, diretta e immediata di monsignor Romero. Durante la messa esequiale, Ellacuría ebbe a dire: «Con monsignor Romero Dio è passato per il Salvador». Non lo disse in virtù della sua acuta intelligenza, ma del suo contatto reale con l’arcivescovo. Da parte mia, anch’io in virtù di un contatto personale con lui, la prima cosa che scrissi e dissi dopo il suo assassinio è che «monsignor Romero credette in Dio».

Quel che è accaduto in Vaticano il 14 ottobre 2018 — la sua canonizzazione — è stato importante, ma nel linguaggio degli antichi è stato un “accidente”. La “sostanza” fu l’Óscar Romero reale, la sua azione e la sua parola, la sua fiducia totale in Dio, la sua obbedienza totale a Dio e la sua dedizione totale ai poveri e alle vittime di questo mondo.

In Salvador il 24 marzo 1980, giorno del suo assassinio, nessuno pensò in termini di canonizzazione, ma molta gente parlò dell’eccellenza umana, cristiana e arcivescovile di monsignor Romero. Piangendo, una contadina disse: «Hanno ucciso il santo». Pochi giorni dopo don Pedro Casaldáliga scrisse: «San Romero d’America, nostro pastore e nostro martire». Nessuno pensò che sarebbe stato necessario lavorare in qualche curia per dichiararlo santo.

Non accadde come in altre occasioni. Quando morì José Maria Escrivá de Balaguer molti si precipitarono per ottenere la sua canonizzazione. Quando morì madre Teresa di Calcutta la stima per le sue virtù era già grande, soprattutto per la sua amorevole parzialità verso i sofferenti e gli abbandonati, e ci si aspettava la sua canonizzazione. Quando morì Papa Giovanni Paolo II si sentì levare il grido «santo subito».

Non accadde nulla di tutto questo alla morte di Óscar Romero. E vale la pena ricordare che il giorno stesso in cui si seppellì il Romero morto, si vissero gli orrori che aveva affrontato il Romero vivo: nella piazza della cattedrale stracolma di gente esplosero bombe, molti se ne fuggirono di corsa in cerca di riparo e lasciarono lì un mucchio di centinaia di scarpe. Lo stesso delegato ufficiale del Papa, monsignor Corripio, fra gli altri, chiese che lo portassero immediatamente all’aeroporto. Per contro c’è una foto in cui si vedono sei sacerdoti che portano a spalle il feretro di monsignor Romero, e tra loro c’era padre Ignacio Ellacuría.

Andiamo alla sostanza. Monsignor Urioste era solito ripetere che Romero fu il salvadoregno più amato dalle maggioranze oppresse e il più odiato dalle minoranze degli oppressori.

Quale è stata allora la sostanza del 14 ottobre? Chiesero a un contadino chi fosse monsignor Romero, e senza esitare quello rispose: «MonsenõrRomero ha detto la verità. Ha difeso noi poveri. E per questo l’hanno ucciso». Cioè visse e morì come Gesù di Nazaret.

Proclamò la verità, ne fu posseduto e la proclamò con passione. Quando la realtà era positiva per i poveri, monsignor Romero proclamava la verità come vangelo — buona notizia — con gioia ed esultanza. Quando la realtà era negativa, era miseria, oppressione e repressione, crudeltà, morte — soprattutto per i poveri — monsignor Romero diceva la verità come una brutta notizia, denunciando e smascherando, e la diceva con dolore. Ricco di verità, Romero fu evangelizzatore sincero e profeta incorruttibile.

Come «annunciatore della verità», l’arcivescovo Romero espresse giudizi sulla realtà, su tutta la realtà. Lasciò «che la realtà prendesse la parola» (Karl Rahner) ed ebbe l’onestà di rendere pubblica la parola pronunciata dalla realtà stessa.

Sulla base di questi princìpi monsignor Romero disse la verità in un modo senza eguali nel Paese, né prima né dopo di lui.

La disse vigorosamente, perché si rifaceva al principio essenziale e fondamentale: «Non vi è nulla di così importante come la vita umana, come la persona umana. Soprattutto la persona dei poveri e degli oppressi» (16 marzo 1980). A Puebla chiese a Leonardo Boff: «Voi teologi aiutateci a difendere il minimo, che è il dono massimo di Dio: la vita». La proclamò diffusamente, per poter dire «tutta» la verità. Per questo le sue eucaristie nelle messe domenicali in cattedrale potevano durare un’ora e mezza o più. La disse pubblicamente, «dai tetti» come chiedeva Gesù, nella cattedrale e attraverso l’emittente radio diocesana, Ysax, che più volte fu oggetto di attentati dinamitardi e subì interferenze. La sua ultima omelia dovette pronunciarla davanti a un telefono collegato a una radio del Costa Rica. La Ysax trasmette ancora ma, senza monsignor Romero, ha perso lo straordinario valore che aveva. Romero disse la verità in modo popolare, imparando molte cose del popolo, di modo che, senza saperlo, i poveri e i contadini erano in parte coautori delle sue omelie e delle sue lettere pastorali: «Voi e io abbiamo scritto la quarta lettera pastorale» (6 agosto 1979); «Voi e io facciamo questa omelia» (16 settembre 1979). E formulò sentenze notevoli sul suo rapporto con il popolo per dire la verità: «Sento che il popolo è il mio profeta» (8 luglio 1979); «Abbiamo fatto una riflessione talmente profonda che credo che il vescovo abbia sempre molto da apprendere dal suo popolo» (9 settembre 1979).

E fu popolare anche perché monsignor Romero rispettava e apprezzava la «ragione», il pensiero del popolo, della gente semplice. Ed evitava con successo di assecondare l’infantilizzazione religiosa, rischio sempre presente nella pastorale.

In America latina, e sicuramente in Salvador, credo che un buon numero di persone accetti l’«opzione per i poveri». Possiamo dire che appartenga già all’ortodossia ecclesiale, con il rischio che tutta l’ortodossia smussi le asperità e diluisca ciò che è fondamentale. Senza sottovalutare le cose ben dette a Puebla sui poveri e sulla povertà, soprattutto l’impressionante litania dei volti dei poveri (nn. 32-39), la loro moltitudine (n. 29), le cause strutturali della povertà e le esigenze dei poveri (n. 30), insisto su una comprensione più precisa dell’opzione, che compare nella formulazione teologale di Puebla. Vi si dice al n. 1142 del documento: «I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, questa loro immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama».

Quel contadino aveva compreso bene l’opzione per i poveri di monsignor Romero: «Ha difeso noi poveri». Non ho altro da aggiungere a questa sentenza solenne del contadino. Né al linguaggio che usò: ha difeso «noi poveri», cioè noi «che siamo poveri». La conclusione è che monsignor Romero non solo amò i poveri e gli oppressi del Paese, ma anche li difese. Settimana dopo settimana, difese i poveri e le vittime con la verità che proclamava pubblicamente nelle sue omelie. Stimolò l’organizzazione popolare e l’Assistenza legale per difendere i contadini e le vittime. Quando la repressione infuriava aprì le porte del seminario centrale di San José de la Montana per accogliere i contadini che fuggivano da Chalatenango, cosa che di certo infastidì vari altri vescovi.

È chiaro che monsignor Romero difendeva l’oppresso. Ma deve anche essere chiaro cosa implica l’atto di difendere. Difendere presuppone di affrontare e, quando è necessario, lottare nel modo più umano possibile contro chi aggredisce, impoverisce, perseguita, opprime e reprime. Per difendere i poveri monsignor Romero affrontò chi mente e chi uccide, che si trattasse di persone, istituzioni o strutture. E la sua fu una difesa primordiale, che andava ben oltre ciò che in genere si intende con «difendere una causa» con il fine, oltretutto, di «vincere una causa». Lavorava e lottava perché vincesse la realtà malconcia, la giustizia e la verità. Ancora, lavorava e lottava perché non perdessero sempre gli stessi. Prendiamo uno scontro notevole. La Corte suprema di giustizia l’aveva convocato pubblicamente perché dicesse i nomi dei «giudici venduti» che monsignor Romero stesso aveva denunciato durante la sua omelia domenicale. I consiglieri dell’arcivescovo erano spaventati e non sapevano come avrebbe fatto a cavarsela con questa convocazione. Egli non si lasciò turbare. Nell’omelia successiva chiarì in primo luogo che non aveva parlato di «giudici che si vendono», bensì di «giudici venali».

Ma non si soffermò sul fatto di aver detto o meno questo o quello, perché poco importava, e senza tanti complimenti il 30 aprile 1978 andò al fondo del problema: «Cosa fa la Corte suprema di giustizia? Dov’è il ruolo trascendentale di questo potere che, in una democrazia, dovrebbe stare al di sopra di tutti i poteri ed esigere giustizia da chiunque la calpesti? Credo che gran parte del malessere della nostra patria trovi qui la chiave principale, nel presidente e in tutti i collaboratori della Corte suprema di giustizia, che con maggiore integrità dovrebbero esigere dalle Camere, dalla magistratura, dai giudici, da tutti gli amministratori di questa parola sacrosanta — la giustizia — che siano veramente operatori di giustizia».

Monsignor Romero difese il povero con tutto se stesso e con tutto ciò che aveva. Cinque giorni prima di essere assassinato, a un giornalista straniero che gli chiedeva come fosse possibile, in una situazione così difficile, essere solidali con il popolo salvadoregno, rispose: «Chi non può fare altro, preghi». Ma «Fate, fate, fate tutto ciò che potete», arrivò a dire. E ricordò il motivo per cui questa azione era necessaria: «Non dimenticate che siamo uomini (…) e che qui si soffre, si muore, si fugge rifugiandosi sulle montagne».

All’Università di Lovanio aveva detto: «La gloria di Dio è il povero vivente». Difendere i poveri è difendere Dio.

Il contadino colpì nel segno. Nella tradizione biblica «dire la verità» è un imperativo che viene da lontano. E da lontano viene anche la pericolosità dell’ambito in cui si muove la verità. «Il maligno è omicida e menzognero», dice il quarto vangelo (Giovanni 8, 44). Prima dà la morte, poi la nasconde. Monsignor Romero fu circondato dalla morte e da morti, e, cosa alquanto nuova, da sacerdoti assassinati, sui quali ora ci concentriamo. Durante la sua vita furono assassinati sei sacerdoti. E dal primo assassinio fino a quello dei gesuiti dell’Università cattolica argentina nel 1989, si è arrivati a diciotto. In Guatemala avvenne qualcosa di simile.

Romero parlò molto dell’assassinio di sacerdoti non perché li considerasse più importanti delle altre persone uccise e di fatto ricordava sempre scrupolosamente tutti coloro che erano stati assassinati, laici e laiche, ma perché, per il simbolismo ecclesiale, e molte volte cristiano, di quelle morti violente, parlava e rifletteva con maggior forza quando l’ucciso era un sacerdote. «Mi tocca continuamente raccogliere cadaveri»: cominciò così l’omelia del 19 giugno 1977 ad Aguilares, riferendosi all’assassinio di padre Rutilio Grande e dei suoi due parrocchiani. Monsignor Romero capì molto presto che «raccogliere cadaveri» sarebbe diventato un elemento essenziale del suo ministero come arcivescovo.

Nel 1979 furono uccisi altri tre sacerdoti (Octavio Ortiz, Rafael Palacios e Alirio Macías). Monsignor Romero andò al fondo della realtà di questi assassinii e concluse in termini perentori: «Si uccide chi dà fastidio» (23 settembre). Li ebbe sempre esplicitamente presenti: «Desidero ricordare con affetto ed essere solidale con i sacerdoti assassinati» (16 settembre). Con parole che fecero scalpore proclamò l’importanza ecclesiale del fatto che gli assassinati fossero stati sacerdoti: «Sarebbe triste che in una patria in cui si uccide tanto orrendamente non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Sono testimoni di una Chiesa incarnata negli interessi del popolo» (24 giugno). E un mese dopo disse: «Sono contento, fratelli, che la nostra Chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e perché cerca di incarnarsi nell’interesse dei poveri» (15 luglio).

Era consapevole della difficoltà di realizzare ciò che diceva: «Come è difficile lasciarsi uccidere per amore del popolo!» (12 agosto). Ma rimase fermo: «Il pastore non vuole sicurezza mentre non danno sicurezza al suo gregge» (22 luglio). Fu coerente e sempre più radicale sino alla fine della sua vita: «Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per coloro che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche quelli che mi uccidessero (…) Si può dire, se arrivassero ad uccidermi, che io perdono e benedico quelli che lo faranno» (marzo 1980). Non voglio concludere senza chiarire che non uccisero Óscar Romero solo perché amava la verità — il che corrisponde al vero — ma perché la diceva. Questo atteggiamento martiriale fu fondamentale sin dal principio. Il 21 agosto 1977, festeggiando il suo compleanno, disse nell’omelia: «Ho capito ancora una volta che la mia vita non appartiene a me, ma a voi».

Torniamo al 14 ottobre. Quel giorno con monsignor Romero è stato canonizzato anche Papa Paolo VI. Penso che i due si stimassero reciprocamente. Romero apprezzò la Evangelii nuntiandi di Paolo VI e la mise a frutto nella sua missione pastorale. E ciò che più lo colpì del Papa accadde nel suo viaggio a Roma. Parlò con lui poco dopo l’assassinio di padre Rutilio Grande. Paolo VI, con una grande tenerezza, gli prese la mano e gli disse: «Avanti, coraggio!». Chiudo con le parole già citate di Ignacio Ellacuría: «Con monsignor Romero Dio è passato per il Salvador». Parole da martire a martire.

di Jon Sobrino