“Se Dio è amore, tutto è amore”

Frosini, Ildegarda di Bingen

Teologa, filosofa, scienziata, psicologa, promotrice di una medicina alternativa, musicista, riformatrice dei costumi, profetessa – Ildegarda di Bingen (1098-1179) è stata una delle figure piú “intense e straordinarie” della storia della Chiesa. Nella sua multiforme produzione si palesa «la versatilità di interessi e la vivacità culturale dei monasteri femminili del medioevo» – come ha scritto Benedetto XVI in occasione di una delle due catechesi dedicate a Ildegarda, prima che lo stesso papa la proclamasse dottore della chiesa universale il 10 maggio 2012.

La monografia di Giordano Frosini offre una lettura attualizzante della personalità e dell’opera della “profetessa teutonica”, «nella convinzione che la riflessione teologica, che perdura piú o meno da venti secoli, costituisca uncontinuum che si distende progressivamente nel tempo, fino alla sua conclusione, che non è di questa terra» (p. 7). Un metodo che lo stesso Frosini non esita a definire sui generis e «che parte dall’analisi dei pensieri piú originali e fondamentali dell’autrice e del secolo di appartenenza e li confronta con gli sviluppi che si sono susseguiti in particolare nei nostri tempi in qualche modo proseguendoli e riportandoli fino ai nostri giorni» (p. 11s).

Già badessa all’età di 38 anni, Ildegarda entra come oblata nel monastero benedettino di Disibodenberg quando aveva otto anni. Nel 1150 fonda il monastero indipendente di Bingen, e nello stesso torno di tempo compone le liriche musicate raccolte nel Symphonia harmoniae caelestium revelationum. La notorietà della “sibilla renana” si diffonde rapidamente in tutta Europa, grazie alle numerose corrispondenze che ella intrattiene con papi, imperatori e influenti personaggi dell’epoca, tra i quali Bernardo di Chiaravalle, e ai viaggi missionari intrapresi, malgrado la sua cagionevole salute, per richiamare con zelo fustigatore gli uomini di chiesa alle loro responsabilità pastorali e per predicare l’ortodossia contro la pericolosa eresia dei catari tedeschi – di cui chiedeva la condanna all’esilio ma non l’uccisione.

Al culmine della sua fama, la badessa compone il Liber vitae meritorum (1158-1163) e inizia la stesura del suo capolavoro, il Liber divinorum operum, che porterà a termine nel 1174. «Pur non avendo frequentato i corsi del trivio e del quadrivio», rileva Frosini, Ildegarda esibisce una solida cultura, basata sulla conoscenza «della classicità latina, di Boezio, e di diversi padri della Chiesa come Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio Magno e Leone Magno» (p. 21). Ildegarda è stata a tutti gli effetti «una figlia del XII secolo» (p. 26), «inscindibilmente connessa con il suo tempo» (p. 29). Soprattutto, l’opera ildegardiana si colloca sullo sfondo filosofico di un platonismo ancora culturalmente egemone, che trova la propria sede d’elezione nella scuola della cattedrale di Chartres e che incentra la propria riflessione sulla cosmologia del Timeo, elaborando la controversa dottrina dell’anima mundi – respinta da Bernardo per i suoi presunti esiti panteistici.

Dopo alcuni cenni alla produzione scientifica di Ildegarda, fondata su una concezione «unitaria dell’universo e dell’uomo» (p. 51), di cui l’autore sottolinea la consonanza con l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco – e al repertorio musicale ildegardiano – caratterizzato da «composizioni di tipo monodico, sulla linea del canto gregoriano» (p. 71), tra le quali l’Ordo virtutum, il primo dramma sacro della storia –, Frosini prende in esame le tre opere fondamentali della produzione teologica di Ildegarda, frutto delle rivelazioni divine che la badessa renana sperimentò fin dal quinto anno di vita, sempre accompagnate da un monito perentorio: «Divulga ciò che vedi e senti» (p. 76).

Le trentasei visioni dello Scivias (1141-1150), suddivise in tre parti, trattano degli «eventi della storia della salvezza dalla creazione del mondo alla fine dei tempi» (p. 54), presentandosi come una sorta di «catechismo per l’uomo comune» (Ibid.). La seconda opera maggiore di Ildegarda è il Libro dei meriti di vita, «un originale trattato di teologia morale», in sei capitoli contenenti trentacinque antitesi di vizi e virtú, che per l’intensità delle immagini utilizzate reggono il paragone con le grottesche raffigurazioni pittoriche di Hyeronimus Bosch (p. 59). Infine, il Libro delle opere divine, considerato il suo capolavoro teologico, in cui compare l’immagine della ruota con al centro l’uomo, prefigurazione del celebre Homo vitruvianus di Leonardo Da Vinci, simbolo di una concezione antropocentrica in cui l’essere umano è l’opus dei per eccellenza, il microcosmo «che riassume in sé e ricapitola l’intera perfezione del macrocosmo, trascendendola infinitamente per la presenza dello Spirito e delle facoltà dell’intelletto e della volontà» (p. 173).

Il problema di Dio nel pensiero di Ildegarda occupa una posizione di assoluta centralità nel saggio di Frosini: «Se Dio è amore, tutto è amore. […] È tutto qui il pensiero di Ildegarda di Bingen» (p. 108). «L’amore – scrive la profetessa – abbonda in ogni cosa,/ dal fondo dell’abisso/ fino all’altezza delle stelle» (Ibid.). Dio crea il mondo “ex amore” e non per propria gloria. È questo il “nuovo volto di Dio” che il concilio Vaticano II ha annunciato nella Gaudium et spes. «Dio è fuoco, da cui tutte le creature ricevono energia, vigore, viriditas» – categoria quest’ultima ricorrente nel discorso ildegardiano – che l’A. propone di tradurre con: «freschezza, attualità, forza di rinnovamento e fonte di giovinezza» (p. 12).

Alla base della teologia ildegardiana appare riconoscibile, sebbene in forma implicita, la dottrina platonica dell’anima mundi, il che indurrebbe Frosini a considerare la profetessa renana un’anticipatrice del panenteismo– termine introdotto nel discorso teologico in epoca successiva da un discepolo di Schelling, Christian Krause (1781-1812) – secondo cui «possiamo dire che Dio non è dentro il mondo, ma piuttosto che il mondo è dentro di lui» (p. 151). Questo dato giustificherebbe la prossimità tra la prospettiva di Ildegarda e quella di Meister Eckhart, prospettiva che trova, secondo Frosini, il proprio compimento nella teologia immanentista di Teilhard de Chardin, a cui è dedicato un intero paragrafo.

In questo orizzonte concettuale, la riflessione ecclesiologica di Ildegarda guarda alla chiesa come all’icona stessa del mistero trinitario: «come nelle tre persone divine c’è un solo Dio, cosí anche nei tre stati considerati [ministri ordinati, religiosi e laici] c’è un’unica chiesa» (p. 223). L’ecclesiologia di Ildegarda, insistendo sul primato della chiesa-mistero di contro alla chiesa istituzione – la chiesa ‘bellarminiana’ come ama definirla Frosini – precorre anche in questo campo le conclusioni del concilio Vaticano II.

Il saggio si chiude con la presentazione dell’escatologia di Ildegarda, dominata dal senso drammatico della lotta incessante tra il bene e il male, in cui l’uomo è chiamato a collaborare con Dio, perché, afferma Frosini – citando A. Torres Queiruga –, «è dall’intelligenza dell’uomo che dovrebbero nascere i miracoli della liberazione dal male» (p. 168). Se il panenteismo si rivela in questo modo capace di suggerire nuove soluzioni all’annoso problema della Teodicea, sulla profezia ildegardiana della fine del mondo – scandita da cinque epoche di decadenza che ricalcano il modello dell’Esameron biblico – sembra invece pesare il retaggio di «un’epoca che non ha saputo leggere fino in fondo il messaggio evangelico, che è lieta notizia per la vita e per la morte, per il presente e per il futuro, per il tempo e l’eternità» (p. 242). L’opera di Ildegarda, tuttavia, trascende ampiamente i limiti della propria epoca – come il saggio di Frosini ha il pregio di documentare – anticipando, con profetica lungimiranza, sviluppi ed esiti della riflessione teologica attuale.

Giordano Frosini, Ildegarda di Bingen. Una biografia teologica, EDB, Bologna 2017, pp. 270, € 28,00. La recensione di Igor Tavilla è stata pubblicata su Studia Patavina 65(2018)1, 154-156.

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Tutti sconfitti nelle guerre commerciali

guerra commerciale

Nella battaglia dei dazi con la Cina, gli Stati Uniti cercano di ottenere il massimo prima di arrivare a un accordo. Ma il rischio è che a farne le spese sia il sistema di regole del commercio internazionale, insieme alla crescita economica globale.

Nuovo round di dazi USA-Cina

Dopo qualche settimana di pace apparente, il presidente Trump ha ripreso la sua personale guerra contro la politica commerciale internazionale. Fatto naufragare un vertice G-7 su questi temi in Canada ai primi di giugno, a metà mese l’amministrazione americana ha definito l’elenco di prodotti cinesi ad alta tecnologia che potrebbero essere soggetti a tariffe del 25 per cento, per un controvalore stimato di 50-60 miliardi di dollari. Data prevista di entrata in vigore: 6 luglio.

Dando per scontata la peraltro già annunciata reazione cinese, per il momento le aspettative non sono comunque quelle di una guerra commerciale dichiarata tra Cina e Stati Uniti. La sensazione è invece che l’amministrazione americana stia praticando un classico caso di politica del rischio calcolato, ossia l’arte di danzare sul ciglio di un burrone per estrarre il massimo tornaconto da una trattativa, a fini elettorali interni (a novembre negli Stati Uniti si tengono le elezioni per il rinnovo di parte di Camera e Senato).

Il sospetto nasce dal fatto che nelle scorse settimane la lista di prodotti soggetti a tariffa di importazione dalla Cina è stata modificata dall’amministrazione americana rispetto a quella originariamente annunciata in aprile, eliminando di fatto i beni finali e concentrando il 95 per cento delle tariffe su beni capitali o intermedi. Lo scopo è attenuare l’effetto immediato dei dazi sui prezzi al consumo in America e dunque limitare i danni politici della manovra, almeno nel breve periodo.

Gli effetti di breve e medio periodo

Tuttavia, nel medio periodo è inevitabile che le tariffe vadano a scaricarsi sui costi delle aziende attraverso le catene globali del valore, generando aumenti di prezzi, perdita di competitività e posti di lavoro e, in ultima analisi, minore crescita e benessere per il paese che ha imposto la protezione. Questo perché oggi, rispetto al passato, l’export ha un peso sul PIL mondiale mai raggiunto in precedenza (circa il 30 per cento), e la produzione è molto più integrata a livello internazionale: la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) stima che tra il 70 e l’80 per cento dei flussi commerciali mondiali abbia luogo con almeno una controparte costituita da una impresa multinazionale, e dunque in qualche modo coinvolta in una catena globale del valore. Molto più che in passato, dunque, una politica protezionistica rischia di generare un aumento dei costi interni su una gamma assai più ampia di prodotti indirettamente interessati. Inoltre, nel nuovo contesto delle catene globali del valore, per un’impresa è relativamente più semplice aggirare eventuali dazi, semplicemente spostando la produzione in altri impianti già operativi del suo sistema produttivo.

Non a caso, si moltiplicano già gli esempi di questi effetti negativi: a seguito delle contro-tariffe europee imposte in risposta ai dazi USA su alluminio e acciaio, la Harley Davidson ha annunciato che sposterà parte della sua produzione nelle fabbriche fuori dagli Stati Uniti, con una perdita di posti di lavoro negli USA. Anche l’industria del formaggio americano rischia la crisi (a favore dei concorrenti europei) dopo l’aumento dei dazi su questi prodotti deciso da Messico e Canada, sempre in risposta ai dazi USA su alluminio e acciaio. Se rimaniamo in Europa, Airbus ha annunciato che abbandonerebbe la produzione nel Regno Unito in caso di «hard» Brexit, con relativa perdita di miliardi di euro in termini di profitti, investimenti e posti di lavoro per tutte le imprese in qualche modo collegate. Infatti, senza un accordo, le tariffe che l’Europa prevede per tutti i paesi WTO si applicherebbero anche al Regno Unito, rendendo insostenibile il mantenimento della produzione britannica rispetto alla commercializzazione all’interno del mercato unico. Né è realistico pensare che le delocalizzazioni possano essere compensate da produzioni alternative «locali», in quanto gli effetti di queste ultime tendono a materializzarsi in un orizzonte di lungo periodo, dati i tempi necessari alle riconversioni industriali.

Il punto chiave del problema sembra essere proprio questa sorta di (nuova) incoerenza temporale determinatasi nella politica economica del protezionismo con la comparsa delle catene globali del valore. Nel breve periodo, la presenza di un elevato numero di beni intermedi importati consente di concentrare su questi eventuali tariffe, posponendo nel tempo l’effetto sui beni finali e dunque sui consumatori/elettori. Di contro, però, nel medio periodo una politica protezionistica rischia di creare effetti negativi maggiori rispetto al passato per l’economia che la mette in atto, sia per il maggior numero di prodotti che, prima o poi, potrebbero aumentare di costo, sia per il più alto rischio di delocalizzazione dell’attività economica. Nello stretto spazio temporale che si crea tra effetti di breve e di medio periodo, si inserisce la possibilità di trarre vantaggi da un negoziato politico, e qui sembra essersi posizionata oggi l’amministrazione americana.

Il pericolo è però che il gioco sfugga di mano, con continue e sempre più acute ritorsioni sul fronte tariffario. A questo punto, l’accordo tra potenze in lotta potrebbe arrivare mentre volano in aria le ceneri del sistema di regole del commercio internazionale, dissoltosi nel frattempo insieme alla crescita economica globale. Un classico esempio di vittoria di Pirro.

Carlo Altomonte è professore di Economia dell’Integrazione Europea presso l’Università Bocconi di Milano. Consulente sui temi del commercio e degli investimenti internazionali per diverse istituzioni pubbliche, tra cui la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo, è autore di diverse pubblicazioni scientifiche internazionali sui temi del commercio e degli investimenti internazionali e della competitività dei sistemi economici. Il suo articolo è apparso sul sito di informazione lavoce.info lo scorso 29 giugno 2018.

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Un ministero ordinato dal volto umano

La Lettera di un giovane teologo a settimananews

Leggendo vari articoli, ho trovato molte volte un’equazione di questo tipo per “risolvere”, a livello concettuale, il problema delle vocazioni nella Chiesa: non ci sono più vocazioni al ministero ordinato, perché è in atto una grande crisi di fede nelle giovani generazioni. Non ci sono più giovani in grado di scegliere la strada della vita ministeriale, perché molte volte questi stessi giovani sono attratti da altre vie e strade che non poche volte distolgono il loro cuore e la loro mente dal desiderio di donare tutta la loro esistenza alla cura e all’edificazione della Chiesa.

Questa equazione – crisi di fede = crisi delle vocazioni –, se la confronto con la mia piccola esperienza – sia di condivisione franca con alcuni amici presbiteri sia nel mio lavoro quotidiano di educatore – vedo che è una soluzione “semplice” di un problema che, a mio modo di vedere, è da decenni che la Chiesa cattolica non ha il coraggio di affrontare e di prendere in mano sul serio.

Da un lato, certamente, sussiste il “problema” legato alla scelta (obbligo!) della vita celibataria che, sebbene la Chiesa cattolica non lo ritenga un “dogma” nel senso pieno del termine, nella prassi viene vissuto e imposto in forma dogmatistica (o senti dentro di te che Dio ti chiama ad essere celibe, e ne accetti le conseguenze, oppure io – Chiesa cattolica – non posso ordinarti!). Dall’altro lato, sussiste un ulteriore problema che intendiamo esprimere in questo modo: il ministero ordinato, volenti o nolenti, diventa e deve essere – per il soggetto che chiede l’ordinazione ministeriale – il tutto della sua vita. Tutta l’esistenza del ministro ordinato, in effetti, si gioca e deve tutta giocarsi in una vita pastorale che diventa ed è il “tutto”, lo “spazio” esistenziale in cui l’uomo-presbitero vive e deve giocarsi.

Ci sarebbe molto da riflettere – a mio modesto avviso – sul grande tema dell’obbedienza sia essa promessa al vescovo diocesano sia ai superiori di una congregazione religiosa.

Questa struttura ministeriale, ancora così fortemente intrisa di spirito monarchico e di tridentinismo, in cui io ministro ordinato sono chiamato costantemente a “farmi andar bene” ciò che altri hanno scelto per me, oppure a “dovermi accontentare” di un’esistenza che dev’essere tutta spesa in strutture ormai caduche o fortemente in crisi (basta pensare ad alcuni aspetti della pastorale parrocchiale…), non chiede forse il coraggio di aprire altre strade o altre vie per l’umanizzazione della vita del prete?

Perché la Chiesa cattolica non ha il coraggio di affrontare con coraggio, verità e lealtà questi nodi problematici?

Perché non ci si rende conto che ciò che allontana i giovani dal ministero ordinato non è la loro poca fede in Gesù Cristo, bensì la pesantezza che emana la struttura ministeriale della Chiesa?

Non c’è forse qualche differenza tra lo spirito evangelico (l’Evangelo di Gesù Cristo) e le strutture che dovrebbero essere al suo servizio?

La Chiesa non dovrebbe ascoltare maggiormente quei giovani presbiteri che, dopo qualche passaggio doloroso e di crisi, hanno scelto di abbandonare la via del ministero ordinato?

Non possiamo accontentarci, e credo proprio in nome dell’Evangelo di Cristo, di criticare semplicemente questi figli di Dio e della Chiesa bollandoli come degli infedeli o dei traditori, ma ne dobbiamo ascoltare le storie e la vita perché da essi la Chiesa potrebbe ancora e nuovamente trovare quelle “critiche” e quelle “criticità” che potrebbero spingerla al suo rinnovamento!

Credo che il peso della storia gloriosa di una Chiesa militante e forte si faccia ancora sentire sulle spalle della gerarchia. Il fascino di un certo potere e delle “sicurezze” che “vengono dai primi posti nei banchetti” potrebbero ancora affascinare (e, forse, affascinano davvero) alcuni a cercare nella “via della vocazione ministeriale” la strada per emergere dal nascondimento o dall’inferiorità.

Il Vangelo, però, mi sembra chieda altro… e che inviti costantemente a spogliarsi per servire, ad umanizzarsi per umanizzare, a sporcarsi nella strada per pulire e risollevare. Il ministero ordinato, così come oggi la Chiesa cattolica continua ad offrirlo ai giovani e agli uomini del nostro tempo è davvero una via umanizzante?

Perché non pensare ad un ministero ordinato più quotidiano, più incarnato nella vita ordinaria… fatta di lavoro per la sussistenza, per il bene altrui e per la vita pastorale? La forma di mantenimento economico attuale dei preti non è, in realtà, una forma di privilegio sociale? “Tanto, che lavori o meno…, lo stipendio mensile lo ricevo comunque!”. Non è così, però, nella vita ordinaria e quotidiana del popolo…

La domanda è volutamente provocatoria e, benché io sia conscio di non possedere la chiave di volta o risolutrice del problema, vorrei aprire una via per la discussione e la riflessione…

Cattolici-anglicani: progressi sull’ecclesiologia

La commissione ufficiale per il dialogo tra la Chiesa cattolica e quella anglicana ha postato online, il 2 luglio scorso, il documento “Camminare insieme lungo la strada: imparare a essere Chiesa – locale, regionale, universale (Walking together the way – Learning to Be the Church — Local, Regional, Universal)”, elaborato lo scorso anno ad Erfurt, in Germania.

È un testo di 68 pagine che affronta le strutture e i processi decisionali delle due Chiese ed esplora le modalità per il mantenimento della comunione fra esse ad ogni livello, locale e universale.

Afferma, inoltre, che le strutture di gestione hanno bisogno di riforme, e analizza le modalità di comunione con altri partner ecumenici.

Inoltre, esamina le condivisioni dei principali aspetti teologici e le differenti modalità e strutture, basate sui medesimi principi comuni, attraverso le quali le due Chiese giungono alle decisioni finali.

Come sede dei lavori era stata scelta la città tedesca di Erfurt perché in questo luogo Martin Lutero aveva sentito la vocazione ed era entrato nell’ordine agostiniano. E perché era il 500° anniversario della Riforma.

Nonostante «diverse difficoltà» e alcuni «ardui problemi» incontrati negli anni scorsi, i teologi anglicani e cattolici che costituiscono l’ARCIC III, nell’incontro del 14/20 maggio del 2017 – come ha affermato Radio Vaticana –, sono riusciti a concludere la prima parte del loro mandato e a raggiungere un accordo a partire da come le due Chiese sono strutturate a livello locale, regionale e universale.

Ma cosa contiene questo nuovo testo ecumenico? E come influenzerà i cattolici e gli anglicani ordinari?

Molti i temi affrontati

Il documento – scrive Joshua J. McElwee, vaticanista del periodico National Catholic Reporter in un articolo, ripreso poi anche da Vatican Insider, in cui ha messo in risalto le affermazioni-chiave del testo – sottolinea: «La Chiesa può imparare dalla cultura del dibattito franco e aperto che esiste a tutti i livelli della Comunione anglicana… La prassi anglicana di attribuire un ruolo deliberativo ai sinodi e di investire l’autorità negli strumenti regionali di comunione afferma che il sinodo dei vescovi potrebbe esercitare un ruolo deliberativo e suggerisce che la Chiesa cattolica romana ha bisogno di articolare più chiaramente l’autorità delle conferenze episcopali».

Aggiunge, inoltre, che la Chiesa cattolica può fruttuosamente «imparare dall’inclusione dei laici nelle strutture decisionali a tutti i livelli della vita anglicana».

Creata in seguito allo storico incontro del 1966 tra Paolo VI e l’arcivescovo anglicano di Canterbury, Michael Ramsey, la commissione ha cominciato i suoi lavori nel 1970 e ha pubblicato il suo primo documento l’anno successivo sulla comprensione della dottrina eucaristica delle due Chiese.

Il documento ora pubblicato abbraccia un vasto ventaglio di problemi che riguardano l’ordinazione, l’autorità e la salvezza. In precedenza, nel 2005, la commissione aveva reso pubblico un documento intitolato “Maria: grazia e speranza in Cristo”. Poi ci fu una lunga paura, dopo che Giovanni Paolo II aveva disapprovato la nomina episcopale nel New Hampshire del vescovo Gene Robinson, un uomo che viveva apertamente una relazione gay.

I due co-presidenti della commissione, l’arcivescovo cattolico Bernard Longley, di Birmingham, e l’arcivescovo anglicano David Moxon, della Nuova Zelanda, che ha appena terminato il suo servizio presso la Santa Sede in qualità di rappresentante dell’arcivescovo di Canterbury, scrivono nella prefazione che questa fase ha lo scopo di riconsiderare due costanti temi del dialogo: l’autorità e l’ecclesiologia di comunione.

Un documento per la discussione

Il documento ora prodotto è destinato alla discussione; non è una «dichiarazione autoritativa» delle due Chiese. È diviso in sei capitoli di cui tre esaminano il modo di esercitare l’autorità in ciascuna Chiesa sul piano locale, regionale e mondiale. L’attenzione principale di questa analisi è di conoscere le diverse modalità con cui le due Chiese armonizzano il diverso processo decisionale tra il piano locale e quello universale.

Per esempio, il documento sottolinea che, nella Comunione anglicana, le province locali possono prendere delle decisioni sulla condivisione dell’eucaristia con altre Chiese nella loro provincia, contrariamente a quanto avviene nella Chiesa cattolica in cui le decisioni sono riservate a Roma. «Questa differenza tra le due tradizioni è centrale nella diversa comprensione e struttura della Chiesa cattolica e della Comunione anglicana».

«In parte – sottolinea il documento – ciò si riferisce ai modi differenti di comprendere come la Chiesa cammina verso l’unità, la missione e la verità. In questione è l’equilibrio tra il modo di rispondere alle domande di alcuni contesti specifici e l’esigenza di muoversi insieme».

Il documento esamina anche le tensioni che esistono nella prassi di comunione all’interno di ciascuna Chiesa, mettendole a confronto su due colonne accostate del testo. Così si comprende con chiarezza cosa intende dire quando ciascuna Chiesa parla in maniera specifica della propria esperienza.

Le tensioni identificate dai membri cattolici della commissione sono molto ampie. Un’«area di difficoltà» riguarda il concetto secondo cui i vescovi cattolici del mondo possono agire insieme in maniera autoritativa anche quando non sono raccolti in Concilio.

«Nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis e nell’enciclica Evangelium vitae si fa appello a questo insegnamento vincolante, scrivono i membri cattolici della Commissione, riferendosi alla riaffermazione del 1994 riguardante la proibizione dell’ordinazione sacerdotale delle donne nella Chiesa cattolica e al documento del 1995 che ha trattato problemi quali l’aborto e l’eutanasia.

«Tuttavia, non c’era un atto che segnasse l’esplicito consenso dei vescovi circa questo presunto insegnamento vincolante… Di conseguenza, né i vescovi né i laici possono sapere quali insegnamenti hanno bisogno di un consenso prima di essere resi obbligatori, o da un papa… o da un concilio ecumenico».

I membri cattolici della commissione hanno discusso anche dei poteri dei papi nei recenti decenni, affermando che l’uso di un’autorità del genere «può… sembrare troppo lontana dalla realtà delle singole Chiese locali».

«Papa Francesco ha notato che esiste una tendenza dei vescovi di rinviare troppo in fretta i problemi a Roma anziché esercitare la loro autorità».

«L’autorità decisionale esercitata da Roma (in particolare per ciò che riguarda le nomine dei vescovi) e il suo potere di censura possono rendere i singoli vescovi e le conferenze episcopali reticenti e restii nell’esercizio della loro autorità».

Inoltre, i membri cattolici ritengono che «l’istinto per l’unità e la partecipazione vissuti il più possibile insieme alla loro Chiesa possa a volte indurre a credere che «tutta la Chiesa debba sempre agire unitariamente in tutti i problemi, con la conseguenza che anche le legittime differenze culturali e regionali vengono soppresse».

«Anche se esistono delle tensioni riconosciute in seno alla Comunione anglicana, la Chiesa cattolica romana potrebbe imparare fruttuosamente dalla sua prassi della diversità provinciale e dal riconoscimento che, su certi problemi, parti diverse della Comunione possono compiere in maniera appropriata discernimenti differenti, influenzati dalla pertinenza culturale e contestuale».

Esame dell’unità della Chiesa cattolica

Da parte loro, i membri anglicani della commissione apprezzano ciò che chiamano «l’impegno per l’unità» della Chiesa cattolica e suggeriscono che la loro comunione potrebbe emulare le pratiche cattoliche intese a mantenere un calendario comune dei santi, sviluppare un Catechismo dottrinale mondiale e avere un solo Codice uniforme di diritto canonico.

«Nonostante l’esitazione anglicana a modificare l’autonomia provinciale, c’è in essa un desiderio di unità e di impegno sul piano mondiale che richiede un’espressione più profonda nella vita della Comunione».

I membri anglicani della Commissione, inoltre, apprezzano il processo dei sinodi dei vescovi cattolici del 2014/2015 sui problemi riguardanti la famiglia e affermano che gli incontri mondiali dei vescovi cattolici derivanti dall’esortazione apostolica Amoris laetitia sono stati «accuratamente seguiti» dagli anglicani.

Essi dichiarano che «l’incoraggiamento di Francesco circa la sussidiarietà nella determinazione dei problemi pastorali che dividono potrebbe essere… un campo di apprendimento da accogliere».

I membri cattolici, pertanto, riconoscono che i modelli anglicani «potrebbero essere utilizzati per trasformare il sinodo da uno strumento puramente consultivo ad uno strumento deliberativo, previsto dal Codice di diritto canonico.

Imparare gli uni dagli altri

Nella sua conclusione, la commissione afferma di nuovo che sia la Comunione anglicana sia la Chiesa cattolica romana possono imparare dall’esperienza l’una dall’altra.

«Noi crediamo che gli anglicani possono imparare dai cattolici romani le strutture e le procedure che hanno sviluppato a servizio dell’unità sul piano ultralocale e quello universale».

«Crediamo anche che i cattolici possono imparare dagli anglicani le strutture e procedure che hanno sviluppato per garantire la consultazione e la deliberazione a livello locale e ultralocale».

In ambedue i casi c’è bisogno di una comprensione più ricca del ruolo dei laici e di coloro che, mediante il battesimo, partecipano pienamente al triplice ufficio di Cristo profeta, sacerdote e re».

La commissione, composta di 16 membri, 8 per ciascuna tradizione, ha affermato che, nella prossima discussione, da parte delle due Chiese l’attenzione sarà rivolta a discernere rettamente la dottrina etica.

Padre Anthony Currer, del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, e co-segretario dell’ARCIC III, intervistato da Philippa Hitchen sull’impatto che questo documento potrà avere sui cristiani ordinari ha risposto: «Questo è un esercizio che può essere compiuto a tutti i livelli della nostra Chiesa e noi invitiamo i laici, il clero e i vescovi locali a discutere insieme, (…) a essere sinceri l’uno verso l’altro su ciò che si sta dibattendo» e in questo modo crescere nella comunione, «riconoscendo ognuno come compagno lungo il cammino».

settimananews.it

Giappone: L’UNESCO e i luoghi del “Silenzio”

Cattedrale di Oura, Nagasaki, la più antica chiesa in Giappone

Giappone: L’UNESCO e i luoghi del “Silenzio”

di: Tiziano Tosolini
Cattedrale di Oura, Nagasaki, la più antica chiesa in Giappone

Cattedrale di Oura, Nagasaki, la più antica chiesa in Giappone

Sabato 30 giugno, l’UNESCO ha deciso di iscrivere nel proprio patrimonio mondiale dell’umanità 12 siti cristiani nel Giappone sud-occidentale dove, durante il periodo dello shōgunato Tokugawa (1603–1868), i fedeli cristiani vennero perseguitati. Questo ennesima aggiunta dei siti giapponesi da parte dell’Unesco (che ha così portato i siti assegnati al Giappone a 22, di cui 18 culturali e 4 naturali) ha avuto una certa risonanza in Giappone, e quasi tutti i maggiori quotidiani hanno riportato con soddisfazione la notizia. I 12 siti sono tutti localizzati nell’area comprendente la prefettura di Nagasaki e la regione di Amakusa, dove moltissimi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni, dovettero praticare segretamente la loro fede. La scelta di queste località è stata dovuta al fatto che i siti «rappresentano una testimonianza unica di una tradizione culturale coltivata dai cristiani nascosti nella regione di Nagasaki, i quali trasmisero in segreto la loro fede nella persecuzione scoppiata tra il XVII e il XIX secolo».[1]

Tra i vari siti possiamo ricordare la chiesa di Ōura (costruita nella città di Nagasaki e la più antica chiesa del Giappone); le rovine del castello di Hara (luogo in cui circa 37.000 cristiani persero la vita durante la rivolta di Shimabara-Amakusa degli anni 1637–1638); le isole Goto (che offrirono rifugio a molti cristiani nascosti e che sono famose per le loro numerose chiese); l’isola Hirado (in cui san Francesco Saverio fondò alcune comunità e il cui porto, durate il periodo isolazionista, diventò l’unica via di accesso per scambi commerciali tra i mercanti europei e i giapponesi); l’area costiera di Sotome (dove, al termine del bando contro il cristianesimo, alcuni missionari costruirono le chiese di Shitsu e di Ono); il pittoresco villaggio di Sakitsu (la cui chiesa è stata costruita sul luogo dove si svolgevano i tragici episodi del fumi-e, termine che indica il calpestamento del crocifisso o dell’immagine della Vergine Maria da parte di un individuo al fine di dimostrare la sua estraneità o la sua abiura nei confronti del culto cristiano).

Tutte queste località sono quindi intimamente legate al doloroso periodo storico delle persecuzioni in cui i giapponesi videro nel cristianesimo un pericolo per il proprio Paese. Sarà quindi utile ripercorrere, anche se brevemente, queste vicende che portarono alla nascita di quel fenomeno che va sotto il nome di kakure kurishitan («cristiani nascosti») e di cui i siti riconosciuti dall’UNESCO vogliono celebrarne la «testimonianza unica».

chiesa di sakitsu

Chiesa di Sakitsu, in Amakisa (Prefettura di Kumamoto)

L’editto di persecuzione contro il cristianesimo firmato il 27 gennaio 1614 da Hidetada, figlio dello shōgun(generale supremo) Tokugawa Ieyasu, affermava che «i cristiani sono venuti in Giappone non solo con le loro navi per scambi commerciali, ma anche con lo scopo di difendere una legge malvagia, distruggere la retta dottrina (dei kami, cioè delle divinità shintoiste, e del Buddha) e così cambiare il governo del Paese e impossessarsi della nostra terra. Questa è l’origine di un grande disordine che deve essere stroncato». Da quel momento in poi la religione cristiana sarà sempre presentata come una «religione malvagia» (jakyō). Si dava quindi ordine ai vari daimyō (o feudatari) di mandare tutti i missionari esteri a Nagasaki, in attesa di una loro deportazione a Macao o Manila. Le chiese costruite finora dovevano essere abbattute e i cristiani spinti a tornare all’antica fede, rinunciando al cristianesimo. Tra il 1617 e il 1621 sotto lo shōgun Hidetada, circa un centinaio di cristiani furono uccisi.

Nel 1622 lo shōgun Tokugawa Iemitsu dette inizio a una delle più violente persecuzioni contro i cristiani. II più spettacolare martirio fu quello conosciuto come Grande martirio di Nagasaki con 51 martiri bruciati vivi il 10 settembre 1622. Nel 1623 Iemitsu chiuse la nazione al commercio estero ed estese Ia persecuzione in tutto il Paese. Appena arrivato al governo, volle dare una dimostrazione del suo potere ai daimyō radunati alla sua corte e li fece assistere al Grande martirio di Edo, nel quale furono bruciati vivi 50 cristiani. Dopo il 1627 Iemitsu diede il via a feroci torture per ottenere l’apostasia. I più comuni tormenti erano l’essere bruciati vivi, l’immersione nelle bollenti acque solforose e il tormento della fossa, in cui i cristiani venivano appesi a testa all’ingiù. Molti furono indotti ad abiurare, e tra questi anche alcuni missionari (il recente film di Martin ScorseseSilenzio, tratto dall’omonimo libro di Endō Shūsaku, è ambientato in questo periodo e narra di queste vicende).

Dopo il 1640, Ia persecuzione si inasprì, ma le notizie non giunsero più nell’Occidente. Si sa che molti cristiani si erano allontanati dalle loro terre di origine per vivere nascosti nei luoghi più lontani: la rete di spionaggio ne scopriva tutti gli anni nei luoghi più disparati. Nel Kyūshū, in quella che potremmo definire la «terra dei cristiani», quasi ogni anno la polizia scopriva cristiani nascosti. Sappiamo che nel 1649, 97 cristiani subirono il martirio; nel 1658, 608 cristiani vennero catturati nei pressi di Ōmura: 411 furono uccisi, 78 morirono in prigione, mentre 99 non resistettero ai tormenti; tra il 1660 e il 1670, sempre nel Kyūshū, oltre 2.700 cristiani furono scoperti e in gran parte uccisi.

Poiché nel periodo 1697–1700 nessun cristiano fu scoperto, il governo credette di essere riuscito finalmente ad estirpare la “religione malvagia”. Ma nel 1865, dopo che il Giappone si era aperto al mondo occidentale, i missionari francesi che avevano costruito la chiesa di Ōura a Nagasaki (ora, appunto, patrimonio mondiale dell’umanità) ebbero la sorpresa di scoprire i discendenti degli antichi cristiani. Erano più di 20mila. La polizia intervenne e circa 4 mila cristiani furono deportati in altre zone del Paese, mentre altri furono uccisi. Questa fu l’ultima persecuzione. In seguito alla pressione dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, il governo giapponese, ormai passato dal dominio degli shōgun a quello Meiji, il 14 marzo 1873 decretò Ia fine della persecuzione iniziata nel 1614 e durata quasi ininterrottamente per 259 anni.

chiesa di nokubi

Chiesa di Nokubi, sull’isola di Nozaki (Prefettura di Nagasaki)

A questo punto potremmo chiederci che cosa, esattamente, l’UNESCO ha voluto celebrare elevando questi 12 siti a patrimonio mondiale dell’umanità. La bellezza quasi melanconica delle chiese cristiane presenti in queste aree, e gli scenari quasi unici in cui sono incastonate? Oppure la presenza in queste località di cristiani e loro resistenza di fronte a situazioni pericolose e disperate? A cosa il visitatore è invitato a pensare o a guardare quando raggiungerà questi siti il cui nuovo status, secondo qualche giornale locale, «contribuirà alla preservazione del luogo e alla rivitalizzazione economica della regione»? All’attrattiva del posto o alla fede di quei cristiani nascosti che, se scoperti, li avrebbero portati all’abiura o al martirio (anche se quest’ultimo è già stato commemorato il 24 novembre 2008 con la beatificazione a Nagasaki di 188 martiri giapponesi)? Forse a entrambe le cose, ovviamente.

Per i cristiani giapponesi, questa scelta dell’UNESCO rappresenta senz’altro un ulteriore riconoscimento della loro storia e delle sofferenze che hanno dovuto subire per rimanere fedeli alla loro fede – oltre che per purificarla. Come ebbe a scrivere il noto novellista cristiano Endō Shūsaku: «I kakure giapponesi, lungo l’arco di molti anni, avevano abbandonato tutti quegli elementi della religione che erano incapaci di accettare, e gli insegnamenti di Dio Padre furono gradualmente rimpiazzati dall’anelito verso la Madre – un anelito che è l’essenza stessa della religione giapponese».[2]

Per i giapponesi non cristiani, invece, questi siti potrebbero rappresentare una testimonianza di come i missionari (di ieri, come quelli di oggi) non sono affatto giunti in Giappone per imporre una religione, stravolgere una cultura o conquistare una nazione, quanto piuttosto per trasmettere il messaggio evangelico dell’amore di Dio che, in Gesù Cristo, accoglie e trasforma ogni uomo.

Per la Chiesa tutta, infine, questi siti rappresentano la certezza di come lo Spirito continui a guidare le comunità cristiane, sostenendole nel loro cammino e aiutandole nel loro impegno di annuncio evangelico. Come ebbe a dire papa Francesco durante il discorso tenuto ai vescovi giapponesi in Visita ad limina il 20 marzo 2015: «Quest’anno in Giappone celebrate un altro aspetto della sua ricca eredità missionaria e di fede, ossia la comparsa dei “cristiani nascosti”. Anche quando tutti i missionari laici e i sacerdoti vennero espulsi dal paese, la fede della comunità cristiana non si raffreddò. Anzi, i tizzoni della fede che lo Spirito Santo accese attraverso la predicazione di quegli evangelizzatori e sostenne con la testimonianza dei martiri restarono al sicuro, grazie alla sollecitudine dei fedeli laici che conservarono la vita di preghiera e di catechesi della comunità cattolica in una situazione di grande pericolo e di persecuzione. Questi due pilastri della storia cattolica in Giappone, l’attività missionaria e i “cristiani nascosti”, continuano a sostenere la vita della Chiesa oggi e offrono una guida per vivere la fede».[3]

I 12 siti sono dunque aree dove i nostri occhi possono venir ipnotizzati dalla bellezza del luogo e, allo stesso tempo, sconfinare nella commozione ricordando quella fede in Dio che i cristiani hanno saputo mantenere viva e trasmettere nel silenzio. Occhi di stupore e dolore. Gli stessi occhi dei kakure kurishitan che ora si nascondono in noi rendendoci partecipi delle loro sofferenze e della loro fedeltà.

cristianesimo in giappone

[1] Sembrerebbe dunque che l’UNESCO abbia utilizzato il terzo dei dieci criteri usati per discernere se un sito deve essere ritenuto di incomparabile valore universale, e cioè “Essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa”. Per gli latri criteri, si veda: http://www.unesco.it/it/ItaliaNellUnesco/Detail/188

[2] S. Endō, Madri, trad. T. Tosolini, in S. Endō, Haha naru mono, Shinchōsha, Tokyo 1975, 49. Traduzione in corso di pubblicazione.

[3] cf. https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/march/documents/papa-francesco_20150320_ad-limina-giappone.html

Tiziano Tosolini dirige il Centro studi asiatico dei missionari saveriani a Osaka, in Giappone, ed è ricercatore al Nanzan Institute for Religion and Culture di Nagoya. Con EDB ha pubblicato L’uomo oltre l’uomo. Per una critica teologica a Transumanesimo e Post-umano (2015) e Cercare Dio nella palude. Le persecuzioni dei missionari in Giappone da Shūsaku Endō a Martin Scorsese (2016). Ha inoltre tradotto e curato i racconti inediti di Shūsaku Endō, Il giapponese di Varsavia (2017).

settimananews.it

Alimentare. Più grano nazionale dopo il patto di filiera

Più grano nazionale dopo il patto di filiera

Si rafforza il comparto della pasta tutta italiana. Forte di qualche milione di tonnellate di grano raccolto e di altrettanti di pasta prodotta, la filiera grano-pasta tutta nostrana cresce. Anche se, a quanto sembra, le importazioni di frumento dall’estero sono ancora necessarie.

A poco più di sei mesi dal lancio del patto di filiera tra mondo agricolo, sistema cooperativo e industria di trasformazione per aumentare la disponibilità di grano duro italiano di qualità e sostenibile – la risposta nazionale all’invasione di materia prima dall’estero, spesso di dubbia provenienza e salubrità –, il punto della situazione indica una tenuta della produzione oltre che l’aumento del numero dei soggetti che aderiscono al sistema.

Ad entrare nel Protocollo d’intesa siglato nello scorso dicembre sono stati Assosementi e Compag (cioè la rete di aziende produttrici di sementi e quella delle imprese che commerciano prodotti per l’agricoltura), che si aggiungono così ad Aidepi, Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, Confagricoltura, Cia-Agricoltori Italiani, Copagri e Italmopa cioè alle diverse sigle che oltre che gli agricoltori e le coop, riuniscono anche i trasformatori di grano duro. L’insieme delle sigle rappresenta comunque poco meno della metà dell’intero settore pastario nazionale.

Tutti uniti però per arrivare ad ottenere solo pasta italiana fatta con grani duri italiani. E, anche se la strada è ancora piuttosto lunga, qualche passo in questa direzione è stato già fatto. Stando alle ultime rilevazioni, infatti, quest’anno in Italia, ci sono 1,28 milioni di ettari coltivati a grano duro. A fronte di un leggero calo della superficie (-1,8% rispetto all’anno scorso), la produzione attesa è di 4,2 milioni di tonnellate, in linea con i risultati della campagna 2017-2018. Presto ancora per trarre indicazioni sulla qualità, soprattutto per l’andamento climatico.

Così se al Sud le operazioni sono in fase avanzata, al Centro si registrano ancora ritardi sui campi in diverse aree, mentre al Nord le trebbiatrici sono ancora spente. Percorso difficile comunque, quello della pasta tutta nazionale. Anche per questioni climatiche. I tecnici non si nascondono che non è da escludersi «che parte dell’offerta di grano italiano, già penalizzata da una eccessiva polverizzazione, possa rischiare di essere non pienamente adatta alle esigenze qualitative dei mugnai e dei pastai». Inoltre, viene fatto notare, la «mancanza di strutture di stoccaggio adeguate rende finora difficile la valorizzazione e la classificazione della materia prima, che quindi viene ricercata anche sui mercati esteri». Il punto cruciale è proprio quello: le importazioni. Da qui la necessità di fare di più e meglio.

avvenire