La festa. I Papi e Maria assunta: così ci conduce verso il cielo

La solennità dell’Assunzione della Vergine vista dai Pontifici. Da Pio XII a Francesco passando per Paolo VI, alla scuola della Regina dell’universo

Benedetto Diana, l’Assunzione della Vergine, nel Basilica di Santa Maria della Croce a Crema (Foto Mariga)
Benedetto Diana, l’Assunzione della Vergine, nel Basilica di Santa Maria della Croce a Crema (Foto Mariga)

avvenire

«La Madonna, con la sua assunzione al Cielo, ci garantisce la possibilità di ascendere anche noi, se siamo, come Lei, uniti al Cristo. Con tanta Madre, la distanza fra noi e Cristo è abbreviata, annullata; e il Signore ci viene incontro e ci ripete “Mangia di questo Pane e avrai la vita eterna”». Era il 15 agosto 1969 quando Paolo VI, che è ormai anch’egli vicino al traguardo della santità (il prossimo 14 ottobre), pronunciava queste parole nel corso della Messa per la solennità dell’Assunta. Anche papa Francesco, che a Paolo VI spesso si richiama, il 15 agosto 2013 affermava: «Cristo è la primizia dei risorti, e Maria è la primizia dei redenti, la prima di “quelli che sono di Cristo”. È nostra Madre, ma anche possiamo dire è la nostra rappresentante, è la nostra sorella, la nostra prima sorella, è la prima dei redenti che è arrivata in Cielo».

Sono frasi che ben chiariscono il significato teologico dell’odierna festività mariana, che il Pontefice onorerà recitando a mezzogiorno l’Angelus affacciandosi alla finestra del Palazzo Apostolico, su piazza San Pietro. È l’unico impegno pubblico del Papa per questo 15 agosto, che vede in tutta Italia un fiorire di feste popolari, alcune delle quali molto antiche.
La fede del popolo cristiano nell’assunzione in cielo della Madre di Gesù in corpo e anima risale infatti ai primi secoli della cristianità, anche se il relativo dogma è stato fissato solo 68 anni fa da Pio XII. Anzi si può dire che proprio il costante e millenario sensus fidei del popolo di Dio ha fornito a papa Pacelli lo spunto per arrivare alla definizione dogmatica. Il 1° novembre dell’Anno Santo 1950, nella Costituzione apostolica Munificentissimus Deus il Papa affermava: «Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo. Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica».

Il Concilio Vaticano II riprende questo insegnamento nella Lumen Gentium, dove al numero 59 si legge: «La Vergine immacolata, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in anima e corpo e dal Signore esaltata quale regina dell’universo per essere così più pienamente conforme al figlio suo, Signore dei signori (cfr. Ap 19,16) e vincitore del peccato e della morte». Testi che spiegano anche il valore teologico del dogma. Del resto già nel VII secolo un grande dottore della Chiesa indivisa, san Giovanni Damasceno, spiegava così il senso dell’assunzione: «Era conveniente che colei che nel parto aveva conservato integra la sua verginità conservasse integro da corruzione il suo corpo dopo la morte».

La storia. Salvata dalle scimmie, rinata in Italia

Madou con la foto di don Oreste Benzi

«Sono state le scimmie a insegnarmi come procurarmi l’acqua. Loro scavavano e io ho fatto uguale». Era una bambina e del tutto indifesa, Madou Yankaa, quando per salvarsi dagli uomini finì per vivere con gli animali della foresta nella Sierra Leone, «i piccoli animali che mi consolavano». Era all’incirca il 1995 e in casa sua fino a quel giorno si era respirato amore. In fondo non mancava nulla, papà lavorava in banca a Freetown, e mamma Aminata proteggeva con tenerezza quella figlia nata diversa dagli altri bambini, con la bocca sempre spalancata e una malformazione scheletrica che non le consentiva la posizione eretta, costringendola a vivere rannicchiata come quando Aminata la portava in grembo.

Ma oggi che ha (forse) 28 anni, Madou conserva indelebili le immagini del massacro. «Ero piccolina ma ricordo bene i ribelli entrare in casa nostra, sparare a mia mamma, a mio papà, a mio fratello, a mia sorella e alla nonna, poi li hanno bruciati davanti ai miei occhi». Solo la bimba sopravvisse alla strage, perché nonostante il terrore di ciò che aveva visto ebbe la prontezza di restare immobile e fingersi morta. Quando i ribelli se ne andarono, Madou a quattro gambe scappò verso la foresta, «e lì sono vissuta da sola per un tempo che non so definire, forse anni, nascondendomi agli esseri umani e vivendo con gli animali». Lo tsunami che le portò via tutto ha un nome, “Guerra dei diamanti”, il sanguinoso conflitto civile scoppiato nel 1991 e durato 11 anni, alla fine dei quali mancarono all’appello 50mila vite. «Nella foresta mangiavo quello che la natura mi offriva e dormivo per terra».

Impossibile non pensare a Mowgli, il figlio della giungla romanzato da Rudyard Kipling e animato dal cartone di Walt Disney, anche lui piccolo orfano, cresciuto dai lupi e deciso a non tornare mai più nel villaggio degli uomini, fino a quando, dopo mille avventure, l’incontro con la bella Shanti non lo convincerà a rientrare nella sua specie… Ma quella di Madou è storia vera, tra voragini di ferocia e vertici di amore.

Ce la racconta a modo suo, aiutata da un sintetizzatore vocale che parla attraverso il suo smartphone leggendo le frasi che lei digita. «La lunga denutrizione e il mancato uso delle mascelle fin dalla nascita hanno atrofizzato la muscolatura e tuttora parlare e mangiare mi è difficile», ci spiega nella casa di Cittadella, in provincia di Padova, dove dal 2005 ha trovato una nuova famiglia italiana. Anna Bonaldo, 63 anni, e Paolo Tonelotto, 64, sono i suoi genitori, Cristina (38), Daniele (35) e Lucia (27) sono i loro figli naturali, “i miei tre fratelli di cuore meravigliosi”, ci dice Madou. Ma di questa famiglia, che in trent’anni di associazionismo nella Comunità “Papa Giovanni XXIII” di don Benzi ha visto passare un centinaio di “figli”, parleremo poi.

Un giorno un uomo la vide nella foresta e la portò in un campo profughi, dove la Provvidenza mandava ogni settimana in visita padre Giuseppe Berton, missionario saveriano di Marostica, nel Vicentino, che a Freetown aveva una casa di accoglienza per ex bambini soldato. I responsabili del campo profughi fecero notare al missionario che la piccola, costretta a muoversi a quattro gambe e con la mascella paralizzata, era mal messa: «Mangiavo gli ultimi chicchi di riso che restavano nella ciotola comune e perciò non ero nutrita adeguatamente. Padre Berton mi portò nella sua casa di accoglienza e con tanta fisioterapia mi restituì una posizione quasi eretta». Ma restava ancora quella bocca sempre aperta…

Nel 2005 (prima data certa di questa storia) a Freetown giunsero da Cittadella alcuni volontari dell’associazione “Una proposta diversa” fondata da Anna e Paolo, per aiutare il missionario con l’impianto elettrico. È Anna ora a raccontare: «Videro questa ragazzina che non potendo masticare macinava il riso con la lingua contro il palato, e pochi mesi dopo Madou era già in Italia per essere operata», con sei mesi di permesso umanitario, la Regione Veneto che si faceva carico delle spese sanitarie e l’associazione che pagana tutto il resto. Aveva (circa) 15 anni quando arrivò, ma pesava 32 chili e i medici dell’ospedale di Vicenza ordinarono prima di tutto una buona dieta ingrassante. «Per fortuna esiste il gelato, ci andava pazza», ride Anna, ma Madou ci ha messo poco ad appassionarsi alla cucina italiana, pizza compresa, «capace con la lingua di tritare tutto contro il palato». L’intervento chirurgico maxillofacciale è stato possibile solo nel 2008 e finalmente, dopo 18 anni dalla nascita, per la prima volta la ragazza ha potuto chiudere la bocca. Purtroppo il sogno di parlare è rimasto irrealizzabile, eppure ha del miracoloso come Anna e Paolo capiscano perfettamente i suoni, per noi incomprensibili, che Madou emette dialogando con loro: «In fondo viviamo insieme da 13 anni».

Restano tanti misteri nella sua vita, anche l’età è approssimativa, e la data di nascita scritta sul passaporto (29 maggio 1990) è di fantasia, «il 29 maggio era il giorno in cui facevamo i documenti, il 1990 l’ha scelto una donna annusando la bambina, come usavano al villaggio», sorride la madre. Madou interviene spesso e controlla sul taccuino della giornalista che tutto corrisponda. Tiene soprattutto a specificare che il 25 aprile del 2014 a Verona ha trovato anche la forza titanica di perdonare gli uomini che sterminarono la sua famiglia: «Partecipavo con gli amici all’evento “Arena di pace e disarmo» e lì Dio mi diede il coraggio. Sono felice del mio cammino di fede perché sono nata in una famiglia che era cattolica, a casa pregavamo assieme e la domenica andavamo a Messa a Freetown. Anche oggi, quando ne sento il bisogno, prendo l’autobus per Padova e vado al Santo dal mio padre spirituale. È stata mia mamma a insegnarmi fin da piccola ad affidarmi a Dio».

Un Dio contro cui si è anche scagliata, chiedendogli perché l’avesse creata così, e di lasciarla morire, ma c’erano sempre Anna e Paolo e i tre fratelli di cuore a spiegarle che se era sopravvissuta in quella tragedia il Signore aveva un progetto importante su di lei, che si sarebbe rivelato poco per volta. Anna in realtà lo vede già chiaro: «Viviamo nel Veneto leghista, nei nostri paesi guai a parlare di immigrati, ma Madou tocca i cuori di tutti, è strumento di conversione e di annuncio, e dà la possibilità a molti di fare il bene». Come al vivaista che da anni in primavera le dà il posto di lavoro, e alla gente di Cittadella, dove tutti la coccolano «anche troppo, la viziano, la proteggono. Perché Madou non è “un’immigrata”, è un incontro, una relazione, e questo cambia i sentimenti». E poi perché nel Dna dei veneti resta tanto di quel patrimonio spirituale ed umano di quando Cittadella, chiamata “la canonica d’Italia”, negli anni ’70 contava ben 38 missionari comboniani e saveriani nel mondo.

Qui Madou, che in Africa ovviamente non era mai andata a scuola, ha frequentato le medie e si è diplomata all’alberghiero perché, spiega, «i miei genitori volevano rendermi autonoma e integrata». Oggi lavora tutti i giorni, dividendosi tra la segreteria dell’associazione “Una proposta diversa”, le pulizie e la cura del Duomo di Cittadella, il vivaio. Ma una vera idea del suo futuro se l’è fatta a gennaio, quando per la prima volta dopo 13 anni è tornata a rivedere Freetown, i luoghi del massacro ma anche dell’incontro con chi le ha voluto tanto bene. Un viaggio che desiderava da tempo «per ritrovare la mia gente e capire se potevo restituire quanto avevo ricevuto».

La prima cosa che ha chiesto è stata di andare in un cimitero qualsiasi, “perché i miei cari non avevano una tomba ma quel luogo li rappresentava”. Poi ha voluto visitare il suo quartiere, il campo profughi, la ex casa per bambini soldato di padre Berton (oggi diroccata), “è stato emozionante, mai avrei immaginato che i compaesani mi riconoscessero, a vedermi esclamavano il mio nome come di fronte a un miracolo: ero tornata da chissà dove, camminavo eretta e la mia bocca ora sorrideva. Anche io ero stupita, le strade erano asfaltate, nelle case era arrivata la luce elettrica, inoltre la gente era tutta giovane e con tanti bambini, sempre allegri anche se avevano poco. Sono ripartita con la consapevolezza che lasciavo la mia gente nella dura povertà e da allora il mio pensiero corre là, a come potrò aiutare quelle persone, magari tornare e restare più tempo, con l’aiuto della mia famiglia”.

Anna e Paolo sorridono, per loro non è nulla di nuovo. Sposati da 40 anni, da 30 hanno dato vita alla prima delle case-famiglia di don Benzi, viaggiando in missione in 20 Paesi del mondo. Dei loro tre figli naturali Cristina oggi è missionaria laica in Estremo Oriente, Daniele e la giovane moglie hanno una casa-famiglia della “Papa Giovanni XXIII” a Rimini dove con i loro tre bambini accolgono minori in difficoltà, e Lucia lavora per la “Papa Giovanni XXIII” al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite a favore degli ultimi. Ma poi da ogni stanza escono i “figli di cuore” e allora per orientarmi Anna mi mostra il loro “albero della Vita” appeso alla parete, ogni foglia una foto e una storia umana delle cento che in 30 anni sono passate per questa casa. “Non è aggiornato – si scusa – mancano gli ultimi dieci anni”. Madou è solo una delle fronde.

avvenire

E’ morta Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia

Morta a Palermo Rita Borsellino © ANSA

E’ morta a Palermo Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia nel ’92. Era malata e si trovava in terapia intensiva. Aveva 72 anni. Farmacista, dal 2009 al 2014 era stata europarlamentare eletta nelle liste del Pd.

Rita Borsellino, la minore dei quattro fratelli, è morta nel pomeriggio nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Civico di Palermo. Lo scorso febbraio era venuto a mancare il marito, Renato Fiore. Tre figli, Rita Borsellino si è battuta affinché si arrivasse alla verità sulla morte del fratello. Nel 2006, dopo dieci anni come vicepresidente di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti, si è candidata per il centrosinistra – dopo aver vinto le primarie – alla presidenza della Regione siciliana sfidando il governatore uscente Salvatore Cuffaro fu rieletto, ma Rita Borsellino ottenne oltre il 41% dei consensi. Eletta europarlamentare nel 2009, tre anni dopo si candida alle primarie per sindaco di Palermo ma viene sconfitta d’un soffio da Fabrizio Ferrandelli. Lo scorso 19 luglio, nel ventiseiesimo anniversario della strage di via D’Amelio, spiegò che il modo migliore per portare avanti gli ideali di giustizia del fratello era l’impegno quotidiano di ognuno per ottenere la verità.

ansa