Scossa di terremoto di magnitudo 5.2 in Molise. Alle 20:19 con epicentro a Montecilfone (Campobasso). Lievi danni ma nessun ferito

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Una scossa di terremoto è avvenuta alle 20:19 in Molise, con magnitudo 5.2. L’epicentro a Montecilfone, in provincia di Campobasso.

 

‘I molisani devono recuperare la tranquillità il prima possibile, perchè nonostante lo spavento legittimo e la paura per ora non si registrano che lievi danni e crepe e nessun ferito. La Protezione civile regionale sta coordinando tutto, è all’opera su tutto il territorio e pronta ad intervenire e a dare ogni conforto eventuale”, così all’Ansa il presidente della Regione Molise Donato Toma.

“Al momento non sono pervenute richieste di soccorso, né segnalazioni di crolli alle sale operative dei vigili del fuoco. Le squadre uscite in ricognizione hanno riscontrato per ora solo la caduta di alcuni cornicioni”: lo segnalano i Vigili del Fuoco in un tweet in relazione al sisma che si è avvertito questa sera in Molise.

Lievi danni alle case si sono registrati nel paese di Palata (Campobasso), dove secondo una prima ricognizione ci sono crepe nei muri e danni interni alle abitazioni. Quella di questa sera è la seconda scossa seria in meno di 48 ore: poco prima della mezzanotte di Ferragosto, una scossa di 4.7 era stata avvertita tra i Comuni di Palata e Montecilfone.

Tanta paura anche a Campomarino (Campobasso), dove in tanti sono scesi in strada. La scossa di terremoto è stata avvertita distintamente, e ci sono stati anche dei malori.

E’ stata avvertita anche in Campania la scossa. La sala di monitoraggio dell’Osservatorio vesuviano – informa la direttrice, la professoressa Francesca Bianco – è subissata dalle telefonate di cittadini preoccupati. Ampia l’area in cui il sisma è stato avvertito. A Napoli città come nell’entroterra vesuviano, ma anche nelle zone interne dell’Avellinese e del Sannio. Al momento non si ha notizia di danni a cose o persone. Nel capoluogo partenopeo la scossa è stata avvertita anche ai piani più bassi degli edifici.

La scossa è stata distintamente avvertita dalla popolazione anche a Rieti e nei comuni dell’Alto Velino, già devastati dal sisma del 2016.

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Giovani «SIAMO QUI!» “Proteggi Tu il mio cammino”: l’inno dell’incontro con Papa Francesco a Roma È disponibile l’inno ufficiale dell’incontro di Roma scritto dall’Istituto diocesano di Musica e Liturgia di Reggio Emilia: disponibili testo, partitura e file mp3

Proteggi Tu il mio cammino - Inno «Siamo qui!»

 

  • Vai alla sezione del sito dedicata all’evento
  • Proteggi Tu il mio cammino Testo
  • Proteggi Tu il mio cammino Partitura
  • È disponibile l’inno ufficiale dell’incontro di Roma («Siamo Qui!») dal titolo Proteggi Tu il mio cammino:scritto dall’Istituto diocesano di Musica e Liturgia di Reggio Emilia, è diretto dal Maestro Giovanni Mareggini.

    Il testo è un’invocazione di protezione verso i pellegrini, quelli che percorreranno la strada per arrivare a Roma, ma anche tutti coloro che attraversano la vita cercando di dirigere al meglio i propri passi.

    Pubblichiamo la versione mp3, il testo e lapartitura dell’inno in modo che possa circolare tra le diocesi e parrocchie, così che i ragazzi possano intonarlo tutti assieme durante la Veglia con Papa Francesco.

    Scarica la versione mp3 dell’inno.

    Testi e musiche nascono per opera di Francesco Lombardi e Giovanni Mareggini che ne hanno curato composizione ed arrangiamenti in collaborazione con Theo Spagna, con i testi di Francesco Lombardi e Mons. Daniele Gianotti.

    Il progetto comprende anche le parti fisse della Messa, due canti ispirati ai temi del Sinodo e l’inno. Esso nasce all’interno dell’Istituto Diocesano di Musica Liturgia “don Luigi Guglielmi” di Reggio Emilia con la partecipazione di numerosi docenti ed allievi della scuola e del Coro Diocesano.

  • chiesadimilano.it

 

Calcio. Serie A: tutti contro Ronaldo? Serpeggia un sospetto: l’arrivo di CR7 ha già chiuso il campionato prima ancora di iniziare

Cristiano Ronaldo in azione nell’amichevole di allenamento contro la Juventus B a Villar Perosa (Ansa/A.Di Marco)

Mi ha scritto un amico: «Non sopporto l’idea di iniziare il campionato sapendo che la mia squadra del cuore può arrivare al massimo seconda. Tutti dicono che Cristiano Ronaldo è il valore aggiunto del torneo, non sono d’accordo: lo spegnerà, e prestissimo, se la Juve vincerà in allegria le prime cinque partite». Giuro che non è mia, questa affermazione di pessimismo della ragione alla quale oppongo anzi il gramsciano ottimismo della volontà, pur se antiche note – inutilmente smentite – mi dicono che anche Gramsci fosse tifoso della Juventus. Come Togliatti e Berlinguer. Insomma, il popolo. No, il calcio non è così facile, non sarebbe un perdurante mistero, da agosto a maggio, consentendo anzi di passare dagli scudetti agostani – assegnati a chi ha speso di più – a quelli stagionali, negli ultimi anni spesso attribuiti al Napoli che li ha malvolentieri ma colpevolmente ceduti alla Juventus che li ha benevolmente raccolti fingendo trionfi ma in realtà piangendo sulle Champions versate.

Ho un ricordo personale – da tifoso – legato allo spareggio Bologna-Inter del 1964 vinto dai bolognesi che ne fecero un momento storico non solo per il pallone ma per la loro civitas. Qualche giorno prima l’Inter – abbondantemente sfruculiata dai vincitori a Roma – aveva conquistato a Vienna la sua Coppa dei Campioni più bella, tant’è che Angelo Moratti, non abituato a gesti da ultrà, si fece portare in spalla da Suárez e Guarneri levando al cielo la Coppa dalle Grandi Orecchie. «Non ho mai visto papà tanto felice », mi ha detto Massimo Moratti, che pure aveva sofferto per lo spareggio perduto. E ha aggiunto un dettaglio relativo a quell’oggetto di felicità: «Quando l’ho sollevata io, a Madrid, la notte in cui si completò il Triplete, ho avuto un moto di delusione: era leggerissima, inconsistente, ho pensato che per la sua importanza dovesse pesare di più». Segnalo la curiosa vicenda a Andrea Agnelli ché cominci ad allenarsi. A questo pensa, la Juventus, da quando si è messa in casa, in banca e in testa Ronaldo, il calciatore più famoso, più ricco, più bello e più forte del mondo. Si è messa in testa di vincerla, la Champions, ma l’ha già persa sette volte, pur avendo sempre una squadra competitiva. Quella di Atene ’83, ferita da Magath, era strepitosa.

Fingo di non dar peso al campione portoghese, e in effetti questa Juventus, se pur governata dal Ronald-one, non è irresistibile. Ma chi può ferirla? Il Napoli di Ancelotti, circondato di fenomeni imborghesiti e con un portiere pericoloso? L’Inter che si è infilata nel tunnel dell’amore ma non riesce a incontrare il suo Modric e nel frattempo tutti gli altri si sentono mezze calzette? Spalletti è bravo, ha detto che con Modric l’Inter sarebbe fortissima, senza, forte e basta. Che goduria. La Juventus sta vincendo lo scudetto psicologico, il trofeo glielo porterà direttamente l’avversario più in palla, fra Napoli, Inter, Roma e… Milan. Maldini – bentornato – ha detto che sarebbe bello arrivare quarti, nella zona Champions che il Milan percorre felice da decenni: oso invece pensare che, liberato di Bonucci e arricchito – dico poco – del bomberissimo Higuaín, potrebbe essere la grande sorpresa. Tutte insieme trarrebbero gioia e gioco arricchendo il Lotito che cederebbe volentieri Milinkovic-Savic: è forse l’ultimo mistero della campagna di rafforzamento estiva che ha arricchito quasi tutti i club maggiori – Juventus esclusa, ma i milioni ronaldeschi verranno, e copiosi. La Roma cercherà disperatamente un Alisson, il Napoli un Jorginho, l’Inter un Cancelo.

Sarebbe bello se ci fosse solo il campionato, in questa stagione, con i suoi candidati alla vittoria, con i soliti condannati a soffrire che negli ultimi anni hanno insaporito molte pietanze sciocche; ma c’è invece il caos di Lega e Federazione, con il multivideo che forse impedirà ai tifosi in bolletta (tanti, tantissimi) di veder sempre la squadra amata; con le incertezze tribunalizie che riguardano la B, nascente con 19 squadre e fra mille proteste e peraltro annunciante – si spera – una prossima A a 18. Di questi tempi, prima che il carrozzone si muova fra speranze e incertezze, si dovrebbe dire “ad maiora”. Se la lingua madre me lo consente direi “ad minora”. Seguirò infatti col cuore le nuove storie della mia terra al bordocampo del Cesena, del Modena, della Reggiana, che mi videro cronista in Serie A e che ritrovo, senza infamia, in Serie D. Come si dice a Bologna, «solo chi cade può risorgere».

avvenire

Verso il sinodo. I giovani santi della porta accanto. Una mostra, segno per quest’anno

I giovani santi della porta accanto. Una mostra, segno per quest'anno

C’è Filippo Gagliardi, giovane ingegnere cresciuto in oratorio a Novara. E poi Carlotta Nobile, musicista già affermata o Giulio Rocca a trent’anni volontario dall’altra parte del mondo per l’Operazione Mato Grosso. Sono «I santi della porta accanto», giovani testimoni della fede a cui è dedicata una mostra promossa dall’Associazione don Zilli e dal Centro culturale San Paolo che inizia in queste ore da Roma il suo cammino per l’Italia per accompagnare il Sinodo dei giovani.

Sono ventiquattro i profili scelti dal giornalista Gerolamo Fazzini, che ha ideato e curato l’iniziativa con la collaborazione di Stefano Femminis, Ilaria Nava, Mariagrazia Tentori e dell’artista camerunese Afran che ne ha ridisegnato i volti. Sono tutti giovani che una malattia, un incidente oppure una mano violenta ha strappato alla vita e dei quali in molti casi è in corso il processo di beatificazione. Ma sono soprattutto «santi della porta accanto», come scrive papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete ed Exsultate, cioè modelli vicini all’esperienza quotidiana di un giovane di oggi. Testimonianza, dunque, di quanto le storie di una fede vissuta in pienezza siano molto più diffuse rispetto a quanto si pensi anche tra i ragazzi e le ragazze di oggi.

Per iniziativa del Servizio nazionale di pastorale giovanile e del Forum degli Oratori Italiani, questa mostra è stata una delle tappe della Notte bianca della fede. Allestita in un luogo estremamente significativo: la Chiesa Nuova, quella fatta costruire da san Filippo Neri per i giovani accolti dalla Congregazione dell’oratorio in quello che è oggi corso Vittorio Emanuele II, nel cuore di Roma.

Trentadue i pannelli: ventiquattro dedicati ai profili e gli altri con frasi di papa Francesco sui giovani e la santità oggi. Si parte da alcune figure del Novecento ancora straordinariamente attuali oggi: i beati Pier Giorgio Frassati, Teresio Olivelli e Alberto Marvelli, ma anche Mario Fanin e Rosario Livatino. E poi tanti giovani italiani, in grande maggioranza laici, vissuti tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila. Persone legate ad esperienze ecclesiali tra loro diverse a testimonianza di quanto nessuno abbia l’esclusiva di una vita cristiana feconda. C’è spazio poi anche per qualche figura proveniente da altri continenti, perché la santità non costruisce muri ma apre al mondo.

Realizzata in più copie e in una modalità facilmente allestibile, dopo quest’esposizione a Roma la mostra resterà a disposizione di diocesi, parrocchie e realtà giovanili che desiderino proporla come segno nell’anno del Sinodo dei giovani.
Per informazioni e prenotazioni: centroculturale.vicenza@stpauls.it

avvenire

Rifiutati. La battaglia dei genitori adottivi per fermare il «mercato dei bimbi»

(Lapresse)

Sono passati quasi dieci anni dalla prima volta che Melanie Hoyt ha sentito parlare di «seconde adozioni». Si trattava del caso di un diplomatico straniero che dopo aver adottato un bambino dall’estero, lo aveva respinto e “trasferito” a un’altra famiglia. Come madre adottiva di due bambini, la donna di Chicago era rimasta sconvolta dalla notizia. «Ma era avvenuto lontano da me, così non ci pensai toppo a lungo – spiega Melanie –. Mi dissi che era un’anomalia, che le persone normali non “disadottano” i loro figli». Negli anni seguenti, le arrivarono all’orecchio storie simili che coinvolgevano famiglie americane e all’apparenza comuni, come la sua. Poi cominciò a leggere il termine rehoming (ricollocamento) usato non in riferimento a un animale domestico al quale bisogna trovare un nuovo padrone, ma a bambini.

«La parte che mi turbava di più era la mancanza di supervisione nella ricerca delle nuove case per i piccoli: alcuni genitori, i quali avevano deciso di liberarsi del nuovo membro della famiglia, trovavano online una nuova famiglia per i figli che non volevano più. Ripensando al processo rigoroso al quale io e mio marito ci siamo dovuti sottoporre prima di accogliere Art e Jake, nella mia mente sorgevano immagini di bambini inviati a persone impreparate o, peggio, a pedofili. E il mio cuore si riempiva di collera per i genitori. Come potevano abbandonare delle creature alle quali avevano promesso di dedicarsi per sempre?» È stato quando una famiglia della sua comunità ha trovato via internet una nuova casa per il figlio adottivo che Melanie ha deciso di fare qualcosa.

«Perché attorno a me non ho trovato indignazione. Visto che queste erano persone per bene, molti miei amici mi invitavano alla comprensione: non è colpa loro, dicevano. Hanno solo dimostrato scarsa capacità decisionale. Non hanno avuto abbastanza sostegno. Dov’era lo sdegno per i bambini che pensavano di aver trovato una mamma e un papà? Dove la rabbia per il trauma che dovevano subire?» Melanie ha riunito una squadra di persone che la pensano come lei e si è dedicata a raccogliere firme per la proposta di rendere illegali le seconde adozioni in Illinois. Ma finora la legge non è cambiata.

Non è possibile confermare l’esperienza di Melanie su scala nazionale e dire se le seconde adozioni siano effettivamente in aumento negli Stati Uniti. Non ci sono numeri ufficiali, a causa di un panorama legale complesso che varia enormemente da Stato a Stato, e dove manca un riferimento federale. L’unico numero certo è la statistica fornita dal dipartimento di Stato americano. Quest’ultimo sostiene che dalle 25mila alle 35mila adozioni «falliscono» ogni anno. Dove vanno a finire quei bambini indesiderati? Molti a persone che, con la semplice firma di una procura, ne diventano i tutori, pur senza adottarli formalmente e senza subire seri controlli. Altri a istituzioni rieducative a lungo termine. Si può dire per certo, però, che la pratica è diventata più accettata negli Usa. È spesso paragonata a una sorta di divorzio fra genitori e figli che non si «capiscono più». A dare il senso di questa crescente accettazione sociale è il numero di agenzie e siti sorti per fare da intermediari, spesso a pagamento, fra i vecchi e i nuovi genitori.

Alcuni di questi si dicono “cristiani”, come Chask (Christian homes and special kids), che presenta il rehomingcome una scelta difficile, un’ultima spiaggia per famiglie in difficoltà, ma pur sempre come una possibilità. Il sito mette in guardia le famiglie che cercano una nuova dimora per i loro bambini a non fidarsi di persone incontrate su gruppi online e di essere consapevoli che esistono individui che fanno «raccolta di bambini». Suggerisce di fare una visita personale alla nuova casa e di chiedere referenze, incluso il nome di un assistente sociale, di un parroco o di un avvocato. Nessun riferimento al coinvolgimento di un giudice. Poi avvisa la famiglia adottiva che «non può chiedere il rimborso di eventuali costi di adozione precedenti pagati a Chask».

È a Chask che si è rivolta Kathy (che non vuole che si usi il suo cognome), sempre di Chicago. Quest’ultima ammette di sapere di avere fallito come madre. «Non so cos’altro fare – spiega la 32enne –. È con un cuore molto pesante che ho deciso di dissolvere la mia adozione». L’oggetto della “dissoluzione” è Nina, una biondina vivace di 3 anni di origine russa. Vive con Kathy, suo marito (che chiama «mamma e papà») e un figlio biologico della coppia da quando aveva 12 mesi. «Io e mio marito ci siamo accorti di non essere in grado di gestire la nuova arrivata – spiega la donna –. Nonostante i nostri sforzi, i problemi della bambina rimangono grandi e ci stanno trascinando sempre più giù, al punto che a volte siamo inefficaci nel gestirla. Mi rendo conto che ci siamo avventurati in questa adozione in modo impreparato e ingenuo, senza sapere che cosa ci aspettava». Di fronte al prossimo “scioglimento” dell’unione, Kathy si è preparata: «Ho già programmato incontri con psicologi per me e per mio marito, per superare il trauma», conclude.

Dall’altra parte della stessa città, sono storie come questa a rendere agguerrita Melanie. Che le vede come una minaccia al valore stesso dell’adozione. «Come genitore adottivo, devo affrontare spesso l’idea che non sono la “vera” madre dei miei bambini o che loro non sono i miei “veri” figli – dice –. Il numero crescente di commenti, su internet o sui media, di persone che assicurano comprensione per la decisione “coraggiosa” della famiglia rovina la percezione della validità della mia famiglia. Promuove l’idea che quando i figli diventano troppo difficili, possiamo darli via. Solo quelli adottati, ovviamente. Non ci sarebbe mai un’accettazione così diffusa della donazione dei “veri” bambini». Melanie e suo marito stanno adottando due fratellini venuti da famiglie che li hanno respinti. E hanno stretto un’alleanza con un importante studio legale dell’Illinois, Mevorah, impegnato da anni nel monitoraggio di casi di seconde adozioni che affiorano nei tribunali per i minori e cerca i bloccarli, o perlomeno di portarli all’attenzione delle autorità come un’aberrazione. Melanie ha al suo fianco anche un’amica psicologa, Miriam Klevan, che mette in contatto con le famiglie adottive a corto di risorse affinché le aiuti a trovare una soluzione.

«La maggior parte dei genitori vuole essere amata – spiega Klevan –. Ma se vuoi essere il genitore di un bambino traumatizzato, non puoi avere questo tipo di attese. Devi superare le aspettative di adorazione ed essere soddisfatto se riesci a insegnare a questo essere umano a crescere emotivamente e a essere indipendente. Purtroppo molti genitori adottivi non riescono a rinunciare al sogno della famiglia idilliaca. È un problema sociale, oltre che legale, che mi sono impegnata a rettificare». Altre persone conducono sforzi simili in tutto il Paese. Edward McCarty, un giudice della contea di Nassau, ad esempio, ha impedito più di un caso di rehoming, sebbene la pratica non sia esplicitamente proibita nello Stato di New York, e ha segnalato i minori coinvolti ai servizi sociali. Più volte ha, inoltre, implorato l’Assemblea legislativa statale di chiudere la scappatoia legale che attualmente consente le riadozione di un minore.

Per sapere come la pensa McCarty basta leggere la sentenza che ha emesso quando una coppia di Long Island gli ha chiesto di revocare l’adozione di due bambini russi per poterli cedere a una nuova famiglia. «Tale rehoming o qualsiasi altra frase descrittiva per classificare questo commercio è inequivocabilmente una forma di traffico di bambini, persino in assenza di elementi finanziari – ha scritto –. Comporta il trasferimento della custodia del bambino a un estraneo senza l’ispezione preliminare della nuova famiglia da parte di un funzionario e senza la supervisione di un tribunale. Il motivo più spesso citato per il rifiuto da parte dei genitori adottivi è un fallimento nel legame. Il che è contrario al principio stesso dell’adozione».

Avvenire

Il bilancio dei Campionati. A Glasgow e a Berlino il volto migliore dell’Europa

Un mosaico di popoli antichi e giovani insieme, che fonde le identità particolari in un unico insieme capace di valorizzarle attraverso il sano agonismo

avvenire

La 20 km di marcia, maschile e femminile, sfila ai piedi della Gedächtniskirche (Ansa/Ap/Matthias Schrader)

Comunque sia andata, è stato un successo. Quali che siano stati – come sono sempre, in ogni grande manifestazione sportiva – le gioie e i dolori, i trionfi insperati sul filo di lana e le brucianti delusioni per anni di lavoro sfumati magari per una foratura o per un inciampo, i primi Campionati europei hanno rappresentato una vittoria scintillante, sia per lo sport sia per l’Europa.

Per lo sport, perché questa manifestazione organizzata un po’ di corsa ha davvero avvicinato il livello tecnico e l’attenzione mediatica di una piccola Olimpiade. Con buona pace del Comitato internazionale olimpico, la cui analoga iniziativa – i Giochi europei – non ha scaldato né gli atleti, né il pubblico, né soprattutto le federazioni sportive continentali: alla prima edizione, Baku 2015, hanno partecipato di fatto solo seconde linee. Fortemente voluti dall’Unione europea di radiodiffusione, questi Campionati europei si sono invece intelligentemente appoggiati a iniziative già in corso (gli Europei di atletica 2018 erano già stati assegnati a Berlino, Glasgow aveva tutti gli impianti pronti dopo i Giochi del Commonwealth di quattro anni fa) e le ha riunite in un unico contenitore ben calibrato soprattutto dal punto di vista televisivo. E ottimi sono stati i dati di ascolto, dei quali si sono giovate soprattutto le discipline minori (dal canottaggio al golf) che hanno beneficiato dell’effetto traino costituito dalle due regine, nuoto e atletica. Per ospitare la prossima edizione – che si terrà nel 2022 – non mancano le candidature, tra le quali quella di Roma: ma prima andrà sciolto il complesso gioco a incastri in corso per portare in Italia le Olimpiadi invernali del 2026. Organizzazione intelligente, coordinamento tra le federazioni sportive continentali che hanno fatto convogliare sull’iniziativa i propri Campionati che comunque si sarebbe dovuti svolgere nel 2018, costi contenuti grazie l’uso di impianti già esistenti: tutto ha funzionato a dovere.

Ma anche l’Europa nel suo complesso esce bene da questa rassegna, e proprio in un momento in cui il vecchio e un po’ acciaccato continente ha un gran bisogno di guardarsi allo specchio e vedere riflessa un’immagine un po’ migliore di quella, improntata agli egoismi e alla sfiducia, che sembra andare per la maggiore. A brillare è soprattutto l’Europa dei popoli che si incontrano e si sfidano, sì, ma per abbracciarsi sempre a fine gara; l’Europa di un marciatore (l’italiano Stano) che al rifornimento di metà gara prende due spugne anziché una, e l’altra la passa all’avversario tedesco accanto a lui. È l’Europa dove l’origine etnica e famigliare degli atleti – dei cittadini – è giusto un dato biografico e nulla più. La platea continentale ha esultato e si è rattristata allo stesso modo quando i colori delle loro nazioni erano in campo, indifferentemente dalle sfumature melaniche della pelle di chi li indossava. Senza enfasi, anzi, con la massima semplicità: come raccontava in telecronaca il sempre eccellente Franco Bragagna, nella staffetta italiana c’erano Filippo Tortu detto Pippo, brianzolo di origini sarde, ed Eseosa Desalu detto Fausto, cremonese di origini nigeriane. Senza bisogno di aggiungere altro.

Non è retorica: è la reale quotidianità di tanti europei, soprattutto giovani, che sono nati e cresciuti in un contesto in cui l’orizzonte continentale, e non nazionale, è quello nel quale sono abituati a muoversi, a confrontarsi, a vivere. Senza dimenticare le proprie radici – e la cerimonia del podio con gli inni e le bandiere è sempre lì, al termine di ogni gara, a ricordarle – ma capaci di portarle, queste radici, nel tronco comune di un’identità più ampia, come se il fusto del grande albero europeo avesse bisogno di abbeverarsi ai mille rivoli delle sue pluralità, per poter infine abbracciare sotto il suo ombrello frondoso tutti i popoli del continente.

Montagna. Strappo del Cai, via dall’Unione internazionale: «Solo business»

Il presidente Torti spiega il perché della scelta: «Gestione deficitaria e poco trasparente, che ha perso di vista le finalità dell’Uiaa», di cui il Club alpino italiano fu fondatore nel 1932

Strappo del Cai, via dall'Unione internazionale: «Solo business»

«Non vogliamo essere considerati osservatori passivi, né superficiali e, ancor meno, conniventi, di una gestione poco trasparente delle risorse e della scelta di obiettivi che poco o nulla hanno a che fare con le finalità per cui l’Unione era nata». Sono pesate ma durissime, le parole con cui il presidente generale del Club alpino italiano, Vincenzo Torti, annuncia l’uscita del sodalizio dall’Uiaa, l’Union Internationale des associationes d’alpinisme, di cui il Cai è stato socio fondatore nel 1932. Dopo 86 anni, finisce dunque il rapporto tra il nostro Club alpino e l’Unione internazionale e le ragioni della rottura sono illustrate dal presidente Torti in un lungo e documentato editoriale pubblicato sul numero di agosto di Montagne 360, la rivista mensile che arriva nelle case degli oltre 320mila associati.

La decisione di recedere dall’Unione è stata assunta all’unanimità dal Comitato centrale di indirizzo e controllo lo scorso 23 giugno e sarà operativa a partire dal 2019. Già quest’anno, comunque, i rappresentanti del Cai non parteciperanno all’assemblea annuale dell’Uiaa, convocata in ottobre a Ulan Bator, la capitale della Mongolia.

«Ormai l’Uiaa è diventata un sistema per consentire a poche, grandi aziende di fare business, utilizzando, tra l’altro, i contributi delle associazioni aderenti», sottolinea Torti, ricordando come l’adesione all’Unione costa al Cai circa 30mila euro all’anno. Risorse, aggiunge il presidente generale, «che ora potranno essere impiegate meglio per promuovere la frequentazione consapevole e rispettosa della montagna». Finalità che, da statuto, avrebbe dovuto perseguire anche l’Uiaa (oltre alla tutela dell’ambiente montano, legata soprattutto ai cambiamenti climatici e alla diffusione della pratica alpinistica tra le giovani generazioni) e che, invece, negli anni sono andate quasi del tutto scomparendo a vantaggio di altri obiettivi molto ben remunerati. «È scandaloso – ribadisce Torti – che nel bilancio 2018 siano stati previsti appena mille franchi svizzeri (valuta di riferimento dell’Uiaa, che ha sede a Berna ndr) per la “promozione” dell’alpinismo e 209mila per organizzare le Ice climbing competition, le gare di arrampicata su ghiaccio».

Il motivo lo spiega lo stesso Torti nella comunicazione ai soci: l’Uiaa ha sottoscritto un contratto di sponsorizzazione con un noto produttore di abbigliamento sportivo che, però ha preteso e ottenuto che l’intero ammontare della sponsorizzazione (200mila euro all’anno per cinque anni) sia impiegato per l’Ice climbing.
«Non solo – aggiunge Torti –: quest’attività è stata inserita anche tra le finalità statutarie dell’Unione il cui staff, pagato con i contributi degli associati, si trova, così, prevalentemente impegnato nell’organizzare ciò che serve allo sponsor che, in tal modo, riceve un ulteriore beneficio».

Osservazioni messe nero su bianco in una lettera inviata da Torti al presidente del board dell’Uiaa, l’olandese Fritz Vrijlandt e a tutte le 90 associazioni alpinistiche aderenti. «Nonostante la chiusura in perdita dell’esercizio 2017 – sottolinea Torti – nel bilancio di quest’anno è stato previsto un aumento di spesa di 41mila franchi per il solo staff, connesso a un’assunzione aggiuntiva. Il tutto – insiste il Presidente generale del Cai – con una gestione priva di trasparenza e deficitaria, improntata ad assicurare a pochi un’accogliente sede a Berna, viaggi internazionali pagati (l’ultima riunione del Management Commitee è stata convocata a Katmandu, in Nepal ndr) e contatti personali, senza progettualità che abbiano al centro l’alpinismo, la libertà di accesso, la tutela dell’ambiente montano, la formazione delle federazioni meno strutturate, l’avviamento dei giovani alla montagna e le attività di soccorso».

Da qui, la decisione «sofferta ma non più procrastinabile» di uscire dall’Uiaa. Cosa che stanno pensando di fare anche i Club alpini tedesco e austriaco che, con il Cai, rappresentano 2,1 milioni di soci su un totale Uiaa di 2,7 milioni. Per l’Unione sarebbe il colpo di grazia.

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