Scenari. Neuroscienze: che ne resta del libero arbitrio?

I risultati delle scienze cognitive pongono profondamente in discussione le idee ordinarie sulla natura dell’azione consapevole, della razionalità e della libertà

Neuroscienze: che ne resta del libero arbitrio?

Da Avvenire

Proponiamo un estratto dell’introduzione alla nuova edizione del volume Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice, pagine 302, euro 18,00), a cura di Andrea Lavazza, caporedattore di “Avvenire” e senior research fellowpresso il Cui di Arezzo, Mario De Caro, docente di Filosofia morale all’Università di Roma Tre, e Giuseppe Sartori, ordinario di Neuropsicologia forense e Neuroscienze forensi all’Università di Padova. Il volume si arricchisce dei saggi di Derk Pereboom e Gregg D. Caruso Lo scetticismo sulla libertà e un nuovo esistenzialismo, di Alfred R. Mele Libero arbitrio, responsabilità morale ed epifenomenismo scientifico e di Roy F. Baumeister, Stephan Lau, Hather M. Maranges e Cory J. Clark Per le azioni umani complesse è necessaria la coscienza.

Sono ormai celebri le ricerche condotte da Benjamin Libet, lo scienziato che per primo applicò metodi di indagine neurofisiologica per studiare la relazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione cosciente di eseguire un determinato movimento volontario. Nei suoi esperimenti, Libet invitava i partecipanti a muovere quando avessero voluto («liberamente e a proprio piacimento’ » il polso della mano destra e, contemporaneamente, a riferire il momento preciso in cui avevano avuto l’impressione di aver deciso di avviare il movimento: l’obiettivo era infatti quello di indagare il rapporto tra la coscienza dell’inizio di un atto e la dinamica neurofisiologica sottostante […]. Il risultato controintuitivo, e secondo molti rivoluzionario, degli esperimenti di Libet emerge dalla comparazione del tempo soggettivo della decisione con quello neurale: si rileva infatti che il potenziale di prontezza motoria, che culmina nell’esecuzione del movimento, comincia nelle aree motorie prefrontali del cervello molto prima del momento in cui al soggetto sembra di aver preso la decisione. I volontari, infatti, diventavano consapevoli dell’intenzione di agire circa 350 millisecondi (ms) dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo II (tipico delle azioni non pianificate e più spontanee) e 500-800 ms dopo l’instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo I (tipico delle azioni pianificate e consapevolmente preparate). Il processo volitivo sembra quindi prendere avvio inconsciamente, in quanto il cervello si prepara all’azione molto prima che il soggetto divenga consapevole di aver deciso di compiere il movimento […]. In generale, i risultati delle neuroscienze e delle scienze cognitive oggi pongono profondamente in discussione le idee ordinarie sulla natura dell’azione consapevole, della razionalità e della libertà. Come ha sottolineato Michele Di Francesco, «il soggetto è depotenziato da una pluralità di agenzie neuronali, che si orientano e decidono in base a logiche e meccanismi molto diversi da quelli che attribuiamo a noi stessi con la psicologia ingenua».

La natura parallela e distribuita del funzionamento cerebrale (ovvero il fatto che vi siano moduli e/o agenzie cognitive distinte dal punto di vista funzionale e architettonico- anatomico) fa infatti dubitare della natura unitaria dell’io […]. Non soltanto la filosofia, d’altra parte, viene scossa da questi risultati. A venire minacciata in uno dei suoi snodi fondamentali è anche la stessa antropologia religiosa, e quella cattolica in particolare, nella misura in cui essa attribuisce alla persona umana la capacità di esercitare il libero arbitrio, controllando razionalmente le proprie decisioni e i propri atti (ed essendo, per questo, responsabile ovvero meritevole di lode oppure di biasimo). Per questo, a meno che non preferisca ignorare il profondo conflitto tra la visione scientifica del mondo e le categorie della metafisica tradizionale (inclusa l’idea che la libertà umana trovi fondamento nell’anima intesa come forma immateriale del corpo), il pensiero religioso sembra chiamato a ripensare alcune delle proprie categorie. Ma ancora più generalmente è lo stesso senso comune, il modo in cui ordinariamente concepiamo noi stessi, a venir messo in discussione dai sorprendenti risultati che arrivano oggi dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive. Molti autori sostengono oggi che il cosiddetto restringimento del soggetto agente sia prodotto anche dal cosiddettobypassing, ossia il fatto che gli stati mentali non svolgono un adeguato ruolo causale rispetto alle nostre decisioni e alle nostre azioni. Ciò, tuttavia, non accade perché le intenzioni e gli altri stati mentali coscienti si debbano considerare come entità immateriali: per la maggior parte degli studiosi contemporanei, infatti, gli stati mentali coscienti sono “agganciati”, in modo non riduzionistico, ai loro correlati neuronali. Piuttosto, si ritiene che tali correlati non siano parte dei processi cerebrali che conducono alla produzione delle nostre decisioni e delle nostre azioni. Secondo alcuni filosofi, alfieri di un recente ottimismo circa l’illusione della libertà, questo fenomeno non deve però essere interpretato come diminuzione della dignità umana o come motivo di una crisi antropologica. Come la consapevolezza di non essere al centro dell’universo o al picco dell’evoluzione, così anche la constatazione che non siamo liberi (o almeno che non lo siamo nell’accezione consueta del termine) può essere accettata guardando ai suoi aspetti positivi. Se ancora un “illusionista” come Smilansky guardava con preoccupazione al diffondersi delle sue idee nella società, temendo scompensi a livello personale e comunitario, autori come Pereboom, Nadelhoffe, Waller, Caruso, Sommers vedono nello svanire dell’idea di libero arbitrio un guadagno in termini di superamento del retributivismo penale (che tanta sofferenza provoca nei condannati) e della rabbia morale, che avvelena le esistenze ponendo tutta l’enfasi dei rapporti interpersonali sul merito e la colpa di ciascuno, in base ai quali dare ricompense o punizioni.

Sulla stessa linea “spinoziana” si muovono gli studiosi che approvano la rinuncia alla nozione di giusto merito e si spingono a ipotizzare società più eque, superando la giustificazione degli assetti diseguali con i successi e i fallimenti individuali. Senza la responsabilità, un’idea che cade in assenza di libero arbitrio, si avrebbero atteggiamenti più compassionevoli, perché chi è toccato dalla cattiva sorte non ha colpe da scontare ma dovrebbe ricevere simpatia e sostegno da chi, invece, è stato soltanto più fortunato. Si passerebbe così dalla “politica del merito” al “principio di umanità”. Questa prospettiva teorica non si limita soltanto agli aspetti sociali, ma tocca l’esistenza umana in generale, al punto che oggi si parla anche di “neuroesistenzialismo” – ossia una concezione che, all’affermarsi delle prospettive naturalistiche sul mondo e sull’essere umano, potrebbe rimpiazzare le altre Weltanschauungen, portando gli individui a comprendere come la loro parabola terrena è sì in balia del caso, ma che essi possono ugualmente godere di moralità, bellezza, relazioni soddisfacenti e piaceri elevati nel rispetto reciproco. Numerose obiezioni sono state tuttavia mosse sia contro la tesi dell’illusorietà del libero arbitrio (la posizione compatibilista è ancora di gran lunga prevalente tra i filosofi) sia contro l’idea che tale illusione porti a conseguenze desiderabili. La tesi di Peter Strawson – secondo il quale, anche se si dimostrasse la verità del determinismo, noi dovremmo comunque privilegiare l’idea che le persone agiscano in base a ragioni delle quali possono e devono dare conto l’una all’altra in modo paritario – rimane infatti una delle riflessioni più influenti e persuasive del filone di pensiero che vede la libertà come un attributo fondamentale della nostra umanità.

Verso il Meeting. Francesco, il Sultano e le sorgenti della fede

Lo spettacolo di Cenci dedicato all’incontro di 800 anni fa e che evoca anche Christian de Chergé debutta domani a Bertinoro; sarà poi protagonista a Rimini dal 18 al 24 agosto

Valeria Kadija Collina e Mirna Kassis in “Francesco e il Sultano Ainalsharaa – Il pozzo dei poeti”

Valeria Kadija Collina e Mirna Kassis in “Francesco e il Sultano Ainalsharaa – Il pozzo dei poeti”

da Avvenire

Cosa abitava nel cuore e nella mente di Francesco d’Assisi e di Malik Al-Kamil, sultano di Egitto e di Siria, quando si incontrarono ottocento anni fa a Damietta? Un desiderio di conoscersi, una curiosità verso l’altro che certo non andava per la maggiore nel 1219, nel pieno della quinta crociata. E che anche oggi farebbe gridare allo scandalo chi preferisce percorrere la strada breve del conflitto identitario e della demonizzazione dell’avversario rispetto al sentiero impegnativo di un dialogo franco e aperto, senza maschere, in cui ciascuno gioca fino in fondo la propria identità. L’eco di quell’incontro risuona potente, come se riaccadesse sotto i nostri occhi, nello spettacolo Francesco e il Sultano. Ainalsharaa – Il pozzo dei poeti, in prima nazionale domani alle 21 nella splendida cornice della Rocca Vescovile di Bertinoro (Forlì-Cesena). Protagoniste due donne che hanno alle spalle storie dure, intrise di dolore, speranza e desiderio di ricominciare. Una è Valeria Kadija Collina, bolognese, una passione per il teatro che risale agli anni della militanza nel femminismo, convertita all’islam, madre di Youssef, uno degli autori dell’attentato al London Bridge di Londra del 3 giugno 2017, fondatrice dell’associazione Rahma per la promozione dell’integrazione e la lotta alla radicalizzazione dei giovani musulmani in Italia. L’altra, Mirna Kassis, è originaria di Damasco dove si è diplomata in canto lirico, specializzata in musica araba tradizionale, ha alle spalle una vasta attività concertistica e porta nel cuore le ferite di una guerra che sta ancora dilaniando la sua terra.

Due donne segnate dalla sofferenza e insieme dal desiderio di affrontare l’esistenza e il rapporto con ‘l’altro’ con lo stesso sguardo di Francesco e di Malik Al-Kamil. Lo spettacolo è un viaggio poetico, con balzi tra il racconto storico e l’introspezione, tra il Duecento e la contemporaneità. L’interpretazione recitativa asciutta della Collina dialoga con il canto espressivo e multiforme di Mirna Kassis, si alternano brani recitati e cantati, musica e proiezioni di immagini. Ainalsharaa è il nome del paese sulle montagne siriane, non lontano da Damasco, dove Mirna Kassis viveva con la famiglia: il nome significa ‘il pozzo dei poeti’ e identifica la fonte dove gli abitanti del luogo attingevano l’acqua, luogo di incontro tra persone di diversa cultura e religione. «L’acqua è un elemen- to che abbiamo valorizzato – spiega Otello Cenci, che ha curato la regia e la drammaturgia – perché ha un significato speciale nella tradizione orientale e quindi sia nella cultura islamica sia in quella cristiana. Il nostro lavoro parte dal convincimento che un dialogo autentico si fonda sulle convinzioni profonde degli interlocutori e insieme sulla disponibilità all’ascolto, sul desiderio di incontrare l’altro per conoscere di più se stesso, sulla consapevolezza che la verità è qualcosa di più grande di noi, che non possiamo illuderci di possedere, di chiudere nella gabbia dei nostri progetti». Giampiero Pizzol è l’autore del testo, frutto di un accurato studio delle fonti che si è potuto avvalere di varie realtà che hanno fornito il loro supporto per una corretta interpretazione e hanno creduto in un progetto così ardito: il Museo Interreligioso di Bertinoro, la Comunità religiosa islamica italiana, la Custodia di Terra Santa, i Cammini Francescani.

Lo spettacolo è allestito nel quadro della terza edizione del Festival della vita in ricerca, promosso dalla Fondazione Museo Interreligioso di Bertinoro e che si conclude sabato 13. «Lo proponiamo come un’occasione per tornare a costruire ponti tra uomini e culture – spiega il direttore Enrico Bertoni –, nella convinzione che l’autentica declinazione di una parola come ‘identità’, oggi molto usata e strumentalizzata, non sta in una autoaffermazione che ha come obiettivo la cancellazione della diversità, ma nella consapevolezza che per realizzare pienamente se stessi è necessario incontrare l’altro». Dopo il debutto, lo spettacolo verrà rappresentato anche durante il Meeting di Rimini (18-24 agosto) e, auspica Cenci, «vista la sua originalità, il momento storico in cui va in scena e l’allestimento agile e leggero, ci auguriamo che possa essere ospitato in teatri, chiese, piazze, carceri e salotti privati, toccando il cuore degli spettatori come ha toccato il nostro. È stata un’avventura artistica e umana insieme, che ha riunito persone di tradizioni e sensibilità diverse ma accomunate dal desiderio di andare incontro all’altro per conoscere di più se stessi». È il desiderio che ha mosso anche Valeria Kadija Collina, una madre che ha potuto risalire dall’abisso di dolore in cui era precipitata dopo la morte del figlio percorrendo un cammino fatto di purificazione personale, di rivisitazione degli aspetti più controversi dell’islam e «di rapporti stretti con tanti amici cristiani che hanno condiviso il mio travaglio interiore e mi hanno offerto un’amicizia capace di dare una luce nuova all’esistenza».

La Collina ricorda un episodio che ha inciso profondamente nella sua visione dei rapporti tra persone che percorrono un autentico cammino di fede. Viene raccontato nella biografia di Christian de Chergé, il priore del monastero di Tibhirine ucciso insieme ad altri sei monaci nel 1996, nel contesto della guerra civile che infuriava in Algeria. Un giorno Mohammed, un abitante del villaggio vicino al monastero con cui era nata un’amicizia ma che da qualche tempo il monaco non frequentava, usò un’immagine evocativa per sollecitarlo ad incontrarsi nuovamente: «È molto tempo che noi non scaviamo più il nostro pozzo! ». «L’immagine è rimasta – ricordava De Chergé -. Noi la usiamo quando sentiamo il bisogno di comunicare in profondità. Una volta gli ho posto la domanda: ‘E al fondo del nostro pozzo che cosa troveremo? Dell’acqua musulmana o dell’acqua cristiana?’. Lui mi ha guardato tra il divertito e l’amareggiato: ‘Proprio tu, dopo tanto tempo che camminiamo insieme, mi poni ancora questa domanda! Tu lo sai, al fondo di questo pozzo ciò che si trova è l’acqua di Dio’».

11 luglio. San Benedetto da Norcia, «l’uomo di Dio che brillò su questa terra»

si celebra il patrono d’Europa, fondatore del monachesimo occidentale: la sua storia raccontata da dom Bernardo Gianni, abate dell’abbazia di San Miniato al Monte di Firenze

Benedetto, “l’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli, non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina”. A dirlo è san Gregorio Magno, che descrisse in questo modo, nell’anno 592, il fondatore del monachesimo occidentale, colui che, con il suo esempio e la sua Regola, diede origine a una nuova unità spirituale e culturale nel continente dopo il crollo dell’unità politica dell’impero romano.

In questo breve video per Avvenire, racconta la storia di san Benedetto l’abate dell’abbazia di San Miniato al Monte di Firenze, dom Bernardo Gianni.

Avvenire

Abusi – linee guida: il percorso compiuto e da fare

Articolo tratto da Settimana News

La lettura sinottica delle linee guida sugli abusi della Conferenza episcopale italiana, del 2012, 2014 e quelle approvate nel 2019 (L. Prezzi, Assemblea CEI: nuove linee sugli abusi) è indicativa sul cammino compiuto da parte dell’episcopato italiano e delle attese, più o meno percorribili, che rimangono. A partire dal titolo che, nelle prime due edizioni, suona «Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici», mentre nella terza, pubblicata il 24 giugno di quest’anno, si dice «Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili» (CEI-CISM, Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili).

Cambia il tono

In generale è diverso lo sviluppo del testo (molto contenuto nei primi due casi, assai più ampio nel terzo), diversa la proporzione fra l’attenzione ai profili canonistici e penalistici e le intenzionalità pastorali (queste ultime molto più esplicite nel terzo), diverso il tono complessivo: da un approccio sostanzialmente impaurito e difensivo si passa a un diverso stile di accoglienza e di impegno.

Di particolare rilevanza i principi guida (ed. 2019) che sottolineano «l’assoluta determinazione» della Chiesa italiana per contrastare il fenomeno, il coinvolgimento di tutte le comunità credenti («Tutta la comunità è coinvolta nel rispondere alla piaga degli abusi non perché tutta la comunità sia colpevole, ma perché di tutta la comunità è il prendersi cura dei più piccoli»), «il giusto e dovuto ascolto alle persone che hanno subito un abuso», come anche il «dovere morale di una profonda conversione personale» degli abusatori.

Viene invocata una grande prudenza nei criteri di ammissione ai seminari e una altrettanta grande attenzione alla formazione permanente del clero. I preti devono avere una solida identità e il senso autentico dell’autorità di servizio. In ogni caso, «nessun silenzio o occultamento può essere accettato in tema di abusi». C’è una cultura della prevenzione da sviluppare e una fattiva collaborazione con l’autorità civile da sperimentare «nel rispetto della reciproca autonomia e della normativa canonica, civile e concordataria».

Le comunità cristiane hanno diritto di essere informate relativamente agli indirizzi ecclesiali, alle prassi e ai protocolli adottati. Nei casi concreti la giusta informazione va ponderata con la segretezza di alcune fasi del procedimento e con la tutela della buona fama e la riservatezza di tutti i soggetti coinvolti.

Eventi mondiali

Fra il 2012 e i 2019 sono esplosi a livello mondiale ripetuti scandali di vaste proporzioni. Ricordo il caso del fondatore del Sodalizio di vita cristiana, Luis Fernando Figari (Perù), quello di don Fernando Karadima (Cile), del card. Theodore McCarrick (USA) e del card. George Pell (Australia; il caso non è ancora giunto a conclusione), il rapporto finale della Royal Commission in Australia, di diversi rapporti in Irlanda, il documento del Gran Giurì della Pennsylvania (USA). Oltre ai documenti di denuncia degli stessi episcopati come quello tedesco, polacco e canadese.

Sono anche gli anni in cui si moltiplicano negli episcopati l’elaborazione di linee guida e di prassi di accompagnamento delle vittime a seguito della lettera della Congregazione della dottrina della fede del 2011. Benedetto XVI e poi Francesco hanno perseguito con determinazione sia le denunce sia gli incontri con le vittime.

Di particolare rilievo l’istituzione della Commissione pontificia per la tutela dei minori, i testi normativi per i vescovi accusati e per i ricorsi e le due lettere al popolo di Dio (quella ai cattolici cileni e quella all’intero popolo di Dio dell’agosto 2018). Nel febbraio 2019 si è celebrato a Roma l’incontro dei rappresentanti di tutti gli episcopati sul problema (L. Prezzi, Abusi: l’incontro e le decisioni). Uno dei frutti maggiori è il motu proprio Vos estis lux mundi che ricapitola prassi e procedure nei casi di abuso sessuale, a cui si aggiungono gli abusi di coscienza e di potere.

Elementi di novità

La Conferenza episcopale italiana si è mossa in tale contesto. Pur non essendosi ancora verificata nel nostro paese una sequela di eventi e di scandali di proporzioni eclatanti, l’attenzione è di molto cresciuta. È stato costituito un Servizio nazionale per la tutela dei minori con la volontà di istituire corrispettivi organismi a livello regionale/interdiocesano e a livello diocesano (con almeno un referente).

Nella scrittura delle linee guida del 2019 si avverte la mano di gente esperta e professionalmente coinvolta. Da qui, oltre che dalle recenti disposizioni vaticane, alcune novità. Alle vittime va dato ascolto, accoglienza e accompagnamento, con un sostegno terapeutico, psicologico e spirituale. Nella lotta agli abusi è coinvolto «chiunque opera nelle comunità ecclesiali» alla cui formazione provvederanno i diversi servizi nazionali, regionali e diocesani.

Per quanto riguarda i seminaristi e il clero: ai primi è chiesta l’attestazione civile che escluda qualsiasi precedente e una valutazione specialistica, ai sacerdoti si suggerisce un aggiornamento sistematico. Per i religiosi che entrano in diocesi si chiede ai superiori informazioni scritte, veritiere e complete. Nuova è anche la determinazione su cosa si intenda per abuso, minore e persona vulnerabile.

La trafila classica che si avvia dopo ogni segnalazione e cioè l’indagine previa, l’avvio del processo (con informativa a Roma) e la condanna o assoluzione non tollera «nessun clima di complice e omertoso silenzio», né alcun ostacolo rispetto alla denuncia all’autorità dello stato. L’ascolto deve avvenire in ambienti accessibili, protetti e riservati e ai segnalanti non può essere imposto il segreto.

Tribunali ecclesiastici e magistratura

Nel procedimento canonico l’interesse primario da tutelare è quello del minore o della vittima. Per garantire il corso della giustizia l’accusato può essere allontanato dal ministero. Se vi è il pericolo di reiterazione, le censure posso diventare pubbliche.

La conclusione dell’indagine previa, che attesti la verosimiglianza dei fatti delittuosi, comporta la segnalazione alla Congregazione della dottrina della fede e l’avvio del processo (primo grado; il secondo grado è della Congregazione per la dottrina della fede). Le sanzioni canoniche possono arrivare fino alla dimissione dallo stato clericale.

Va comunque riconosciuta agli accusati la presunzione di innocenza e non devono essere lasciati soli. Si ricorda che la responsabilità del delitto è personale. Nelle linee guida precedenti la sottolineatura della non responsabilità della Santa Sede e della Conferenza episcopale era fortemente evidenziata.

Diversa è anche la disponibilità ai rapporti con la magistratura e le autorità civili. Se le vittime sono d’accordo, c’è la possibilità di una segnalazione all’autorità giudiziaria fin dall’inizio e si riconosce «l’obbligo morale di procedere all’inoltro dell’esposto all’autorità civile qualora, dopo il sollecito espletamento dell’indagine previa, sia accertata la sussistenza del fumus delicti». A meno di una giustificata opposizione della vittima. Si consiglia di non sovrapporre i procedimenti canonici con quelli giudiziari civili.

Le false accuse devono essere punite. «La persona falsamente accusata di aver compiuto abusi ha il diritto di vedere tutelata e ripristinata la sua buona fama e onorabilità».

Nuova è l’attenzione data all’informazione e alla comunicazione. A partire dalla comunità ecclesiale «informata e resa consapevole di ciò che avviene in essa e che necessariamente la coinvolge». Strumenti informativi sono indicati per i siti diocesani. Ci dovrà essere un portavoce ufficiale per poter «rispondere alle legittime domande di informazione, senza ritardi o silenzi incomprensibili».

Si dà, infine, pubblico riconoscimento ai servizi ecclesiali nazionali, regionali e diocesani a tutela dei minori, prevedendo le verifiche e la revisione delle stesse linee guida.

Per il futuro?

Fino a qui, quanto è stato deciso e si sta avviando nelle diverse Chiese locali italiane. Si può fare di più? Ci sono attese non compiute?

Guardando alle altre Chiese nazionali, si possono elencare alcune iniziative che hanno avuto un significativo impatto sulle comunità cristiane e civili.

Anzitutto, le celebrazioni penitenziali, spesso solenni e di carattere nazionale. Anche nell’incontro romano del febbraio scorso si è dato spazio alla preghiera.

In secondo luogo, le audizioni collettive. Sia a livello diocesano, sia per le conferenze nazionali dei religiosi e religiose, sia per le conferenze episcopali questi incontri con le vittime hanno sempre avuto riscontri rilevanti in ordine alla consapevolezza dei pastori. Non raro è anche uno studio complessivo a livello nazionale, compiuto sulla base di diversi decenni, con i numeri delle vittime e degli abusatori.

Alcune conferenze hanno nominato un referente nazionale fra i vescovi con un gruppo o una cellula di lavoro, con il compito non solo di aiutare le diocesi ma anche di ricevere segnalazioni in proprio. Altre hanno voluto un’autorità indipendente per il compito di un’indagine generale.

La parola più radicale l’ha pronunciata un vescovo tedesco, Heiner Wilmer, di Hildesheim, che ha denunciato come «l’abuso di potere sia insito nel DNA della Chiesa. Non possiamo più sbrigarlo come marginale, ma dobbiamo ripensarlo in maniera radicale. Finora però non abbiamo alcuna idea delle conseguenze che ciò deve avere per la teologia» ( Joachim Frank, Mons. Wilmer: L’abuso di potere è nel DNA della Chiesa). Si tratta di confessare la fede in una Chiesa santa, ma riconoscere anche che la Chiesa è peccatrice e trarne le conseguenze nell’approccio pastorale e anche nel sistema di governo: «Abbiamo bisogno di una distinzione dei poteri, di un sistema di Checks and Balances (controlli e contrappesi) come nel sistema democratico».

Papa Francesco nella lettera al popolo di Dio ha scritto: «Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità».

Il teologo e il suo blog

– Prof. Andrea Grillo, il tuo blog “Come se non” raccoglie molta attenzione fin dal suo apparire. Puoi raccontare i momenti di maggiore interesse fra i lettori, le polemiche più creative?

Forse la sfida più importante che, fin dall’inizio, ho voluto assumere, è una presa di parola teologica senza paura del confronto con la cultura pubblica. Il confronto è stato aperto e franco, con una scelta di parresia che è originaria e poco comune in teologia. I temi liturgici sono stati quelli portanti e sui quali ci sono state polarizzazioni forti. In verità, il cuore del blog è la ripresa del Vaticano II, con nuovi linguaggi. Ma questo non significa, invece, che il “mezzo” non possa essere usato in senso opposto: per barricare i teologi in una cittadella virtuale del tutto immune dal mondo. Così, allo stesso tempo, un blog può essere oggi la traccia più chiara della “fine dell’antimodernismo teologico”, ma anche un “ritorno di fiamma” delle forme peggiori di antimodernismo ecclesiale.

– Nel passato, un teologo alimentava l’insegnamento con la ricerca. A cui affiancava la pubblicazione di libri e qualche incursione nei media su giornali di nicchia. Poter scrivere in tempo reale per una vasta platea di utenti come ha modificato la comunicazione del teologo? Con quali vantaggi e svantaggi?

Uno dei pregiudizi, che sopravvivono anche oggi, è che il teologo non debba mai parlare in tempo reale: il mezzo qui ha modificato il messaggio e crea molto più facilmente conflitto. E trovi sempre qualcuno che vuole insegnarti una dottrina della Chiesa che tu – a suo avviso – non rappresenti e anzi contesti. Questo crea lo spazio per un dialogo che, di fatto, ottiene un risultato che considero molto importante: isola la “teologia di corte”, che anche oggi rimane molto forte. La teologia di corte non serve: né quella della corte di Giovanni Paolo II, né quella della corte di Benedetto XVI e nemmeno quella della corte di Francesco. Il teologo, quando fa teologia di corte, abdica dal proprio mestiere e diventa un pr o un capoclack.

Le trappole dei social

– I social sono spesso abitati da insulti e da risposte presuntuose quanto banali. Ti è successo?

Mi è successo, molte volte. Ho imparato molto, soprattutto dai miei errori di gestione: talvolta bisogna rispondere, talvolta no. Discernere non è facile. Ho superato tante incertezze e ho appreso a non cadere nelle trappole di cui è pieno il mondo virtuale. Ma questo non mi impedisce di averne un’esperienza largamente positiva: se ben gestita, la presenza su blog social media arricchisce e rende più esperti. Ho imparato molte cose da essi.

– Poter intervenire su temi ecclesiali discussi e di attualità senza nessun tipo di filtro cambia anche l’insegnamento? I temi classici della ricerca vengono rimossi?

Cambia il modo di leggere la tradizione. Ovviamente non è che, con questo, lo stile classico del teologo venga semplicemente messo da parte. Ma viene ripensato, ristrutturato, meglio articolato. Crescono anche le responsabilità: se intervieni subito, su un tema di dibattito pubblico, ecclesiale o politico, sfuggi ad ogni controllo. Questo lascia un margine di arbitrio che deve essere gestito con cura. Ma è falsa la soluzione che colloca il teologo in un luogo “altro”, sottratto al dibattito.

– C’è un cambiamento nel linguaggio? In che senso?

Le “differenze” di cui vivono i social media sono delicatissime, proprio sul piano linguistico. E se il tecnicismo teologico resta sempre un ottimo nascondiglio, la traduzione in linguaggi comuni è assai rischiosa e richiede, insieme, audacia e prudenza. Usare nuovi linguaggi è però un’avventura decisiva per la teologia di oggi e di domani. Qui siamo tutti troppo timidi e impauriti. Uno dei più coraggiosi è il papa. I teologi dovrebbero imitare il suo coraggio nel dire le cose in modo nuovo e non meno, ma più fedele.

Opportunità di dialogo

– Quali opportunità e quali pericoli intravvedi?

L’opportunità è quella di poter parlare proprio a chi mai avrebbe potuto entrare in contatto con i “discorsi teologici”. Il rischio è di essere fraintesi, di banalizzare la tradizione, di nascondere la complessità oggettiva delle questioni. Credo però che i pericoli siano inferiori alle opportunità.

– Funzionano meglio i blog personali o quelli delle Associazioni e dei gruppi?

La mia esperienza dice che i blog personali possono essere gestiti in modo assai incisivo. Il mio blog, però, da quando è diventato “parte” del portale della rivista Munera ha goduto di un “traino” non piccolo.

– Gli altri social come facebook (FB) o twitter sono ugualmente frequentabili?

Con FB ho un rapporto molto intenso e lo trovo un ambiente di discussione di informazione di grande importanza. Con twitter, finora, non ho ancora imparato a prendere le misure. Pur in un uso limitato e settoriale, trovo che FB permetta un’esperienza di confronto che può essere realmente formativa.

Studenti, colleghi e controllori

– Che ne pensano i tuoi studenti?

Gli studenti, per quello che posso percepire, hanno un certo rapporto di curiosità con il blog, quando non vengono direttamente rimandati al blog per studiare alcuni temi. Non è raro che, negli ultimi tempi, io indichi testi miei o altrui usciti sul mio blog come punto di inizio di una ricerca teologica.

– I responsabili delle istituzioni accademiche come reagiscono? Si confrontano fra loro?

Credo che vi sia una certa consapevolezza che siti internetblogFB sono diventati terreni di incontro e di scontro teologico. Si deve notare come anche il dissenso ecclesiale, di destra come di sinistra, ricorre ai blog per esercitare pressione sulle istituzioni ecclesiali.

– Altro lavoro per la Congregazione della dottrina della fede?

I nuovi media, modificando le forme dell’ascolto, della presa di parola e del consenso, costringono anche gli organi di controllo e di indirizzo ad un grande rinnovamento. Da un lato, la tentazione sarebbe quella di “ricostituire”, al posto dell’indice dei libri proibiti, una sorta di “indice dei siti proibiti”. O di chiedere non più la distruzione di libri o articoli, ma la cancellazione di essi dalla rete. Ma questa sarebbe una soluzione vecchia e inadeguata ad un problema nuovo e urgente. Al cui centro sta il modo nuovo con cui la Chiesa si prende cura del consenso al suo interno. Su questo piano credo che l’esperienza del confronto e del dialogo sia inaggirabile, e non possa essere risolta con posizioni assunte semplicemente ex auctoritate. Né si deve dimenticare che, mentre prima si scrivevano lettere a Roma per screditare teologi o pastori, oggi si aprono blog che funzionano da “macchine del fango”. Le Congregazioni possono restare vittime di una sproporzione virtuale costruita sul nulla.

settimananews

Iraq Babilonia, patrimonio dell’umanità

 terrasanta.net 

L’Unesco ha riconosciuto il sito archeologico dell’antica capitale mesopotamica patrimonio di tutti. Un contributo all’esplorazione e conservazione di un luogo chiave della storia del passato, che ha subito danni e manomissioni anche in epoca moderna — Il Comitato per il Patrimonio mondiale dell’Unesco (l’organizzazione dell’Onu per l’istruzione, la scienza e la cultura) il 5 luglio ha ufficialmente dichiarato Babilonia, in Iraq, patrimonio dell’umanità. Il riconoscimento atteso a lungo dagli iracheni, arriva infatti 36 anni dopo la prima candidatura 

Notizie sportive 12 luglio 2019

CALCIO: L’INTER PRENDE BARELLA, IL MILAN VUOLE VERETOUT 

F1, OGGI LIBERE SILVERSTONE. TOUR, CICCONE MAGLIA GIALLA L’Inter ha trovato l’accordo col Cagliari per Barella, valutato 45 milioni: già oggi attese le visite mediche a Milano prima della firma del contratto. Milan e Fiorentina si incontreranno di nuovo oggi invece su Veretout, che ha chiesto di lasciare i viola. Formula 1: a Silverstone oggi le prove libere del Gp di Gran Bretagna. Tour de France: Ciccone maglia gialla. Wimbledon: oggi semifinale Nadal-Federer. (ANSA).