Filosofia. Chiesa e uomo postmoderno: la costante attualità di Pietro Prini

Il filosofo Pietro Prini, di cui il 28 dicembre ricorrono i 10 anni della morte, è stato uno dei maggiori esponenti dell'esistenzialismo cristiano

Il filosofo Pietro Prini, di cui il 28 dicembre ricorrono i 10 anni della morte, è stato uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo cristiano

Il prossimo 28 dicembre saranno trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Pietro Prini, uno dei padri italiani dell’esistenzialismo cristiano.

Con Luigi Pareyson e Dario Antiseri, ha rappresentato più di ogni altro il tentativo di elaborare una filosofia orientata in senso cristiano che non guardasse solo agli schemi del passato, come la metafisica riproposta da Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi, ma che accettasse in pieno le sfide del mondo contemporaneo, quelle della scienza e della tecnica in primo luogo, e contemporaneamente non mettesse da parte le questioni di senso che interrogano l’uomo postmoderno, dalla vita alla morte all’esistenza del male.

Con Prini chi scrive ebbe anche una certa familiarità: i ricordi vanno al nostro primo incontro, in occasione del colloquio tenuto a Saint Vincent su iniziativa di Jader Jacobelli su «Crisi e fede». Il giornalista televisivo promuoveva allora ogni anno nella località valdostana un confronto a tutto campo fra pensatori di varia estrazione, ricavandone poi ogni volta un libro per Laterza. Di Prini mi impressionarono la simpatia unita alla riservatezza, la disposizione all’ascolto, l’esaltazione del silenzio.

Da allora nacque, come con altri interlocutori del colloquio (da Italo Mancini a Sergio Quinzio, da Dario Antiseri a Massimo Baldini) una collaborazione proficua con le pagine culturali di questo giornale. Anche nel suo intervento, che volle titolare “Può il credente essere filosofo?”, di fronte ai tentativi onnicomprensivi della tecnoscienza e dell’informatica che tendevano a eliminare ogni possibile scenario religioso, rammentò l’indicibilità del senso totale delle cose propria del filosofo, anche del filosofo cristiano che si arresta dinanzi al mistero. E citando il famoso ammonimento di Wittgenstein («Di ciò di cui non possiamo parlare, dobbiamo tacere»), rilevò come esso non fosse affatto un’interdizione, come l’hanno interpretato i neopositivisti e gli alfieri del pensiero analitico, ma la chiave di volta per iniziare a porsi domande. Il vero mestiere del filosofo da Socrate in poi. È infatti nell’esercizio del domandare che si colloca il pensare, visto come il ritorno al luogo dell’ascolto, in cui il silenzio non è una limitazione ma la manifestazione di una presenza che oltrepassa l’uomo.

Nato a Belgirate, sul Lago Maggiore, nel 1915, Prini è stato per lunghi anni docente di Storia della filosofia all’università La Sapienza di Roma e da lì ha esercitato il suo magistero, ispirato alla riflessione di Antonio Rosmini, Søren Kierkegaard e Gabriel Marcel.

Una filosofia del dialogo, come qualcuno l’ha definita, capace di sfuggire a ogni impostazione autoreferenziale. Così nel 1962, al convegno perugino su «Cristianesimo e filosofia », definiva il senso del filosofare nella fede: «Una filosofia della storicità, una logica della testimonianza e una fenomenologia del Sacro costituiscono altrettanti momenti o passaggi obbligati del comportamento riflessivo o critico all’interno della fede».

Come rileva Walter Minella nel contributo che compare nel volume Credere in Dio oggi e nell’uomo ancora e nonostante, dedicato a Prini con vari interventi e appena pubblicato da Armando editore (pagine 160, euro 15,00), per il filosofo Prini il primato viene assegnato all’esperienza di fede e non alla ragione; in secondo luogo, la fede è un’esperienza che attiene alla trascendenza, ma noi viviamo nella storia: perciò la fede autentica non è gelosa delle verità, da chiunque siano scoperte, non è arrogante e presuntuosa, insomma non è “chiusa” come ha chiarito papa Francesco.

Proprio questa consapevolezza lo porterà nel 1998 a scrivere un libretto che avrebbe provocato diverse polemiche nel mondo cattolico, Lo scisma sommerso, ove denunciava il comportamento differente della maggioranza dei cattolici rispetto alle indicazioni della Chiesa (uno scisma che proprio l’attuale Pontefice cerca con sapienza di ricomporre). Un pamphlet che solo una critica sommaria volle riferire soprattutto all’etica sessuale, ma che toccava e metteva in discussione secoli di predicazione cristiana basati solo sull’idea della colpa e non della misericordia. Lo evidenzia nello stesso volume su Prini ora pubblicato il saggio di Giannino Piana, che sottolinea il primato della Grazia rispetto alla Legge, della carità rispetto alla morale repressiva.

Allora anche su “Avvenire” aprimmo un dibattito ospitando le opinioni di Gianni Baget Bozzo ed Enzo Bianchi, nonché una replica alle obiezioni dello stesso Prini. Che col solito garbo negò di aver mai messo in discussione la rilevanza del male e del Maligno nell’ambito della teologia cattolica, come gli aveva imputato Baget Bozzo.

Proprio la meditazione sul male, come nel caso di Pareyson, caratterizzò anzi l’ultima fase del suo pensiero, confrontandosi con le posizioni di Niccolò Cusano, Meister Eckhart e Berdjaev. «Soltanto la carità – si legge in Lo scisma sommerso – è veramente feconda. Soltanto la carità è la potenza effettiva del cristiano e della Chiesa come tale. Lo sviluppo di un’etica religiosa della fratellanza, ostile alla violenza di ogni genere, è stata la grande forza di espressione della Chiesa primitiva».

Quell’amore cristiano che, come mi disse in un’intervista del 1993, rappresenta la resistenza contro il demoniaco del potere, ossia la forza al servizio dell’uomo contro ogni forma di asservimento. E parlandomi con franchezza, a pochi mesi dallo scoppio di Tangentopoli, non ebbe scrupoli a invitare i cattolici italiani a un severo mea culpa:«Nella crisi della nostra classe politica noi cattolici siamo tutti responsabili. Fra le diverse forme del cattolicesimo contemporaneo, la nostra, quella dei nostri intellettuali, dei nostri giornalisti e dei nostri moralisti, tranne poche eccezioni, è forse la più accomodante, la più conformista, la meno disposta ad assumersi le grane di un dissenso aperto e coraggioso».

© RIPRODUZIONE RISERVATA Testimoni A dieci anni dalla morte, il pensiero del filosofo cattolico ci interroga: «Soltanto la carità è feconda È la potenza effettiva del credente e della Chiesa Lo sviluppo di un’etica della fratellanza, ostile alla violenza di ogni genere, fu la grande forza di espressione della Chiesa primitiva»

Il filosofo Pietro Prini. Il 28 dicembre cadranno i dieci anni dalla morte

in Avvenire

XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) 19 Agosto 2018 Foglietto, Letture e Salmo

XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Grado della Celebrazione: DOMENICA Colore liturgico: Verde

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In natura, non ci può essere vita senza nutrimento. Il cibo, di origine vegetale o animale, di cui ci nutriamo, è stato vivente prima di essere consumato per mantenere in vita un altro essere, cioè noi.
Oggi, nel brano del Vangelo secondo Giovanni, Gesù affronta questo dato di fatto essenziale della nostra condizione umana, rovesciandone l’ambito di applicazione: noi dobbiamo nutrirci di lui stesso, della sua carne e del suo sangue, se vogliamo cominciare a conoscere la pienezza della vita. Mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue, noi ci nutriamo come non si potrebbe fare nell’ambito fisico.
Noi viviamo così per sempre: il cibo è diverso, così come diversa è la vita che esso ci dà. Questo nuovo tipo di cibo ha, sul credente, un effetto immediato (“ha la vita eterna”) ed è, nello stesso tempo, una promessa per il futuro (“e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”).
Quando ci nutriamo del cibo naturale, siamo integrati nel ciclo biologico; per mezzo della trasformazione delle leggi biologiche, invece, riceviamo la vita divina, siamo introdotti nella vita stessa di Dio. Come ciò che mangiamo e beviamo, assimilato, diventa parte di noi, così, ricevendo nel sacramento la carne e il sangue di Cristo, veniamo “incorporati” in lui.

Rigenerare le Sale della Comunità

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Quali tendenze, quali principi, quali predisposizioni, quali attitudini, quali propensioni di cui tener conto per la ristrutturazione di una Sala della Comunità? Per un adeguamento? Per una riapertura?

L’architettura è sempre la presa d’atto, anche geniale, di queste molteplici esigenze che sono state raccontate nel volume La Sala del Futuro. Linee guida per la rigenerazione delle Sale della Comunità di Riccardo M. Balzarotti e Luca M.F. Fabris del Politecnico di Milano che verrà presentato, nell’ambito della 75ª Mostra del Cinema di Venezia, sabato 1° settembre alle ore 15.00 presso Italian Pavilion Sala Tropicana Conferenze, Hotel Excelsior, Venezia Lido, negli spazi Luce Cinecittà.

Si assiste in questi ultimi anni a un fenomeno di urgente trasformazione di ruolo, identità e struttura dell’esercizio cinematografico, come spazio caratterizzato da una propria identità comunitaria e culturale.

La sala di pubblico spettacolo sente l’esigenza di puntare su contenuti e servizi che vengano incontro a nuovi modelli di fruizione. L’inserimento di attività “socializzanti” e un programma di contenuti culturali e di intrattenimento che va oltre la sola proiezione cinematografica sono le componenti su cui si profila la nuova Sala del Futuro.

Partendo da questi presupposti, il Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano (arch. Riccardo M. Balzarotti, coordinamento scientifico prof. Luca M.F. Fabris) – con il supporto di Cinemeccanica e Barco – ha condotto una ricerca, fortemente voluta e commissionata da ACEC-SdC, il cui obiettivo è quello di indagare lo stato delle strutture che ospitano le sale cinematografiche e proporre progetti di riqualificazione, intesi come modello di riferimento cui la Sala della Comunità debba tendere.

ACEC - Associazione cattolica esercenti cinem«Verificando queste “realtà vere” – spiega Fabris nella prefazione al volume – è stato subito chiaro che il modello costituito dalla Sala è una “perla”, un elemento perfetto. Una rara sintesi che va tutelata e, semmai, aiutata a raggiungere uno stadio più alto della sua evoluzione. Per questo, d’accordo con ACEC, abbiamo deciso di non mettere freno alle proposte di riqualificazione nei casi di studio presentati, puntando alla massima innovazione tecnologica e alle più interessanti soluzioni architettoniche senza darci il limite di un budget definito».

L’indagine presenta quattro progetti architettonici pensati per altrettante Sale della Comunità, molto diverse tra loro (dal grande cinema-teatro, alla piccola sala polifunzionale) e scelte per raccontare la varietà tipologica della Sala del Futuro. I progetti indagano non solo gli aspetti spaziali e tecnologici delle sale, ma propongono anche l’insediamento di funzioni innovative con particolare attenzione alla possibilità di dare vita a fenomeni di rigenerazione urbana, che favoriscano socialità, inclusione e promuovano sinergie sul territorio.

«La volontà è quella di proporre – prosegue Fabris – una visione sul Futuro e questo non può essere limitato da un mero prezzario, ma deve conoscere solo qualità e bellezza. Certo, questa ricerca dà una risposta fattiva a fronte dell’attuazione della Legge Franceschini (L. 220/2016). E infatti questo è, in tutto e per tutto, un vero e proprio catalogo di linee guida pensato e ottimizzato per i gestori delle Sale della Comunità».

Riccardo M. Balzarotti – Luca M.F. Fabris, La Sala del Futuro. Linee guida per la rigenerazione delle Sale della Comunità, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN) 2018, € 40,00, pp. 210.

settimananews

Una bella virtù da elogiare

in settimananews

Chi me l’aveva dato da leggere quand’ero ventenne voleva certamente vaccinarmi da un vizio che sinceramente non ho mai praticato, l’ultimo dei sette peccati capitali, cioè la pigrizia. In realtà rimasi affascinato da Oblomov, il protagonista dell’omonimo romanzo pubblicato dal russo Ivan A. Gončarov nel 1859.

A rendermelo gradevole era la sua naturale serenità e bontà che gli impediva di squarciare il velo dell’inerzia e del sonno per guardare il flusso turbolento degli eventi esterni e di infrangere la nebbia dorata dei suoi sogni. A scuotere quella placida quiete non riuscirà neppure il vivace vento primaverile della bella e giovane fidanzata Ol’ga, né tantomeno il frenetico dinamismo dell’amico Štol’c per il quale vivere era lavorare senza posa.

Memore di questa remota esperienza – che anni dopo avrei rivissuto incontrando la snervante abulia dello Zeno la cui «coscienza» è stata scavata da Italo Svevo – ho letto con curiosità il ben più sintetico Elogio della pigrizia, arditamente proposto da un noto moralista e sociologo, un sacerdote docente a Lovanio, Jacques Leclercq (1891-1971), testo proposto come lectio per la sua ammissione tra i membri della Libera Accademia del Belgio (di lui abbozza, in appendice all’Elogio, un intenso ritratto un altro importante sociologo, Enzo Pace). Subito egli sottolinea l’«illogismo» della scelta perché è contraddittorio «tribolare a limar frasi che si assestano faticosamente, per cantare la dolcezza e la virtù dell’indolenza», quando sarebbe bastato un telegramma di scuse e di ringraziamento all’Accademia, rimanendo tranquillamente sprofondati in una poltrona con un bel libro da leggere.

In un’epoca di frenesia com’è l’attuale, quando con orgoglio si dice di poter da Roma volare a Parigi in mattinata, tenere una conferenza e rientrare a sera (ahimè, così anch’io ho fatto), tessere la lode della pacatezza quieta è una provocazione. Le riunioni incessanti, le vacanze in colonna con le mani indignate sul volante, le visite turistiche che assommano in un solo giorno musei, monumenti e chiese, le code insopportabili agli sportelli degli uffici (un tempo, per i credenti, anche ai confessionali), il navigare incessante in rete lungo i viali dell’infosfera, il fast food che trasforma il tranquillo pranzo tradizionale in un ingollare istantaneo, la visita al parente malato sogguardando di sottecchi l’orologio: la litania potrebbe a lungo dilatarsi contravvenendo, però, all’attuale necessità di un’«istantanea» per descrivere i fenomeni sociali.

Le pagine di Leclercq sono anch’esse una deliziosa sequenza di quadretti che dimostrano la bellezza e la dolcezza generata proprio dall’esatto contrario della lista (incompleta) sopra formulata. Ecco, allora, il lavoro intarsiato di riposo (anche il Creatore, secondo la Bibbia, ha bisogno di un sabato-domenica festivo), i viaggi sostando a contemplare anche solo un prato o un ruscello, lo stare a lungo di fronte a una tela di un museo o nel silenzio gotico di una cattedrale, il lasciare a parte la mazzetta dei giornali per inseguire la trama di un racconto, il sedersi sotto un albero come Newton o immersi nella vasca come Archimede o sulla terrazza di casa a osservare le stelle come i Magi, l’ascoltare una musica o persino il silenzio, spegnendo il brusio della Babele urbana…

Sono molti quelli che, per reazione a una corrente forsennata di atti, moti, emozioni, impegni, negli ultimi tempi hanno continuato e moltiplicato questo elogio della lentezza, della calma, della sosta, persino della flemma come antidoto dell’anima allo scompiglio della celerità, della rapidità, dell’utilitarismo («il tempo è denaro»). D’altronde, contro lo stress dell’iperattività Pascal nei suoiPensieri non esitava ad ammonire che «la felicità vera sta solo nel riposo e non nel tumulto» per cui bisognerebbe riservare almeno «un’ora in tutta la giornata per poter pensare a se stessi» (n. 139). Già nell’8 d.C. dal suo esilio cupo sul Mar Nero, Ovidio si consolava dicendo che «gli otia nutrono il corpo e pascolano l’anima» (Epistulae ex Ponto I, 4, 21). Detto questo, però, ci si deve anche interrogare: allora la pigrizia non è più un vizio capitale ma una virtù cardinale?

Ebbene, credo che nell’arcobaleno lessicale di cui è dotato l’italiano si possa scegliere meglio, anche perché «pigro» deriva dal verbo latino piget che denota il vero e proprio fastidio nell’impegnarsi. In pratica esso rimanda allo sfaticato, al lazzarone, al fannullone, al perdigiorno, al lavativo che hanno ben poco da spartire con la pacatezza, la lentezza riflessiva, la calma, la quiete, la ponderatezza. La pigrizia, invece, è la variante dell’accidia: nella tradizione ascetica cristiana orientale l’akedía era un peccato grave perché conduceva a un allentamento delle difese contro i vizi, a uno scoraggiamento che spingeva ad abbandonare l’ascesa erta e irta di ostacoli dei precetti evangelici, adattandosi alla valle ombrosa dell’indifferenza, della mediocrità e della piattezza.

Per questo la virtù che Leclercq esalta non è la pigrizia fatta di ignavia, di abulia, di apatia, di svogliata neghittosità, di narcolessia, bensì quello che Plinio il Giovane definiva il dulce otium operoso (Epistulae I, 9, 6), tenendo conto che il verbo latino vacare non rimanda a una vacanza inerte ma a un «impegnarsi» in un’opera. Il libro biblico dei Proverbi è tutto intessuto di ritratti di pigri bollati con veemenza e sarcasmo: eppure si era in un contesto che – come accade ancor oggi, forse per ragioni geoclimatiche – amava la contemplazione, la sosta, il ritmo allentato. Anche Gesù esalta il servo che ha saputo investire il capitale di talenti a lui affidato, a differenza del poltrone che l’ha solo custodito sotterrandolo (Matteo 25,14-30).

San Paolo, poi, che certamente non era pigro (basta solo seguire i suoi viaggi negli Atti degli apostoli), confessa ai cristiani di Tessalonica di «non aver mai vissuto oziosamente, mangiando il pane gratuitamente, ma di aver lavorato con fatica notte e giorno». Perciò la sua regola è chiara: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2Tessalonicesi 3,7-10). Una regola che compare addirittura nella Costituzione sovietica del 1918 e nell’inno comunista Bandiera rossa: «E noi faremo come la Russia: chi non lavora non mangerà». E come non ricordare il Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano? Concludendo, se la lentezza calma e pacata può essere una bella virtù da elogiare, la pigrizia accidiosa rimane un vizio da condannare, come fa Dante nei confronti del suo vicino di casa, lo svogliato liutaio Belacqua dagli «atti pigri e le corte parole» (Purgatorio IV, 132).

Riprendiamo la presentazione del volume di Jacques Leclerq, Elogio della pigrizia (EDB, Bologna 2017, pp. 56, € 6,50), firmata dal cardinaleGianfranco Ravasi per Il Sole 24 ore lo scorso 25 luglio 2018 (disponibile online a questo indirizzo).

Andrà a Panama la Madonna di Fatima

L’ha annunciato in una conferenza stampa padre Carlos Cabecinhas, rettore del Santuario di Fatima. Ha spiegato perché si è accolta la richiesta dell’arcivescovo di Panama: «Si tratta di un evento eccezionale di primaria importanza, essendo i giovani al centro delle preoccupazioni pastorali della Chiesa. Essendo il tema scelto dal santo padre per questa Giornata di carattere mariano, abbiamo creduto che fosse di grande importanza che il Santuario di Fatima marcasse la presenza in forma significativa, concedendo eccezionalmente di portare a Panama questa immagine, che solo in casi eccezionali lascia il santuario».

Un altro aspetto ha influito sulla decisione: il tema scelto per la Giornata mondiale della gioventù: «Ecco la serva del Signore. Si faccia di me secondo la tua parola». La frase evangelica è stata scelta dal papa come tema centrale del cammino di preparazione per la Giornata mondiale dei giovani. Il rettore ha quindi aggiunto che è nota la grande devozione dei cristiani di Panama a Nostra Signora di Fatima.

Ha approfittato della conferenza stampa per fornire alcuni dati significativi ed eloquenti riguardo alle partecipazioni alle celebrazioni del Santuario: dall’inizio dell’anno fino al 31 luglio sono state 3.741.233 sia quelle del programma ufficiale sia quelle dei singoli gruppi che hanno visitato il santuario.

«Si tratta – ha osservato padre Cabecinhas – di un numero simile verificatosi nello stesso periodo del 2015 e abbiamo un leggero aumento sia del numero dei partecipanti sia del numero dei gruppi stranieri organizzati (1.484). In totale, contando i gruppi portoghesi e stranieri, si sono iscritti al santuario di Fatima da gennaio a luglio 2017, 2.510 gruppi con 325.150 pellegrini e, nello stesso periodo del 2015, furono annunciati 2.480 gruppi con 336.030 pellegrini».

Questi dati indicano che gli anni 2016 e 2017, anno del centenario delle apparizioni, i numeri registrati hanno superato di molto anche le aspettative più rosee. I dati – ha sottolineato ancora il rettore – indicano che, nell’ultimo decennio, 2007–2017, il numero medio di pellegrini che hanno partecipato alle diverse celebrazioni si è assestato da 5,6 a 6 milioni l’anno.

È stato fornito un altro dato interessante: il santuario di Lourdes ha una media da 2,5 a 3 milioni l’anno di partecipanti alle celebrazioni e il Vaticano di 4 milioni, se si escludono i visitatori dei musei e della Basilica.

I vescovi giapponesi: “Dieci giorni per la pace”

settimananews

Ten days for Peace” (Dieci giorni per la pace) è l’iniziativa che ogni anno, in questi giorni di agosto, i vescovi del Giappone lanciano da 30 anni per ricordare le vittime dei bombardamenti atomici di Hiroshima e di Nagasaki, avvenuti il 6 e il 9 agosto 1945. L’iniziativa è nata dopo l’appello alla riconciliazione che Giovanni Paolo II aveva lanciato il 25 febbraio 1981 proprio da Hiroshima.

L’arcivescovo di Nagasaki, Joseph Mitsuaki Takami, presidente della Conferenza episcopale giapponese, nel suo messaggio, ha sottolineato quanto sia importante non dimenticare questi avvenimenti che rimarranno scolpiti tragicamente per sempre nella memoria dell’umanità, affinché non abbiano mai più a ripetersi. «I gravi conflitti regionali – scrive – il terrorismo, la minaccia delle armi nucleari, i problemi dei rifugiati, le varie forme di discriminazione, le disparità economiche continuano a minacciare la pace delle persone in tutto il mondo». E ha chiesto nuovamente la messa al bando delle armi nucleari, ricordando come le Nazioni Unite abbiano adottato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, ratificato però da pochi Paesi. La deterrenza – ha sottolineato il vescovo – «è un tentativo di mantenere la pace per mezzo delle armi, ma, accrescendo i fattori di conflitto come l’ostilità, la reciproca sfiducia e i conflitti di interessi, gradualmente si rompono i fondamenti della riconciliazione, della pace e della comprensione reciproca».

Il 6 e il 9 agosto 1945

Per ricordare tutto l’orrore di quegli eventi, occorre ritornare brevemente a quei tragici giorni. In Europa, la guerra era terminata l’8 maggio 1945 con la resa della Germania nazista. Il Giappone, alleato della Germania, invece aveva deciso di continuare a combattere e di resistere fino alla fine. Questa determinazione si concretizzò nella sanguinosissima battaglia di Okinawa, iniziata nel mese di aprile e terminata, con la sua conquista da parte delle truppe alleate, nel mese di giugno. In quegli scontri, furono oltre 14.000 i soldati morti tra le forze alleate e più di 77.000 tra i militari giapponesi, oltre alla perdita di circa 100 mila civili.

Le forze alleate avevano in mente un piano di invasione del Giappone su larga scala, ma facendo i calcoli risultava che un’operazione del genere sarebbe costata circa un milione di morti, oltre a 100 mila vittime civili giapponesi.

Gli strateghi allora ripiegarono sul progetto alternativo, chiamato “Manhattan Project” dal luogo dove si stava elaborando, su cui erano impegnati da anni scienziati americani, inglesi ed europei, molti dei quali fuggiti dalla Germania, dall’Italia e da altre nazioni fasciste. Da Manhattan il progetto fu poi proseguito a Los Alamos, conosciuta poi come la culla della bomba atomica, e in varie altre località degli Stati Uniti.

La ricerca fu condotta nel più assoluto segreto. Furono impiegati due diversi materiali nucleari: l’uranio 235 e il plutonio 239. Con 64 chilogrammi di uranio 235, altamente arricchito, fu creata la bomba nucleare chiamata eufemisticamente “Little Boy” ( il ragazzino), mentre con il plutonio 239 fu costruita la bomba denominata “Fat Man” (il grassone). E il 16 luglio 1945, ad Alamogordo (New Mexico), fu compiuto il primo test mondiale della bomba atomica, dando così inizio all’era nucleare della storia.

Hiroshima – 6 agosto

Come si sa, le armi si producono per usarle. E ciò avvenne quasi subito dopo. In quell’epoca, Hiroshima era una città di 350 mila abitanti, fino ad allora non ancora toccata dalla guerra. Era un centro costiero dove sorgevano importanti fabbriche manifatturiere e militari. Si calcola che in città stanziassero anche circa 40 mila militari. Forse per questa o per altre ragioni fu scelta come primo bersaglio per un attacco atomico.

La mattina del 6 agosto un bombardiere B-29, chiamato Enola Gay (dal nome della madre del pilota, il colonnello Paul Tibbets) decollò dall’isola Tinia nell’arcipelago delle Marianne, con a bordo il suo “Little Boy”. Alle 8,15, giunto sul luogo, sganciò sulla città ignara di Hiroshima la bomba all’altezza di 580 metri. Un fungo mostruoso di fuoco e caligine si innalzò sulla città; lo scoppio enorme distrusse in un attimo gran parte degli edifici provocando 45 mila morti; altri 19 mila morirono nei quattro mesi successivi in seguito alle radiazioni.

La rivista americana Life descrisse così la scena: «Nelle ondate successive all’esplosione i corpi delle persone furono terribilmente squeezed (strizzati) e i loro organi interni straziati». Praticamente tutti gli abitanti nel raggio di 6.500 piedi rimasero uccisi o seriamente feriti e gli edifici furono ridotti in macerie.

Nagasaki – 9 agosto

Stranamente, la distruzione di Hiroshima non provocò la resa del Giappone, come gli Alleati si aspettavano. Gli strateghi scelsero allora un nuovo bersaglio per una seconda bomba. Tra le città prese di mira figurava al primo posto la città-fortezza di Kokura.

La mattina del 6 agosto un altro bombardiere B-29 decollò sempre dall’isola Tinia alla volta di questa città, portando a bordo il suo “Fat Man”, una bomba al plutonio. Siccome però l’area era coperta da dense nubi, colpì Nagasaki, una città portuale ricca di importanti stabilimenti manifatturieri, come per es. la Mitsubishi Steel, di fabbriche d’armi, in particolare per la costruzione di navi da guerra, e industrie militari.

La bomba esplose poco dopo le 11 del mattino distruggendo gran parte della città e provocando 40 mila morti. Ma, nel corso dell’anno, altre 80 mila persone morirono in seguito alle radiazioni. E più della metà degli edifici furono ridotti ad un cumulo di rovine.

Il numero esatto dei morti a causa dei bombardamenti di Hiroshima e di Nagasaki non è però mai stato conosciuto. La World Nuclear Organization parla di almeno 103 mila morti in seguito alla scoppio delle bombe e alle radiazioni. A questi bisogna aggiungere anche un alto numero di morti di feti e di malformazioni tra i sopravissuti.

L’imperatore Hirohito

Sei giorni dopo il bombardamento di Nagasaki, il 15 agosto, l’imperatore giapponese Hirohito annunciò la resa incondizionata, firmata il giorno prima. La guerra era così finita.

Il corrispondente del New York Times, il giorno dopo l’attacco a Hiroshima, scrisse: «Ieri l’uomo ha scatenato l’atomo per distruggere l’uomo, aprendo un nuovo capitolo della storia umana, un capitolo in cui l’inquietante, l’incognito, l’orribile diventano cosa banale e ovvia».

Dopo la vittoria, ci furono dei festeggiamenti, ma una volta attutiti, cominciò a svilupparsi nel mondo un intenso dibattito sull’uso delle armi atomiche; un dibattito che continua ancor oggi. E molti scienziati responsabili del “Progetto Manhattan”, spaventati dalle devastazioni senza precedenti nella storia, fondarono la Federation of Atomic Scientist, un’organizzazione che continua a impegnarsi contro la proliferazione nucleare.

Non dimenticare, ma impegnarsi per il futuro

A distanza di 73 anni da quegli avvenimenti è tempo non solo di ricordare, ma di impegnarsi per il futuro. È quanto ha detto Giovanni Paolo II, durante la visita nel 1981 al “Peace memorial” di Hiroshima: «Il ricordo è un “bene” perché significa “impegnarsi per il futuro”, “per la pace” e “rinnovare la nostra fede nell’uomo, nella sua capacità di fare ciò che è buono, nella sua libertà di scegliere ciò che è giusto”. È un ricordo che deve appartenere a tutti, ma in particolare a “coloro che amano la vita sulla terra” e che “devono esortare i governi […] ad agire in armonia con le richieste di pace”. La “pace deve essere sempre il fine, la pace deve essere perseguita e difesa in ogni circostanza”».

Ma ricordare – ha proseguito il papa – «serve anche a impedire che la guerra arrechi ancora danni perché la presenza di armamenti atomici e la loro continua produzione indicano che vi è un desiderio di essere pronti per la guerra ed essere pronti vuol dire essere in grado di iniziarla; stanno altresì a significare che sussiste il rischio che in qualunque momento, in qualunque luogo, in qualunque modo, qualcuno potrebbe mettere in moto il terribile meccanismo della distruzione generale».

Anche papa Francesco ha espresso più volte la sua preoccupazione per l’uso di queste armi, auspicando «un disarmo integrale». Settant’anni fa, – affermava il 9 agosto del 2015 – […] avvennero i tremendi bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki. A distanza di tanto tempo, questo tragico evento suscita ancora orrore e ripulsione. Esso è diventato il simbolo dello smisurato potere distruttivo dell’uomo quando fa un uso distorto dei progressi della scienza e della tecnica, e costituisce un monito perenne all’umanità, affinché ripudi per sempre la guerra e bandisca le armi nucleari e ogni arma di distruzione di massa».

E ancora nel 2017, quando, il 2 dicembre, sul volo di ritorno dal Bangladesh, ha denunciato con preoccupazione i rischi attuali: «Oggi – ha detto – siamo al limite della liceità di avere le armi nucleari. Perché? Perché oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità».

Dieci giorni per la pace

La fotografia dei bambini di Nagasaki di Joseph Roger O’Donnell

Il bambino di Nagasaki

Ma, nella memoria, ancor più forte delle parole è espressivo un suo gesto. Nel gennaio scorso, in volo verso il Cile, prima tappa del suo 22° viaggio apostolico, a colloquio con i giornalisti, dopo avere detto che un incidente può innescare una guerra nucleare, distribuì loro una foto simbolo. Si tratta dell’istantanea, scattata dallo statunitense Joseph Roger O’Donnell, inviato dopo le esplosioni nucleari nelle due città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Si vedono due bambini: uno sembra dormire sulle spalle dell’altro. In realtà è morto. «È un bambino che porta sulle spalle il suo fratellino morto e aspetta il turno davanti al forno crematorio a Nagasaki, dopo la bomba. Mi sono commosso quando l’ho vista e ho pensato di farla stampare e darvela perché un’immagine del genere commuove più di mille parole».

Ancor oggi si muore

L’iniziativa dei vescovi giapponesi “Dieci giorni per la pace” che si ripete ogni anno – come sottolinea padre Andrea Lembo – superiore provinciale dell’Istituto Missioni Estere (Pime), in un’intervista a Vatican News del 6 agosto scorso – è necessaria sia per far conoscere alle giovani generazioni quanto è accaduto durante la seconda guerra mondiale, sia anche per la loro formazione. «L’iniziativa riguarda tutte le diocesi del Giappone e coinvolge anche le altre religioni. Tutti qui sentono forte il problema del nucleare anche perché il Paese è scosso – con le dovute differenze – dal recente incidente di Fukushima. Poi c’è anche il problema della vicina Corea del Nord che fa pensare molto». «È necessario far capire ai giovani quali sono le conseguenze dei conflitti. Io porto i ragazzi ad Okinawa, città nella quale si sente molto la presenza militare americana. Lì essi vedono come si vive con le armi accanto in nome – diciamo così – della pace».

Padre Andrea ricorda che oggi si muore ancora per le conseguenze delle bombe. «Il numero dei morti a causa dell’atomica è a tutt’oggi incerto – spiega – ed è una cosa che fa impressione. In Giappone questa ricorrenza è molto sentita perché è una ferita aperta nella vita di tante famiglie. I media, in queste ore, fanno conoscere la storia di tanti sopravvissuti. È importante però che si capisca che la pace si costruisce ogni giorno nella relazione con gli altri, una relazione che deve sempre essere all’insegna della comprensione e del rispetto».

Rita Borsellino, Don Ciotti: la sua morte ci invita all’impegno

Rita Borsellino alle celebrazioni del 26.esimo anniversario della strage di via D Amelio

Palermo rende omaggio a Rita Borsellino, morta il giorno di Ferragosto a 73 anni nell’ospedale Civico del capoluogo siciliano dopo una lunga malattia. Grande la folla alla camera ardente allestita presso la Casa della Memoria, nel Centro studi Paolo Borsellino, un bene confiscato alla mafia.

La camera ardente e i funerali

La Camera ardente aperta fino alle 20 e domani 17 agosto dalle 7 alle 9, mentre il funerale si terrà sempre domani alle 11.30 nella chiesa Madonna della Provvidenza – Don Orione di via Ammiraglio Rizzo. I figli Claudio, Cecilia e Marta, rendono noto che per chi volesse lasciare un segno della propria vicinanza è possibile sostenere i progetti del Centro studi Paolo Borsellino, Associazione che Rita ha fondato e della quale è stata presidente sino alla fine, affinché il suo impegno possa continuare ad essere operante.

L’impegno sociale e in politica

Farmacista, madre di tre figli e sorella del magistrato Paolo Borsellino ucciso dalla mafia nel 1992, Rita si è battuta affinché si arrivasse alla verità sulla stagione delle stragi di Cosa Nostra. Dopo 10 anni come vicepresidente di Libera, l’Associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti, Rita si è impegnata anche in politica candidandosi nel 2006 per il centrosinistra alla presidenza della Regione siciliana. È stata poi europarlamentare dal 2009 al 2014.

Don Ciotti: la prima a trasmettere ai giovani la memoria

“Con coraggio e determinazione, ha raccolto l’insegnamento del fratello Paolo, diventando testimone autorevole e autentica dell’antimafia e punto di riferimento per legalità e impegno per migliaia di giovani”. Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una nota. E del suo impegno per la memoria delle vittime trasmessa ai giovani “come impulso di conoscenza e verità” ha parlato anche il fondatore di Libera Don Luigi Ciotti, a Vatican News.(Ascolta l’intervista di Don Luigi Ciotti su Rita Borsellino)

Il sacerdote ha raccontato dell’ultimo colloquio avuto con la Borsellino, durante il quale la donna ha avuto parole di fede e di speranza. Infine ha evidenziato l’impegno della Borsellino per far approvare la legge di iniziativa popolare 109 del ‘96 sull’uso sociale dei beni confiscati alla mafia. “Questa morte ci invita ad essere più veri ed impegnati” ha concluso Don Ciotti.

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Frérè Roger di Taizé, preghiera e riconciliazione per i giovani

Il 16 agosto 2005, durante la preghiera serale, frérè Roger Schutz, fondatore della comunità ecumenica di Taizé, veniva ucciso da una squilibrata. Le sue parole ai giovani: fate una vita semplice e costruite comunione

“Canterò in eterno la misericordia del Signore”. Dodicimila cuori nella chiesa della Riconciliazione di Taizé, e milioni, uniti spiritualmente a loro, pregavano così, 13 anni fa, con i canoni brevi e ripetuti, come frérè Roger Schutz, fondatore della comunità ecumenica, aveva insegnato loro. Accompagnavano il piccolo e fragile maestro di unità e riconciliazione tra i cristiani, ucciso da una squilibrata il 16 agosto 2005, durante la preghiera della sera, novantenne dagli occhi di bambino, in mezzo ai suoi giovani. Solo canti di lode e gioia, commozione e perdono, che risuonano dal 1940, in quella grande scuola di preghiera che è diventato questo villaggio della Borgogna francese.

“Dio è unito ad ogni essere umano, senza eccezione”

Commosso, frérè Alois Löser, successore indicato da frérè Roger già nel 1998 alla guida dei cento monaci della comunità, ricordava la prima convinzione che guidava il cammino di frérè Roger: “Dio è unito ad ogni essere umano, senza eccezione”. Così ne parlava, due anni prima della morte, nel marzo 2003, in una intervista concessa a Octava dies, il magazine del Centro Televisivo Vaticano: “Non abbiate paura della vostra morte, il Cristo è lì, invisibile ma unito spiritualmente a tutti, senza eccezione. In queste parole, non solo alcuni, ma tutta la Chiesa e la famiglia umana trovano un aiuto, un soccorso e anche una gioia. E la gioia è così necessaria”.

Dagli anni settanta i pellegrinaggi sulla collina

Ogni anno centinaia di giovani raggiungono la collina al centro della Francia, per vivere una settimana speciale: incontro, canto, preghiera, silenzio sono le caratteristiche del clima e dell’esperienza di Taizè, che portano quasi spontaneamente a riscoprire il senso della vita. Alla fine della preghiera nella chiesa della Riconciliazione, o agli incontri europei, frérè Roger incontrava spesso i giovani.

Giovani: cercare e ascoltare è già l’inizio di una guarigione

“A Taizè noi ascoltiamo – spiegava in un’altra intervista al Centro Televisivo Vaticano, del gennaio 1998 – Io e i miei fratelli non siamo dei padri spirituali, ma siamo degli uomini che ascoltano, qualche volta possiamo dire qualche parola, diciamo a giovani di interrogarsi su se stessi, e cercare dentro di sé. Cercare e ascoltare è già l’inizio di una guarigione. Dopo i giovani ripartono, vanno in ambienti e luoghi talmente diversi. Alcuni tornano in famiglia dove si prega e si cerca la fede, altri dove non c’è niente, dove non si può parlare né essere ascoltati”.

La risposta è la semplicità di vita

Molti confidano ai fréres di vivere “la grande inquietudine dell’avvenire. Che futuro avrò, che lavoro, come trovarlo e guadagnare la nostra vita. E’ una grande inquietudine dell’Europa. A loro direi di cercare di adattarsi e di trovare una libertà interiore, assolutamente necessaria. La semplicità della vita è la nostra risposta. Una vita fatta di poco, quasi niente, e poi camminare, costruire una famiglia, costruire una comunione”.

La fiducia in Dio e negli altri ci guida

“Si passa a Taizè come si passa accanto ad una fonte. Il viaggiatore si ferma, si disseta e continua il cammino”, parole del pellegrino Giovanni Paolo II , arrivato sulla collina della Borgogna francese il 5 ottobre del 1986. Le migliori per descrivere la vocazione della comunità ecumenica fondata nel 1940 dall’allora 25enne Roger Schutz, di famiglia protestante, che dagli anni settanta accoglie migliaia di giovani cristiani di tutto il mondo, attirati dalla preghiera, fatta di canti melodici, di poche parole e di lunghi silenzi, e dalla vita comunitaria dei frères. Nelle capitali d’Europa, ogni fine d’anno, decine di migliaia di giovani partecipano ai “pellegrinaggi di fiducia”, nella preghiera e nell’ospitalità semplice in famiglia. “È vero per i giovani, è vero per tutte le età – diceva nell’intervista del 2003 –  quando la fiducia in Dio e la fiducia negli altri è una realtà vissuta, si può andare avanti, ci si può rallegrare, non avanziamo verso la pena o la prova, ma verso una soluzione di pace, anche di bontà del cuore”.

Non lasciarsi schiacciare dalla sofferenza

Sono ancora molti i giovani che soffrono per rotture familiari e affettive, ricordano i fréres che parlano con loro a Taizé e negli incontri europei. “In questo periodo della storia ci sono molte rotture degli affetti. Lo dicono le statistiche. Che fare? Che dire?  Direi, attraversate le prove, seguite il cammino al centro delle prove. Accettate queste afflizioni, e acconsentite a queste situazioni. Quando ci sono grandi prove, è vero, e queste ci soffocano, ci fanno ripiegare su noi stessi. Soffriamo per gli altri, per quelli che amiamo, per veder morire chi ci è vicino. La morte dei fratelli, la morte nella famiglia, la morte degli amici, la malattia, sono grandi prove… E noi le affidiamo a Dio, che ci dice di non lasciarci schiacciare dalla sofferenza degli altri o dalla nostra, ma di proseguire il cammino”.

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