In arrivo nuova ondata di calore,il picco a metà settimana

(di Raniero Nanni) (ANSA) – ROMA, 22 LUG – Mercoledì e giovedì saranno le giornate più calde, ma per tirare un ‘sospiro di sollievo’ bisognerà aspettare il weekend. E’ infatti in arrivo un’intensa ondata di calore, con il suo apice appunto a metà settimana, che farà arrivare il termometro a 39 gradi in Toscana e a 37 a Roma e nelle zone interne del Lazio, in Sardegna e in Pianura Padana e che si attenuerà proprio nel fine settimana, anche se per poco tempo. 

‘Riappaiono’ intanto i bollini rossi del ministero della Salute: le città più a rischio caldo domani sono due, Brescia e Pescara, mercoledì anche Bolzano, Firenze, Perugia e Torino. A determinare questa ondata di calore, spiega Bernardo Gozzini, direttore del Consorzio Lamma-Cnr, “è la rimonta dell’alta pressione determinata dalla presenza di un’area di bassa pressione sull’Oceano Atlantico, che richiama aria calda dal deserto algerino. A questa si aggiunge un monsone africano più forte rispetto alla norma, che dà ulteriore impulso all’anticiclone africano”. L’aria calda, precisa il meteorologo del Cnr, raggiungerà l’Europa, portando caldo record anche in città come Parigi dove giovedì sono previsti fino a 38 gradi, Londra con 33 gradi, Amsterdam e Bruxelles per citarne alcune. 

In Italia, intanto, farà molto caldo già domani su Liguria, Toscana, Lazio, Campania e in parte della Sardegna, mentre il versante adriatico ne risentirà meno anche se da giovedì farà caldo anche in questa zona dato che l’aria calda si sposterà occupando tutta la penisola. 

L’afa si dovrebbe attenuare nel weekend quasi ovunque: le uniche regioni che rimarranno ‘afose’ (con 36 gradi) sono la Puglia e parte della Sicilia. Le temperature massime, ad esempio, scenderanno a 32 gradi a Roma, a 30 in Pianura Padana. 

“Sempre nel fine settimana – sottolinea Gozzini – sono possibili temporali sull’arco alpino e la Pianura Padana, con l’innesco da parte dell’aria fredda che si dovrebbe formare in quota”. Quella del weekend potrebbe non essere però altro che una breve pausa al gran caldo: “la prossima settimana, ma è ancora presto per fare previsioni precise, il caldo non dovrebbe mollare la presa. Per avere un’idea dello scenario meteorologico da lunedì prossimo bisognerà vedere bene che cosa accadrà nel corso del prossimo weekend”. 

Secondo i meteorologi di 3bmeteo.com, nel corso di questa ondata di calore si registreranno alcuni gradi in meno lungo le aree costiere, complice la classica circolazione di brezza diurna dei periodi anticiclonici. Farà però caldo anche di notte con punte di 25-26 gradi. L’afa in aumento accentuerà inoltre la sensazione di caldo. Tra le città più a rischio per il caldo, il portale 3bmeteo.com indica – oltre a Firenze e Roma – anche Terni, Caserta e Foggia, Milano, Bologna e Verona. Il Sud e le adriatiche saranno le regioni invece meno coinvolte in quanto ai margini della canicola e soggette ad una ventilazione settentrionale che favorirà un caldo tutto sommato più accettabile, almeno in un primo momento. (ANSA).

Wireless, “Stop 5G a Reggio Emilia”: mobilitazione di cittadini per una Mozione Popolare

E’ partita a Reggio Emilia la raccolta di firme per una Mozione Popolare da inoltrare al Sindaco in merito all’avanzata della tecnologia 5G, la rete wireless di quinta generazione.

Preoccupati per la portata globale del progetto e dall’assenza di studi che ne garantiscano l’innocuità per la salute e per l’ambiente, accogliendo l’allarme sollevato da gruppi di medici e scienziati di tutto il mondo, tra cui gli studi della Dott. Fiorella Belpoggi dell’Istituto Ramazzini di Bologna (che ha evidenziato una correlazione tra esposizione a radiofrequenze di tipo 3G e l’aumento di probabilità di insorgenza di patologie tumorali, neurologiche, cardiache e alterazioni della fertilità) un gruppo spontaneo di cittadini, ha deciso di appellarsi al proprio Sindaco, nel suo ruolo di garante della salute dei propri cittadini, affinché applichi il principio di precauzione prima di acconsentire all’installazione sul proprio territorio delle strumentazioni necessarie all’implementazione di detta tecnologia.

“Non si tratta di essere contrari alla tecnologia -spiegano- ma di auspicarne lo sviluppo insieme alla tutela della salute pubblica”.

Per raggiungere lo scopo di avere case, autostrade e città “intelligenti” o auto a guida autonoma, saranno infatti necessarie milioni di nuove stazioni base 5G sulla Terra e sono previsti 20.000 nuovi satelliti nello spazio che completino l’irraggiamento dell’intero pianeta.

“Questo significa che nessuna persona, nessun animale, nessun uccello, nessun insetto e nessuna pianta sulla Terra sarà in grado di evitare l’esposizione, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, senza alcuna possibilità di fuga in nessun luogo sul pianeta e con livelli di radiazione necessariamente molto maggiori di quelli esistenti oggi.

Il timore che un’implementazione affrettata del 5G possa provocare effetti gravi e potenzialmente irreversibili sugli esseri umani e danni permanenti a tutti gli ecosistemi della Terra richiede un atteggiamento di massima prudenza. Non tutto ciò che si può tecnicamente fare è giusto o lecito fare. C’è un punto di non ritorno che non va superato”.

nextstopreggio

Dichiarazione sull’ospitalità eucaristica

Settimana News

Il gruppo ecumenico che redige il bollettino Ospitalità eucaristica ha proposto un documento dal titolo «La Cena del Signore», scritto dal pastore e teologo valdese Paolo Ricca insieme al sacerdote e teologo cattolico Giovanni Cereti, per definire i punti di essenziale convergenza riguardo alla Cena del Signore. Il documento – datato 25 maggio 2019 – propone alcuni punti condivisi riguardo alla comprensione dell’eucaristia, in base ai quali gli estensori ritengono «sia possibile a ogni persona cristiana battezzata, in obbedienza alla propria coscienza e rimanendo in piena solidarietà con la propria chiesa, essere accolti come graditi ospiti in ogni mensa cristiana in cui si celebri la Cena del Signore».

ospitalità eucaristica

Noi, cristiani di appartenenze, provenienze ed esperienze ecclesiali diverse, tutti in cammino verso il Regno di Dio che in Gesù Cristo si è avvicinato all’umanità e a noi, convinti che l’unità della Chiesa è da un lato un dono del Signore che dobbiamo ricevere e un suo comandamento a cui dobbiamo ubbidire, e dall’altro è un segno importante di unione che i cristiani devono offrire in un mondo tanto diviso; avendo constatato attraverso incontri, dialoghi e preghiere comuni di condividere l’essenziale nella fede riguardo alla Cena del Signore – da alcuni definita Eucaristia e da altri Santa Cena – e cioè che:

  • il Signore è presente nella Cena, che è Lui a presiederla in ogni chiesa e che noi tutti che facciamo parte del suo popolo siamo suoi ospiti, essendo Gesù che ci accoglie alla sua mensa in quanto la Cena è “del Signore” e non delle chiese,
  • la comunione che Egli ci dona è unicamente quella del pane, «suo corpo», del vino, «suo sangue», della sua santa Parola e della sua Presenza;
  • né Gesù né gli apostoli hanno spiegato il significato esatto da dare alle sue parole durante la Cena né hanno chiarito il modo della presenza di Cristo Risorto;
  • le diverse dottrine che nei secoli passati e ancora oggi hanno cercato di interpretare i gesti, le parole e la presenza stessa di Gesù nella Cena hanno tutte un loro significato e valore ma non sono costitutive della Cena;
  • la Cena rappresenta anche un momento di unione fra i cristiani e non può perciò essere occasione di divisione;
  • ogni celebrazione della Cena avviene nell’attesa della venuta di Gesù sulla terra, che invochiamo con l’antica preghiera cristiana «Maranà tha», «Signore nostro, vieni!»; sulla base di questo consenso liberamente e fraternamente raggiunto riteniamo che sia possibile ad ogni persona cristiana battezzata, in obbedienza alla propria coscienza e rimanendo in piena solidarietà con la propria chiesa, essere accolti come graditi ospiti in ogni mensa cristiana in cui si celebri la Cena del Signore.

Sabato 25 maggio 2019.

Paolo Ricca,
pastore e teologo valdese

Giovanni Cereti,
prete e teologo cattolico

Co-firmatari: Maria Bonafede, pastora valdese; Daniele Garrone, teologo valdese, Andrea Grillo, teologo cattolico; Lidia Maggi, pastora battista; Carlo Molari, teologo cattolico; Fredo Olivero, prete cattolico; Emmanuele Paschetto, pastore battista; Giuseppe Platone, pastore valdese, Antonietta Potente, teologa cattolica; Felice Scalia, prete cattolico; Antonio Squitieri, pastore metodista; Kirsten Thiele, pastora luterana.

Maschio e femmina lì creò… siamo sicuri?

Creazione di Eva

Settimana News

Il testo della Congregazione per l’educazione cattolica va, a mio avviso, interpretato per quello che è, cioè come un contributo indirizzato «a quanti hanno a cuore l’educazione, in particolare alle comunità educative delle scuole cattoliche e a quanti, animati dalla visione cristiana della vita, operano nelle altre scuole, ai genitori, agli alunni, ai dirigenti e al personale, nonché ai vescovi, ai sacerdoti, alle religiose e ai religiosi, ai movimenti ecclesiali, alle associazioni di fedeli e ad altri organismi del settore» (7). Si potrebbe quasi definire un “prontuario” per operatori cattolici specializzati nel campo dell’educazione della gioventù.

Ciò delimita molto la prospettiva e non consente al testo di presentare in modo ampio e approfondito i molti aspetti e le molte problematiche connesse all’arcipelago gender. In concreto, infatti, il documento enuncia in maniera classica e chiara la visione antropologica fissata nel Concilio come orientamento sicuro nel mare magnum del dibattito attuale e delle voci relative al tema dell’identità sessuale e della differenza di genere. In questo modo, però, non solo non esaurisce il tema ma non riesce a rispondere in modo esaustivo alle nuove e numerose domande che le mutate condizioni antropologiche e sociali pongono al magistero della Chiesa su questi spinosi argomenti.

E così, sia il lettore attento e preparato sia il lettore coinvolto esistenzialmente ed esperienzialmente in queste realtà, alla fine della lettura, restano insoddisfatti non trovando risposte realmente soddisfacenti agli interrogativi antropologici e filosofici di fondo. Questo vulnus potrebbe divenire occasione favorevole per approfondire la ricerca e per proporre un avanzamento della riflessione tenendo conto dell’apporto della teologia in stretto dialogo con altre discipline.

Il dialogo come opportunità

Relativamente al dialogo, come prospettiva ermeneutica, la stessa metodologia proposta dalla Congregazione appare come un’opportunità interessante. Infatti, la proposta di un percorso dialogico lascia evidentemente supporre la seria volontà di considerare reali interlocutori quelle ricerche sul gender caratterizzate da adeguato approfondimento del modo in cui si vive nelle diverse culture la differenza sessuale tra uomo e donna (6). Detto diversamente, già il metodo dialogico – ascoltare, ragionare, proporre – può essere occasione per superare un’impostazione rigidamente apodittica del discorso etico uscendo dalla logica della crociata o da quella, uguale ma contraria, del fortino assediato.

Ciò significa ascoltare in modo sincero, tenendo sotto controllo i pregiudizi esistenti da entrambe le parti. Inoltre, significa che anche la teologia morale non può affrontare in solitaria le questioni che lo studio dell’antropologia sessuata dell’uomo porta con sé. Infatti, l’interpretazione del concetto di natura, di corporeità, di sesso, di identità sessuale, solo per fare qualche esempio, non possono prescindere oggi dalle nuove frontiere proposte dagli sviluppi della scienza.

I dati derivanti dalle tecnologie applicate all’uomo, dalle conoscenze sul cervello legate allo sviluppo delle neuroscienze, dalla psicologia situazionista, dalle nuove frontiere delle intelligenze artificiali non consentono di riproporre sic et simpliciter la dottrina tradizionale della legge naturale e del rapporto uomo/natura. Le categorie non sono più solo naturale/artificiale ma se ne aggiungono altre tra cui la nuova frontiera delsintetico che è altro sia dall’artificiale sia dal naturale. Inoltre i dati relativi allo studio del cervello stanno mostrando una chiara corrispondenza tra regioni cerebrali e reazioni mentali.

Da qui deriva una nuova conoscenza dell’essere umano e del suo funzionamento con cui le dottrine etiche devono dialogare. L’uomo si scopre diverso da come si pensava e la sua libertà, mentre viene propagandata in termini assoluti, di fatto risulta pesantemente condizionata da forze diverse: interne ed esterne la persona. I condizionamenti che si pensavano solo in termini psico-sociali potrebbero, infatti, avere altre ragioni a causa della radice biologica evidente delle basi comportamentali dell’agire.

Lo sviluppo delle scienze cognitive

Le scienze cognitive, inoltre, danno una visione del soggetto contro-intuitiva, diversa da quella tradizionale. Quest’ultima, fatta propria anche dall’antropologia cristiana, sottolinea come i soggetti umani siano agenti liberi, autocoscienti e razionali con una distinzione tacita mente/corpo pur in una esperienza di unità dell’io che dura nel tempo e che si può chiamare identità.

L’identità, poi, è caratterizzata in modo binario in maschile e femminile, grazie anche alle caratteristiche distintive della dimensione corporea. È a questa interpretazione di fondo che fa riferimento il documento della Congregazione per l’educazione cattolica.

In una prospettiva del tutto contraria, invece, si muove l’antropologia emergente dai risultati delle scienze cognitive che propone una visione dell’individuo contro-intuitiva per il prevalere nel soggetto di processi automatici inconsci ed emotivi che mettono in discussione la reale forza del libero arbitrio e limitano gli spazi di razionalità. Si riduce la pretesa di auto-determinazione e le scelte paiono più legate a sensazioni e a processi istintivi.

Questa prospettiva apre scenari inconsueti e determina nuove visioni antropologiche che condizionano la percezione che le persone hanno di sé e della realtà e, conseguentemente, il modo di interpretare e di giudicare il loro vissuto.

Da tutto ciò deriva sia un diverso rapporto con la realtà sia una visione etica ancorata a nuove categorie valoriali. Tutto questo scenario vede il passaggio da un paradigma teleologico ad una prospettiva correlativa in quanto al centro non è più determinante la spiegazione di ciò che accade ma trovare le correlazioni tra dati. È con questa realtà concreta che la teologia morale deve entrare in dialogo pena la marginalità della proposta cattolica.

Esemplificando, si potrebbe dire che non è sufficiente oggi ribadire semplicemente il significato profondo di quella che si definisce la «radice metafisica della differenza sessuale» (34). Questa affermazione, infatti, non solo risulta lontana dal vissuto ma anche rende parzialmente ragione della comprensione dell’umano che oggi possediamo.

Si tratta, invece, di cogliere il significato profondo dell’affermazione stessa e porlo in dialogo con le nuove conoscenze relative al soggetto umano per ricollocarla in un orizzonte capace di esprimerne il nucleo essenziale nuovamente compreso e interpretato.

È chiaro che occorre essere molto attenti sia al rischio di un uso strumentale delle scienze naturali e sociali sia ad evitare un’acritica accoglienza dei suoi assunti che sono, per definizione, in continua evoluzione e sono condizionati pesantemente dalle decisioni politiche ed economiche sottostanti. Tuttavia, è importante conoscere a fondo i metodi e i risultati che esse propongono per cogliere, mediante un dialogo e un confronto pacato e graduale, come possano illuminare le ricerche teologiche aiutando nella formulazione di un’etica interculturale in grado di intercettare il bisogno di significato dell’uomo contemporaneo.

Da questo scambio sincero gli stessi valori della Rivelazione avrebbero la possibilità di una nuova significatività. Questo dice che anche il rapporto tra teologia morale e scienze bibliche chiede di essere meglio affrontato. Il rischio, infatti, che il testo biblico sia presentato in un modo settoriale finalizzato ad avallare le proprie tesi precostituite, è presente. Approfondire un dialogo ermeneuticamente significativo con il testo biblico significa ancorare la prospettiva etica nel suo alveo naturale aperto al dialogo con i passaggi evolutivi che l’uomo ha fatto proprio grazie alla sua natura.

Chiesa italiana: l’appuntamento mancato

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«È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell’anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale» (DV, 21).

Era il 18 novembre del 1965. Il concilio Vaticano II donava alla Chiesa la Dei Verbum, senza dubbio uno dei suoi documenti più significativi la cui importanza fu percepita immediatamente da tutta la Chiesa. Il Concilio chiedeva finalmente di rimettere al centro e a fondamento dell’esperienza cristiana la parola di Dio che, soprattutto in ambito cattolico, per troppo tempo era “rimasta sotto il banco”, come diceva, con un’immagine molto efficace, Carlo Maria Martini, biblista raffinato.

Avevo 15 anni e ricordo il fermento gioioso suscitato da quel documento. Il nostro vescovo Nicola Cavanna volle sottolineare l’importanza dell’evento con una celebrazione molto suggestiva a conclusione della quale fu consegnata la Bibbia a tutti coloro che vi presero parte.

Io, seminarista, provai una forte emozione quando presi in mano la “mia” prima Bibbia. Fino ad allora, in seminario, avevamo il Messalino e le Massime Eterne. Qualcuno, e io tra questi, il Seminarista in preghiera. Per quanto riguarda la Bibbia, l’unico approccio sistematico ci veniva proposto nell’ora di religione con la lettura della Bibbia del fanciullo.

Ora ho 69 anni, 45 di sacerdozio e di attività pastorale. Ho sempre cercato di scommettere sulla parola di Dio in ogni ambito in cui sono stato chiamato ad impegnarmi. Ma è sotto gli occhi di tutti che, a distanza di 54 anni dalla Dei Verbum, quando e se viene proposta la parola di Dio ai “figli della Chiesa ” come «sorgente pura e perenne della vita spirituale» una larga percentuale di loro reagisce in maniera del tutto negativa.

Il Vangelo è da annunciare ogni volta di nuovo

Basti pensare a quello che sta avvenendo nei confronti di papa Francesco. Nessuno può sostenere che il suo richiamo all’amore verso tutti, alla solidarietà verso gli ultimi, all’attenzione e all’accoglienza verso i migranti e i rifugiati e verso quelli che lui chiama gli “scarti umani” sia estraneo al Vangelo e possa considerarsi una scelta “ideologica” del papa e non l’espressione coerente e profetica del suo ministero apostolico e della sua fedeltà al pensiero e all’azione di Cristo.

Ma molti “cattolici” lo contestano in maniera palese e spesso violenta. Perché? Dove sta la causa prima di questo atteggiamento non solo incomprensibile ma assolutamente inaccettabile alla luce del Vangelo?

È mia convinzione che la risposta, amara e desolante, stia nel fatto che la Chiesa, in particolare quella italiana, ha perso l’appuntamento con ciò che, subito dopo il Concilio, aveva intuito e proposto con forza e sapienza: l’evangelizzazione.

Subito dopo il Concilio, il progetto pastorale centrato su evangelizzazione e rinnovamento della catechesi ha scaldato i motori per un autentico rinnovamento, ma poi non si è avuto il coraggio di portarlo avanti accettandone fino in fondo le logiche conseguenze pastorali.

Abbiamo avuto paura di perdere il consenso della maggior parte di quei cristiani che abbiamo etichettati come “cattolicesimo popolare” pur di poterli continuare a considerare membri della Chiesa solo perché legati ad un cristianesimo sociologico senza la spina dorsale della parola di Dio e senza il sostegno di una vita sacramentale convinta e motivata.

A parole abbiamo parlato di fede adulta e di adulti nella fede, nei fatti abbiamo completamente dimenticato quello che i vescovi italiani scrivevano nel 1971: «A prima vista, è vero, si potrebbe avere l’impressione che il popolo italiano conservi intatto il patrimonio religioso tradizionale. La nostra gente, quasi dovunque, continua a chiedere il battesimo, la comunione e la cresima per i propri figli, vuole celebrare il matrimonio in chiesa ed esige la sepoltura religiosa. Ma quanti sono consapevoli degli impegni di vita cristiana, che questi riti sacri presuppongono e coinvolgono? Le feste si rinnovano con puntualità e solennità, secondo antiche consuetudini: i segni religiosi sono ancora presenti e dominanti nel panorama di un popolo che, da circa due millenni, si gloria del nome cristiano, ma si può sempre dire che tutto questo nasca da un profondo “senso religioso”, da un’autentica “fede” cristiana?» (Vivere la fede oggi, n. 3).

Abbiamo avuto paura

Abbiamo avuto paura di ciò che avrebbe comportato una vera e costante scommessa sull’evangelizzazione. Abbiamo avuto paura di fare della croce il paradigma della vita cristiana, così come Cristo ha chiesto esplicitamente ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24 e parr.). E in Giovanni: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo… Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra» (15,18ss.).

Abbiamo dimenticato che la resurrezione, e dunque il futuro perennemente rinnovato, passa sempre attraverso la croce.

Per questo, al posto dell’evangelizzazione, abbiamo preferito puntare sul cosiddetto “Progetto culturale di ispirazione cristiana” non rendendoci conto che quella scelta era dettata piuttosto dall’intenzione di mantenere in qualche modo le posizioni occupate nel passato secondo la logica della societas christiana.

In questo contesto, l’ebbrezza di un potere da conservare a tutti i costi e la pretesa di dettare legge appoggiandosi su partiti compiacenti pronti a servirsi a loro volta della Chiesa ci ha portato ad affidare la salvaguardia di quelli che abbiamo sbandierato come “valori non negoziabili” a chi, nel concreto, li aveva già rinnegati. Fino ad affidarci ai cosiddetti “atei devoti”, pronti a difendere le “radici cristiane” della nostra civiltà dimenticando che l’unica radice di un cristianesimo autentico è Cristo e il suo vangelo.

Intanto la storia è andata avanti e gli effetti, oggi più che mai, si fanno sentire… e come! Abbiamo una Chiesa in cui la maggior parte dei suoi membri non conoscono il vangelo se non per sentito dire. Abbiamo un’iniziazione cristiana fallimentare. Abbiamo gente che si dice cristiana e che, di fronte al messaggio evangelico nella sua dimensione essenziale, si chiude a riccio e trova del tutto normale partecipare alla celebrazione eucaristica e professare idee e assumere atteggiamenti contrari alla Parola celebrata e ascoltata. Abbiamo la “massa” che si sta sempre più assottigliando lasciando vuoti incolmabili proprio perché abbiamo trascurato l’unica possibilità che avevamo di seminare il futuro: una seria e costante evangelizzazione e un profondo rinnovamento della catechesi.

Seguire l’indicazione di Gesù

A questo punto è evidente che dobbiamo avere il coraggio di abbandonare l’idea che, continuando a mettere toppe nuove su un vestito vecchio (cf. Lc 5,36), possiamo sperare in quel rinnovamento della Chiesa necessario perché sia il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (LG 1).

La strada da percorrere è già scritta. Si tratta di ritrovarla e di percorrerla fino in fondo, costi quello che costi. La strada è quella indicata da Gesù: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). La Chiesa del futuro dipende dalla nostra fedeltà a questo mandato e dal nostro coraggio profetico.

In questa prospettiva mi piacerebbe un giorno – prima possibile perché ora è il momento favorevole (2Cor 6,2) – che i vescovi della Chiesa che vive in Italia abbiano il coraggio di concordare un progetto pastorale in cui emerga chiaramente che la partita della fede si gioca sul piano di una scelta chiara di Gesù Cristo e del suo vangelo. Loro, i nostri pastori, per primi debbono essere fedeli a ciò che Gesù dice: Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno (Mt 5,37). Ci dicano, finalmente, se si può continuare a dirsi cristiani se si hanno idee e si assumono atteggiamenti contrari a quel «ama il prossimo tuo come te stesso» che non mi sembra un elemento accessoriale lasciato alla libera scelta di un discepolo di Cristo.

Lo stupore della Liturgia

liturgia ortodossa

settimananews

Lavoro da una quindicina d’anni come collaboratrice del Servizio diocesano per il catecumenato della Diocesi di Padova. Il percorso del catecumenato è un cammino istituito dalla Chiesa, secondo una prassi antica, per coloro che non sono stati battezzati da infanti. Riguarda sia gli adulti che i bambini sopra i sette anni. Ogni anno sono tante le persone che si avvicinano alla fede cristiana e anche in questa ultima Pasqua hanno ricevuto i sacramenti della iniziazione cristiana (battesimo, cresima ed eucaristia) una trentina di adulti e una quarantina di ragazzi.

È davvero una grande grazia poter lavorare in questo ambito.

Si potrebbero raccontare le varie motivazioni che conducono alla ricerca di Cristo, portare le varie testimonianze, ma io mi soffermo ogni volta su un aspetto fondamentale di tutto questo percorso: la sua ritualità. Prima di tutto dobbiamo sottolineare che il libro liturgico di riferimento si intitola: Rito dell’Iniziazione Cristiana degli adulti (RICA). Solitamente un rito riguarda una singola celebrazione, pensiamo al rito del Battesimo, al rito della Penitenza, al rito del Matrimonio. Qui abbiamo un libro rituale che abbraccia almeno due anni: un rito che dura due anni? Una vera anomalia nella Chiesa. Comprendiamo che il testo, come precisa la premessa: «Più che un rito contiene un complesso di riflessioni teologiche, di indicazioni pastorali e azioni liturgiche che vogliono sostenere e guidare l’itinerario alla vita cristiana nella Chiesa …». Vi è la necessità di una seria evangelizzazione, di un coinvolgimento della parrocchia, della testimonianza dei catechisti e dei garanti, ma seguendo questo testo comprendiamo che alla fine quello fa di una persona un catecumeno è un’azione liturgica precisa, il Rito di ammissione al catecumenato. E così via con tutti gli altri Riti: unzioni, elezione, scrutini, consegne, riti preparatori, fino alla Solenne Veglia pasquale.

La Liturgia “fa”. È proprio grazie a questo impegno nel catecumenato che ho compreso ancora di più la preziosità della Liturgia nella nostra vita di Cristiani. Se non c’è un rito, una celebrazione, non avviene il progressivo inserimento della persona nella vita della Chiesa.

La Sacrosanctum Concilium, cioè la Costituzione dogmatica sulla Liturgia del Concilio Vaticano II dice: «La Liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo… Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (SC 7).

Nessun’altra azione ne uguaglia l’efficacia: è una frase fortissima che ci dice l’essenzialità dell’atto liturgico. Nessuna catechesi, nessuna lectio divina, nessun incontro con i genitori eguaglia l’efficacia dell’azione liturgica, perché in atto vi è la presenza sacerdotale di Gesù Cristo morto e risorto. Certo, Gesù è accanto a noi in ogni momento della nostra vita, ma nella Liturgia la sua Grazia agisce in maniera speciale perché l’azione liturgica garantisce la funzione sacerdotale di Cristo. È l’opera di Gesù Cristo che agisce, non della Chiesa che parla di lui. Cosicché: «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche… È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC 7). È Lui che agisce e fa.

Ecco perché è così essenziale vivere, conoscere, amare e celebrare la Liturgia. Con essa noi diciamo che Gesù Cristo ci precede, che la sua grazia lavora e opera lì dove noi non possiamo arrivare. Altrimenti potremmo credere che sia la nostra sapienza, la nostra carità, la nostra catechesi a edificare la Chiesa. La Chiesa invece la edifica Cristo, per mezzo di noi, ma con la sua grazia in azione nell’atto liturgico, definito sempre dallaSacrosanctum Concilium fonte e culmine della vita cristiana: «La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore» (SC 10).

Ricordo quello che mi disse una volta Joy, una profuga che veniva da un’esperienza terribile di sfruttamento e dolore, dopo il rito di Ammissione al catecumenato: «Tu mi hai parlato di tante cose, mi hai anche spiegato cosa sarebbe successo oggi, ma solo quando sono passata attraverso la porta durante la celebrazione, e sono entrata in Cattedrale con il Vescovo, ho capito che finalmente ero salva». Il rito l’aveva raggiunta nel profondo lì dove né le mie parole né i miei gesti potevano raggiungerla. Per questo sarebbe bello guardare insieme non solo le celebrazioni del Catecumenato, ma anche quelle che viviamo ogni Domenica e che rischiano di sfuggirci come sabbia tra le dita. Comprendere qualcosa della Liturgia per nutrirci profondamente di quanto solo essa può donarci.

Vangelo della domenica. Marta lo ospitò. Maria ha scelto la parte migliore (Lc 10,38-42)

(a cura Redazione “Il sismografo”)

“In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».”

Parola del Signore
Commento di mons. Pierbattista Pizzaballa
Nella Bibbia è difficile trovare una coppia di fratelli o di sorelle che non abbiano una relazione difficile, conflittuale.
Ci si imbatte in bellissimi rapporti di amicizia (cfr Davide e Gionata), ci sono forti legami padre-figlio, marito-moglie, perfino un esempio di relazione riuscita tra suocera e nuora (cfr il libro di Ruth).
Invece il legame tra fratelli sembra essere fin dall’inizio (cfr Caino-Abele) segnato da una certa violenza, e tutta la storia successiva non fa che confermare questa modalità.
Il Vangelo di oggi ci parla di una coppia di sorelle a cui non viene risparmiata la fatica di confrontarsi con questa dinamica. Gesù entra in una casa, due sorelle lo accolgono, una si mette seduta ad ascoltare, l’altra si dedica alle mansioni domestiche, ma poi si lamenta con Gesù: “Non ti importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti” (Lc 10,40)
Ci lasciamo aiutare da altri due episodi del Vangelo per entrare in questa Parola.
Il primo è riportato da Luca due capitoli dopo questo episodio di Betania, ed è quello di un uomo che si avvicina a Gesù e gli chiede di fare da arbitro tra lui e suo fratello (Lc 12, 13-21). E lo fa usando parole molto simili a quelle di Marta: “Or uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità»” (Lc 12,13). Sono due brani con tanti elementi in comune: in entrambi ci sono due coppie di fratelli; in entrambi c’è la richiesta a Gesù di fare da arbitro (esattamente con le stesse parole: “di’ a mio fratello”, “di’ a mia sorella”), ed entrambi finiscono con qualcosa che sarà o non sarà tolta: Maria si è scelta la parte migliore, che non sarà tolta; e al fratello che rivendica la parte di eredità, Gesù racconta la parabola del ricco stolto, al quale, dopo tanto accumulare (che richiama da vicino il gran da fare di Marta), viene richiesta (tolta) la vita.
Il secondo è un momento di tempesta, in mezzo al lago. I discepoli temono della loro vita, invece Gesù dorme sul guanciale a poppa. “Essi lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che noi moriamo?»” (Mc 4,38).
Nelle parole di Marta, risuona la stessa espressione: Non ti importa?, come se il problema di Marta non fosse tanto quello di essere rimasta sola a servire, ma il fatto che questo non importi a Gesù.
Forse qui, nascosti in questi richiami, ci sono alcuni dei nodi che rendono problematico il vivere da fratelli (e sorelle).
Il problema è che i fratelli, per il fatto stesso di essere tali, sono chiamati a dividersi tra loro una serie di cose: lo spazio in casa, l’affetto dei genitori, i diritti e i doveri, fino all’eredità paterna… (“di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”).
E su questo si litiga, si litiga su come è giusto spartirsi le cose, su ciò che spetta all’uno o all’altro.
È un problema spartirsi i diritti, i beni, ma lo è ancor più forse dividersi i doveri: a chi tocca fare questo? È il problema di Marta: “dille dunque che mi aiuti a servire”.
Perché il mio dovere, esattamente come il diritto dell’altro, ai miei occhi rappresenta qualcosa che mi vien tolto, una parte di vita a cui devo rinunciare perché l’altro ne benefichi…Come se la vita non bastasse per tutti.
Ed ogni volta che ci viene tolto qualcosa (o che così ci sembra), anche di minimo, per noi diventa un’esperienza drammatica, perché in qualche modo ci richiama alla mente quel momento ultimo in cui tutto ci sarà tolto, ci sarà tolta la vita. Ci ricorda che siamo mortali, e questo è il dramma della vita.
È il dramma per cui il ricco stolto accumula tante cose, sperando che queste gli assicurino la vita. Ma la vita non sta lì.
Allora accogliere la presenza del fratello, le sue esigenze, non è mai scontato, può far nascere qualche domanda (ciò che abbiamo basterà per tutti e due?), e anche qualche sospetto (l’altro non ne approfitterà, non prenderà anche la mia parte? Non è che la vita dell’altro arriverà a comportare poi la mia morte?).
Il legame con il fratello c’entra da vicino con la vita, e con la morte; e, in modo particolare, con la paura della morte, con la paura che l’altro sia una minaccia per la mia vita.
Allora, quando il fratello viene percepito come una minaccia, l’unica soluzione è eliminarlo… È la soluzione di Caino, e di altri dopo di lui, ed è la tentazione di tanti, se non di tutti, prima o poi…
La grandezza di Marta (a differenza di Caino) è stata la capacità di parlare di questo dramma direttamente con Gesù. È un primo passo perché il legame sia evangelizzato.
Ogni legame fraterno (quello tra fratelli, tra clan, tra etnie, tra popoli, tra nazioni…) ha bisogno di essere evangelizzato, se no vive solo della paura dell’altro.
Evangelizzato, cioè ricondotto all’essenziale, a ciò che Maria si è scelta.
Ma cosa si è scelta Maria?
Maria semplicemente ha scelto di credere, proprio come Abramo nella prima lettura; di credere che quando Dio viene, non viene a togliere la vita, ma a darla, e che questa vita basta per tutti.
La vita che Dio dà basta per tutti, proprio perché ha vinto la morte, e per questo non può essere tolta.
Maria si è scelta questa vita, e ci sta in quell’atteggiamento di libertà di chi è sicuro che al Signore importa la nostra vita. Allora non è necessario fare qualcosa per Lui, ma basta sedersi ad accogliere.
È un atteggiamento che nasce dall’ascolto, dallo stare seduti ai piedi del Maestro, e che libera da una dinamica fraterna basata solo su diritti e doveri, su cosa è giusto, su cosa mi spetta, su confronti e contrapposizioni.
E siccome questo essenziale non può essere tolto, Maria non ha bisogno di guadagnare e non ha paura di perdere.
Per questo, in Giovanni 12 Maria fa un gesto in cui perde tutto, senza alcun timore, in cui spreca, in cui attinge a piene mani alla vita e la dona. Un gesto che dice tutta la libertà dalla paura della morte…
Un gesto d’amore vero è possibile solo lì, dove è vinta la paura della morte.
Allora, cosa chiede Gesù a Marta? Non di lasciar perdere le faccende domestiche, e neanche di non lasciarsi distrarre dalle tante cose da fare. Non le chiede di fare le cose senza lamentarsi, non le chiede di sacrificarsi per tutti.
Le dice che, se ascolta, Lui trasformerà la sua morte in vita, come ha fatto con sua sorella Maria, come farà con suo fratello Lazzaro.
E che questo è l’unica via per ritrovare i suoi fratelli.
+ Pierbattista

Collegio cardinalizio dopo la morte oggi del Cardinale Estepa Llaurens

Vaticano 

(a cura Redazione “Il sismografo”) 
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