Tecnologia. Nissan accende lo stadio con le auto elettriche

da Avvenire

Lo stadio di Amsterdam con le luci alimentate dalle batterie delle autovetture elettriche Nissan

Lo stadio di Amsterdam con le luci alimentate dalle batterie delle autovetture elettriche Nissan

Nasce il sistema di accumulo di energia d’Europa in un edificio commerciale alimentato da batterie provenienti da veicoli elettrici. Il progetto deriva dalla collaborazione tra Nissan, Eaton, BAM, The Mobility House e Johan Cruijff ArenA, con il sostegno dei fondi Amsterdam Climate and Energy Fund (AKEF) e Interreg. Il sistema di accumulo di energia da 3 megawatt offre una fonte energetica efficiente e più affidabile per lo stadio, per i visitatori, per l’area circostante e per la rete energetica olandese.

Tecnicamente, il modulo presentato allo stadio di Amsterdam viene abbinato con 4.200 pannelli solari collocati sul tetto dell’edificio: in questo modo, l’energia prodotta dai pannelli ed accumulata nel sistema di stoccaggio che si avvale degli accumulatori della Leaf, l’auto elettrica più venduta al mondo, sarà in grado di creare un’economia circolare per le batterie una volta esaurito il rispettivo utilizzo a bordo degli autoveicoli.

Combinando unità di conversione d’energia di Eaton e batterie equivalenti di 148 Nissan Leaf, l’impianto consente una gestione più sostenibile dell’energia e inserisce le batterie dei veicoli elettrici in un processo virtuoso. «Attraverso questo sistema di accumulo di energia, la neocostituita Amsterdam Energy ArenA BV sarà in grado sia di utilizzare meglio le proprie fonti rinnovabili sia di scambiare in modo più efficiente l’energia accumulata nelle batterie dei veicoli elettrici – ha dichiarato Henk van Raan, direttore innovazione Johan Cruijff ArenA -. Lo stadio si assicura così una notevole quantità di energia, anche durante i black out. Inoltre, tramite questo sistema, l’impianto calcistico contribuirà a stabilizzare la rete elettrica olandese. La Johan Cruijff ArenA
è uno degli stadi più sostenibili al mondo e apre la strada a innovazioni intelligenti come questo impianto innovativo».

L’impianto dispone di una capacità totale di 3 megawatt e di 2,8 megawattora, in grado di alimentare diverse migliaia di abitazioni e fa sì che l’energia prodotta dai 4.200 pannelli solari installati sul tetto dell’ArenA possa essere immagazzinata e utilizzata in modo ottimale. Il sistema di accumulo di energia fornirà una soluzione di back-up, riducendo l’uso di generatori, offrendo supporto alla rete elettrica e diminuendo i picchi energetici che si verificano durante i concerti.

Citroen. Tra mito e aneddoti: la 2CV compie 70 anni

da Avvenire

Tra mito e aneddoti: la 2CV compie 70 anni

Con un’originale iniziativa organizzata in Toscana dal Centro documentazione di Citroen, la Filiale italiana del Double Chevron ha festeggiato i 70 anni della 2CV. Dodici esemplari dell’iconica vettura transalpina, appartenenti a collezionisti, hanno sfilato tra le colline senesi per confluire a Sinalunga. Qui, hanno catalizzato le attenzioni di curiosi e appassionati del mondo dei motori per l’iconica bicilindrica francese. «La gestazione della 2CV, complice la seconda guerra mondiale, durò più o meno dodici anni», ricorda una nota di Citroen. Nel 1939, infatti, erano già pronti circa 250 prototipi che furono passati in rassegna da Pierre-Jules Boulanger, allora alla direzione del marchio. La storia vuole che Boulager estrasse dalla busta un cappello in paglia, di quelli usati dai contadini, che calzò prima di provare a salire su ciascuno dei prototipi. L’idea di Boulanger era semplice: il contadino,
target commerciale di allora per il modello, non si separa mai dal suo cappello. «Se non può entrare e scendere dalla vettura col cappello in testa, allora vuol dire che l’auto non va bene».

Così iniziò il mito di una macchina che ha fatto epoca e che ha segnato il costume in Francia e in Europa, diventando un
simbolo di libertà e spensieratezza, oltre che una stella del cinema e una protagonista di movimenti culturali. Le dodici auto presenti all’evento celebrativo rappresentavano diversi momenti di questi settant’anni di successi motoristici. L’esemplare più anziano era un modello del 1948, una Tipo A di 495 kg di peso, equipaggiata con un bicilindrico di 375 cc da 9 Cv di potenza massima, capace di raggiungere i 65 km/h di velocità massima. La più recente, prodotta nel 1982, era una rappresentante dell’ultima serie, la 6 Special, con propulsore di 602 cc da 29 Cv, per viaggi in relax garantiti da un’andatura massima di 115 km/h.
Da citare tra le presenti anche tre modelli unici: una 2CV 6 Transat, una 2CV 6 Country e una specialissima 2CV 5 Soleil, quella realizzata su disegno del pittore parigino Serge Gevin.

La storia: una scommessa e tanti aneddoti

Certe vetture destinate a fare la storia nascono spesso come una sorta di ardita scommessa tecnica. Come quella che dovette affrontare André Lefebvre, ingegnere aeronautico con un buon passato da pilota, poi progettista alla Citroën. Grande sostenitrice delle idee originali ed innovative, la Casa del Double Chevron gli aveva affidato una sfida certamente molto stimolante, ma che conteneva anche una serie di problemi dalla soluzione quasi impossibile. La nuova auto che voleva Citroën doveva essere una sorta di “sedia a sdraio sotto un ombrellone”, con quattro ruote, capace di portare due contadini e le loro mercanzie nel massimo della sicurezza e del confort. E fin qui, anche nel 1936, ci si poteva arrivare.

Doveva anche costare poco ed essere riparabile coi ferri con cui si aggiusta il trattore. Già qui c’è qualche difficoltà in più, soprattutto per i costi elevati delle materie prime. Poi il capitolato diventava più difficile da soddisfare, specialmente quando diceva che l’auto doveva consumare non più di quattro litri per cento chilometri, doveva essere facile da guidare e stabile su qualsiasi tipo di strada. Impossibile, sembrava dirsi Lefebvre mentre rileggeva quelle poche righe arrivate dal Presidente e Direttore Generale di Citroën, il pragmatico Pierre-Jules Boulanger. Poggiando i fogli sul tavolo, il giovane ingegnere, che durante la Grande Guerra aveva maturato una buona esperienza nel settore aeronautico, non si perse d’animo e rilesse le parole che aveva fatto scrivere sul muro dietro alla sua scrivania: tutti pensavano fosse impossibile, tranne uno stupido che non lo sapeva e… l’ha fatto.

La soluzione al capitolato impossibile di Boulanger non poteva che essere una nuova auto, una vettura ripensata completamente, partendo da un foglio bianco, come Lefebvre aveva già fatto con la Traction Avant e come farà pochi anni dopo per la DS. Così fu anche per la 2CV (che si chiamava ancora TPV, sigla di Toute Petite Voiture, o vettura piccolissima): nuova sospensione per andare su ogni tipo di strada, e Lefebvre aggiunse per andare anche dove non c’è la strada e un motore ripensato da zero, ispirato a quello delle motociclette ovvero un boxer bicilindrico che per la sua architettura riduceva le vibrazioni anche rispetto ai tradizionali quattro cilindri di piccola cilindrata e consentiva di consumare 4 litri per cento chilometri (ma Lefebvre ritenne possibile scendere a 3 litri per cento chilometri), dall’architettura semplice ottenuta con il raffreddamento ad aria che eliminava la necessità di radiatore, pompa dell’acqua e manicotti… tutti elementi costosi e che potevano anche rompersi.

Infine restava il problema del costo delle materie prime, l’acciaio in particolare: come risolverlo? Alleggerendo la vettura! C’est facile! Quindi via il tetto e il cofano portabagagli, rimpiazzati da una capote in tela, facile da manutenere (e da cambiare), economica e funzionale perché permetteva, oltre che di viaggiare en plein air, anche di caricare oggetti ingombranti come gli attrezzi agricoli, magari asportando il sedile posteriore che diventava una comoda panchina! I primi prototipi della TPV furono realizzati in lega di magnesio, con carrozzeria in duralluminio, una lega aeronautica più resistente e con deformazione al calore ridotta rispetto all’alluminio. Il problema era che il magnesio aveva la brutta tendenza ad incendiarsi come la capocchia di un cerino e dopo un paio di incidenti durante le prove, il telaio tornò alle normali leghe ferrose, restando comunque leggerissimo grazie alla struttura che anticipava quella dei pannelli a nido d’ape.

La guerra fermò solo ufficialmente gli studi sulla TPV, che in realtà proseguirono a livello teorico ed anche pratico (soprattutto sul motore) sulla pista prove della Ferté Vidame, lontano dagli occhi degli occupanti. Alla fine del conflitto, con l’alluminio reso introvabile dalla distruzione provocata dagli eventi bellici, Lefebvre e lo stilista Bertoni ridisegnarono la carrozzeria della TPV, conferendole un aspetto armonioso e simpatico. L’auto rimase leggerissima ed il suo motore di 375cc le permetteva di percorrere i fatidici 100 chilometri con tre litri di benzina; l’eccezionale sospensione a grande flessibilità, complici le ridotte prestazioni velocistiche, le consentiva un’andatura morbida indipendentemente dal fondo stradale; la scocca con il grande tetto in tela che andava dal parabrezza anteriore al paraurti posteriore le permetteva una facilità di carico superiore a quella richiesta dal capitolato impossibile di Boulanger. Era nata la 2CV.

Londra. Giovani in pista alla Eco-Marathon: il futuro è di chi consuma meno

da Avvenire

Giovani in pista alla Eco-Marathon: il futuro è di chi consuma meno

Non vince chi arriva primo, ma chi consuma meno e sa guardare più lontano. La leggerezza, anche delle idee è fondamentale. Infatti Teresia ha 16 anni e pesa 42 chili, ma per stare a bordo di questi veicoli geniali bisogna averne addosso almeno 8 di più: per questo l’hanno zavorrata. Studia all’Istituto Tecnico Leonardo da Vinci di Carpi, non ha nemmeno la patente del motorino ma a Londra fa il pilota, in questa straordinaria gara di talento, competenza, passione e visione del futuro.
Sono tanti, giovani, “malati” di motori, aerodinamica, strategia, meccanica. I loro progetti sono siluri avveniristici come i loro nomi, ad esempio il “Molecules going hybrid” del Politecnico di Torino che l’anno scorso ha fatto correre un prototipo ad idrogeno in grado di percorrere l’equivalente di 2467 km/litro. A Londra ha portato anche un veicolo a bioetanolo di seconda generazione in grado di percorrere fino a 146 km con un litro, pensato però per essere uguale a un veicolo omologabile. Oggi costa 200 mila euro di materiali e tanto lavoro, ma la sperimentazione e lo sviluppo di piccole imprese come queste rappresentano il futuro di tanti giovani e di chiunque sogni una mobilità meno inquinante.
Per questo da 34 anni Shell ha creato una vera e propria competizione, la Shell Eco-Marathon, che ha due obiettivi ben precisi: dare spazio dopo una rigorosa selezione ai migliori aspiranti ingegneri e studenti di tutto il mondo per suggerire un futuro alternativo all’industria dell’automobile, ma anche trovare soluzioni che possano permettere alle vetture di tutti i giorni di consumare meno e dunque di inquinare il meno possibile.

Il principio è ideare e realizzare veicoli adatti a percorrere quanta più distanza possibile con la minor quantità di carburante ed emissioni. Le squadre partecipanti (a Londra ci sono 150 team in rappresentanza di 24 Paesi) possono realizzare prototipi futuristici, ma anche Urban Concept, costruiti secondo i criteri convenzionali dei veicoli da strada.
Questi veicoli possono essere alimentati anche tramite carburanti tradizionali. Per giudicare equamente i diversi tipi di energia impiegata, la giuria prima della partenza riempie il serbatoio del veicolo e, compiuti 8 giri del percorso cittadino, lungo 2,24 Km con una velocità media di 25 km/h (in un tempo massimo di 35 minuti con pit stop ad ogni giro per simulare i semafori delle città), rapporta il carburante rimasto per stabilire il vincitore. Il totale dell’energia consumata è poi calcolata ed espressa in termini dell’equivalente in chilometri/litro. Il record assoluto ottenuto da uno di questi prototipi è strabiliante: 4.896 chilometri con l’equivalente di 1 litro di carburante siglato dal team francese del Politecnico di Nantes nel 2010.

Quest’anno i team si sono confrontati nell’ambito del festival “Make the Future Live”, una sorta di rassegna universale della sostenibilità, davanti a 25 mila persone al Queen Elizabeth Olympic Park di Londra. Per l’Italia hanno partecipato sei team, appartenenti a due Università e a due Scuole superiori del nostro Paese. Il team dell’Istituto Tecnico Industriale Leonardo da Vinci di Carpi (Modena) si chiama ZeroC, è composto da studenti di meccanica e neo-universitari che hanno messo in pista l’evoluzione del prototipo completamente elettrico con cui hanno vinto la passata edizione della gara: in fibra di carbonio, pesa 29 kg e può percorrere 754 km con un Kw/h di energia, quasi ovvero la distanza che separa Milano da Napoli.

«Il progetto – spiega Gianmario Scalabrini, team manager della squadra – è costato 16 mila euro, ma soprattutto tanto tempo e tantissima passione. Siamo un gruppo di 22 persone, qui dormiamo in campeggio a 4 km dalla pista per risparmiare e durante l’anno quando non studiamo, occupiamo ore e ore per progettare e mettere su strada il nostro veicolo. Una gran fatica, ma ne vale la pena».
Nella visione di Shell che la organizza investendo grandi energie e con una forte esposizione economica, questa competizione può fornire a lungo termine non solo ingegneri di assoluto valore per le Case automobilistiche, ma anche soluzioni che potrebbero essere sviluppate per tamponare la futura messa al bando del diesel facendo divenire convenienti anche carburanti a oggi meno economici e che garantiscono un minore chilometraggio.

«Non è un controsenso che una multinazionale che produce oli combustibili e carburanti tradizionali incoraggi soluzioni alternative e si occupi di sostenibilità – spiega Valeria Contino, responsabile delle relazioni esterne di Shell Italia -. Da sempre le attività di Shell si ispirano a valori guida quali la sostenibilità energetica, la tutela dell’ambiente e lo sviluppo tecnologico, grandi temi che sono la base delle più importanti sfide energetiche globali. La Eco-Marathon è un esempio concreto di come l’azienda si stia muovendo verso un futuro improntato su una mobilità sostenibile, promuovendo l’importanza delle conoscenze scientifiche e matematiche al fine di incoraggiare le prossime generazioni di ingegneri e scienziati a creare soluzioni innovative per la mobilità del domani».
Ha 22 anni e studia ingegneria aerospaziale infatti Danilo Caterino, capo del team H2politO del Politecnico di Torino che l’anno scorso ha conquistato il secondo posto della categoria Prototipi alimentati a idrogeno con il veicolo “IDRAkronos”, composto da una monoscocca autoportante in fibra di carbonio e alimentato da una Fuel-cell a idrogeno da 500 W e da un motore elettrico brushed ad alta efficienza da soli 200 W. Nello specifico, il prototipo ha registrato un consumo di 831 km/mc di idrogeno in condizioni normali, che corrisponde a circa 2.467 km con un litro di benzina, riuscendo a percorrere più della distanza che separa Roma da Kiev.

«Il nostro veicolo – racconta Danilo – pesa 39 kg e può fare 30 km all’ora di velocità. Ci abbiamo lavorato sopra per 6 mesi in 60 ragazzi. I costi? Alti, circa 90 mila euro, ma per fortuna oltre al Politecnico di Torino ci supportano una trentina di sponsor, altrimenti non saremmo qui. Lo scopo? Dimostrare che esiste un futuro diverso. Questo è solo un prototipo certo, e può al massimo viaggiare a 30 km all’ora ma è la riprova che l’ingegneria può dare risposte a zero emissioni con percorrenze strabilianti».
Un progetto controcorrente è quello dell’Istituto Tecnico Professionale Bucci di Faenza, il veterano della manifestazione essendo stato il primo molto tempo fa a riuscire a qualificarsi con un suo veicolo alla Shell Eco-Marathon. A Londra infatti ha gareggiato nella categoria prototipi con un veicolo a batteria elettrica interamente in fibra di carbonio ma tra gli Urban Concept ha portato “Nova-Student”, un mezzo alimentato a gasolio che ha concluso la gara al terzo posto assoluto della categoria con un consumo di 226 km con un litro.

Luigi Mengozzi, 19 anni, il più anziano del team dei dieci sedicenni di Faenza che hanno portato il veicolo a Londra e prossimo all’iscrizione a ingegneria meccanica, spiega che non si tratta di una provocazione, ma di una scelta precisa: «Anche se lo sviluppo porterà inevitabilmente questo veicolo il prossimo anno a trasformarsi in elettrico, la scelta del gasolio resta ancora più che sostenibile malgrado le polemiche che lo stanno investendo. Puntando sulla scocca completamente in carbonio, il design e l’aerodinamica per tenere bassi i pesi, si può progettare una vettura diesel a bassissimo impatto ambientale e ad altissimo rendimento». Questo progetto dell’Istituto Bucci è costato 40 mila euro e il lavoro appassionato di un anno di 30 ragazzi. Entusiasmo, fatica, sogni, grandi cervelli in erba. Il futuro, per fortuna, è una strada che viaggia con loro.

Storie di cuoio. La biblioteca di Bearzot agli studenti della Cattolica

da Avvenire

Il ct della Nazionale Enzo Bearzot (1927-2010)

Il ct della Nazionale Enzo Bearzot (1927-2010)

Fissi gli occhi melanconici, paterni, del ct uruguayano Oscar Washington Tabarez e rivedi la stessa figura serafica e protettiva del nostro indimenticabile Enzo Bearzot. Sono trascorsi quasi otto anni dall’ultima nuvola di fumo uscita dalla pipa del Vecio che è volato via poco prima del Natale 2010. Alla fine di un anno, anche quello da disfatta mondiale, in Sudafrica: gli azzurri di Marcello Lippi eliminati al girone, fuori da campioni del mondo in carica. Un dolore provato anche da Bearzot nel 1986 in Messico, quando la sua Italia, in gran parte composta dal gruppo vittorioso al Mundial di Spagna ’82, si inchinava alla Francia di Platini. Pagine amare che Bearzot ricordava mentalmente, in silenzio, nella sua casa milanese, prima in via Washington e poi in Porta Romana, preferendo invece rileggere quelle dei libri come I canti ultimi del suo caro amico friulano, la sua guida cristiana, padre Davide Maria Turoldo. Due furlani, di Aiello Enzo, di Coderno padre Turoldo, vite di uomini giusti che si incrociarono davanti a un fogolàr di una frasca riparata dal vento di follia. La fola impazzita dell’intronata routine del pallone, specie quello dei giorni nostri, che Bearzot ammoniva: «A causa dell’ingresso di grandi sponsor sulla scena del calcio, sembra che il denaro abbia spostato i pali delle porte». Confessioni proseguite nella seconda vita metropolitana con l’altrettanto fraterno don Luigi della chiesa del Paradiso di Milano. Una vita quella del Ct tutta casa, chiesa e panchina. Ma poi non era tutta lì l’esistenza profonda e riflessiva del Vecio.

A ribattezzarlo così era stato il bracconiere di storie, anche di cuoio, l’amico e sodale Giovanni Arpino nel suoAzzurro tenebra, quando Bearzot, non ancora cinquantenne, era il vice del Ct Ferruccio Valcareggi nella sfortu- nata spedizione mondiale di Germania ’74. «Ah Arpino, uno dei responsabili nell’aver portato il calcio in prima pagina!», sbuffava ridendo con la pipa in bocca il buon Enzo quando gli si parlava del calcio come della disciplina sacra, intoccabile, unico vero dogma nazionale. Ma la fede per lui non era neppure quella per l’amato Torino – in cui aveva giocato – e la chiesa non fu mai lo stadio, come continua ad essere per molti suoi illustri colleghi del passato e del presente. «Ciò che ha amato di più era sicuramente la famiglia. Quando tornava dai ritiri e magari io e mio fratello eravamo già a letto veniva a svegliarci, si metteva dietro la porta e iniziava a giocare con noi per farci ridere. “La casa – ripeteva papà – dovrebbe essere un recinto pieno di bambini”». Così Cinzia Bearzot, la figlia dell’intramontabile Ct ricorda suo padre. E alla «memoria» ora ha deciso di donare al suo Ateneo (la professoressa Bearzot è ordinario di Storia greca all’Università Cattolica di Milano) parte della ricca biblioteca del Vecio. «È un dono che viene dal cuore perché i giovani possano avvicinarsi alla figura di uomo e di sportivo di mio padre, un selezionatore che ha cresciuto generazioni di giocatori ai quali ha cercato di trasmettere anche la passione per la cultura».

Che non si vive di solo calcio fu la sua lezione, recepita soprattutto dagli azzurri dioscuri silenti, Zoff e Scirea: «Silenziosi quanto lui, e non a caso aveva scelto Zoff come portavoce della Nazionale », dice sorridendo la prof. Bearzot. «Mio padre era un uomo dotato del dono dell’ironia. Non si sentiva un intellettuale, ma aveva solide basi culturali che gli avevano dato i salesiani al Collegio San Luigi di Gorizia». Quel diploma di maturità Classica all’epoca valeva quanto una laurea. «Del resto l’unico calciatore laureato dei suoi tempi era Fulvio Bernardini, dottore in Economia alla Bocconi». Il “dottor” Fuffo, un altro che, come Bearzot, quando non era alle prese con strategie di campo si rifugiava nel pensatoio domestico. Bearzot nello studio di casa passava le ore a leggere romanzi, libri di storia dell’arte e ad ascoltare la sua musica dell’anima, il jazz. I dischi non sono contemplati nella sala “Giuseppe Billanovich” – intitolata a un emerito filologo della Cattolica – ma qui hanno trovato nuova dimora una montagna di libri. «Almeno cinquecento sono cataloghi d’arte autografati e con dediche personalizzate», spiega illustrando i preziosi cimeli Paolo Senna, responsabile degli archivi e dei fondi culturali dell’Ateneo milanese. Ci sono anche disegni d’autore autografati. “L’albero”, del raffinato pittore modenese Carlo Mattioli, che finisce dentro una porta con un pallone, datato 26 novembre 1984. Anno degli Europei di Francia, ancora una volta una campagna da azzurro tenebra, con Platini protagonista assoluto che alzò la Coppa al cielo di Parigi. Città cara nelle letture del Ct, omaggiato anche da Aligi Sassu: l’autore noto per i suoi “Uomini rossi” che a Bearzot donò il “calciatore e il portiere”. «Sassu era un grande amico di papà con il quale si incontravano spesso al Teatro Nazionale dove trovavano il comune sodale, il direttore del Teatro Giordano Rota. Con Arpino c’era una grande affinità elettiva, anche dal punto di vista letterario».

La “biblioteca Bearzot”, pur rispettando sempre il «vivere parvo», massima del suo autore latino di riferimento, Orazio, è ricolma di capolavori della letteratura americana. «Per mio padre e per la sua generazione, era stata una scoperta incredibile la lettura delle opere di Steinbeck, Hemingway, Caldwell… Era una cosa di cui avevamo parlato spesso, considerava quasi un privilegio quelle traduzioni di Pavese e Vittorini che all’improvviso avevano permesso ai giovani italiani di abbandonare il romanzo ottocentesco per tuffarsi nella letteratura del nuovo mondo». Dall’America e dal Canada sono arrivate anche le lettere dai tifosi, «tale Rino Argento dal Los Angeles spedisce una missiva con tanto di foto con Bearzot… Dalla Italian Canadian Benevolent Corporation Culumbus Centre di Toronto, inviano i complimenti al Ct per la vittoria del Mundial grazie alla quale scrivono commossi i connazionali: “è la fiamma di amore che ci sostiene lontani dall’Italia nostra” », spiega Paolo Senna. Bearzot era criticato dai mediocri, dalle «belle gioie» arpiniane che affollavano e affollano ancora la tribuna stampa, ma era assai più amato dalla gente comune, e dalla maggioranza del popolo degli stadi. Anche se il calcio, specie negli ultimi tempi, lo seguiva distrattamente, preferendo perdersi – fino all’ultimo – nella lettura. Alla storia di cuoio, anteponeva la “Storia dei Longobardi” di Paolo Diacono. «Il calcio lo guardo meno, lo sento più estraneo – disse Bearzot in una delle ultime interviste – . Calciopoli ha prodotto danni profondi, quasi quasi non si crede più al verdetto del campo, è come se qualcosa mi si fosse spento dentro. Riesco ancora a indignarmi, questo sì. Per i fischi di San Siro alla Marsigliese, così come nel ’90 a Roma mi ero indignato per i fischi all’inno argentino, con Maradona in campo che piangeva. E fischiavano i politici, in tribuna d’onore, gente che aveva studiato. Che vergogna».

Vergognosi furono anche gli attacchi reiterati nei suoi confronti e uno dei massimi difensori della prima ora fu Indro Montanelli, che in calce al frontespizio del libro Gli incontri (Rizzoli) scrive la dedica: «Al grande Bearzot il piccolo Montanelli». Uno scambio tra maestri, cresciuti con nel culto della coerenza e della grande attenzione verso l’animo umano. Il Mondiale più umano, specie per noi che l’abbiamo vissuto, rimarrà per sempre quello dell’82. «Dove ero la sera della finale di Madrid? A casa con mio marito. Una gioia immensa vedere mio padre sollevato dai suoi ragazzi e stringere tra le mani la Coppa del Mondo. Ricordo che piansi e risi di gioia, poi presi delle pentole e cominciai a sbatterle forte… – sorride al ricordo Cinzia Bearzot – Il giorno dopo andai a comprare due stampe antiche raffiguranti il mondo. Papà le mise nel suo studio, e se le guardava mentre continuava a leggere questi suoi amati libri».

Parigi. Monet e l’arte astratta americana

Claude Monet, “Ninfee” 1920-1926

da Avvenire

Claude Monet, “Ninfee” 1920-1926

A quattordici o quindici anni Claude Monet si guadagnava da vivere come caricaturista e aveva la ferma convinzione di diventare artista. Il padre era disperato per quel figlio che non ne voleva sapere di seguire le vie ordinarie dalla società borghese. Lo racconta lo stesso Monet ormai avanti negli anni in un breve entretien con Thiébault-Sisson, che apparve il 27 novembre 1900 su “Le Temps”: «Non ho mai potuto, nemmeno nella più piccola infanzia, piegarmi a una regola. È da me stesso che ho appreso il poco che so». Si è fatto da solo, come si dice in questi casi. Anche come pittore. Il suo apprendistato con Boudin a Le Havre dura infatti appena sei mesi e poi – come ha scritto Denis Rouart parlando delle Ninfee – decide di trasferirsi a Parigi, dove può raffinare il suo talento sorgivo. Diventerà l’occhio di Dio in terra, colui che vede fin dove non è concesso ai comuni mortali. Un prodigio della natura dirà un altro della sua razza, Picasso. In visita alla mostra di Corot al Museo Marmottan, luogo deputato di Monet e delle tele che dipinse a Giverny, dopo aver rivisto alcuni suoi capolavori che hanno per tema quel giardino e le Ninfee, medito di andare all’Orangerie dove hanno allestito la mostra “L’abstraction américaine et le dernier Monet”.

L’occasione è data dal centenario della grande decorazione delle Nymphéas che occupa le due sale ellittiche dell’Orangerie. Davanti a un video che mostra Monet nel giardino di Giverny mentre lavora a un quadro di Ninfee, mi incanto a osservare lui che gira continuamente la testa verso il giardino e subito la rigira e deposita sulla tela un tocco di colore. È un movimento rapido, quasi rapsodico, come se prendesse appunti dalla natura; oppure è la verifica tocco su tocco che il colore incarni sulla tela un brano della natura che egli ha sposato chiudendosi in quel luogo lussureggiante. Ma è invece il movimento della sua immaginazione che tiene per così dire il punto, discendendo a una ta- le profondità che la superficie del quadro non corrisponde più a una immagine dal vero ma al suo superamento sul piano della contemplazione. E quando vediamo queste opere dell’ultimo decennio che si sciolgono in composizioni sempre più informali viene da chiedersi quanto Monet volesse giocare sul linguaggio pittorico, ovvero cercasse di ricreare una natura sempre più panica, ineffabile, fermentata in un coacervo di segni, filamenti, grovigli che ci danno sempre e invariabilmente la sensazione di essere dentro un pezzo di paesaggio che ha per noi, ma ancor prima per Monet, la consistenza di un grembo primigenio nel quale si torna per curarsi dalle mille ferite e distorsioni che il mondo ci infligge.

È forse eccessivo farne una regola, e allora prendiamola soltanto come intuizione: le svolte della pittura in Monet e con Monet cadono quasi sempre nei dintorni di una guerra. Quella del Settanta, dove la Francia perse con la Prussia e fu costretta a cedere Alsazia e Lorena; la Grande Guerra, riscatto dei francesi verso i tedeschi, ma anche vero maelström che, come disse all’epoca il filosofo Henri Bergson, cambiò la scala dei valori delle cose che contano; e la Seconda guerra mondiale, dove avviene la consacrazione internazionale dell’artista. A tutte e tre Monet non partecipò: nell’intervista con Thiébault-Sisson disse che si era appena sposato quando scoppiò la guerra del 1870 e non aveva nessuna voglia di farsi ammazzare, quindi espatriò a Londra e, come recita il luogo comune, scoprì una delle verità dell’impressionismo: anche le ombre sono colorate e cambiano sotto i riflessi del cielo e delle cose. La scoperta avvenne osservando i paesaggi innevati (ma l’aveva già notato Courbet dieci anni prima e lo scrisse in una delle sue lettere). Monet mancò anche la guerra del 1915-1918, perché ormai era troppo vecchio per combattere, e alla fine per celebrare la vittoria della Francia donò allo Stato due opere del ciclo dei salici piangenti e delle ninfee. Mancò, ovviamente, anche la Seconda guerra mondiale perché era già morto e qui il suo nome tiene banco per la riscoperta che la critica americana ne fece dopo il 1945. L’ultimo periodo pittorico incentrato sulle Ninfee sembra infatti anticipare di due decenni l’informale post bellico.

La mostra che è in corso all’Orangerie di Parigi indaga quest’ultimo passaggio. “Una storia franco-americana”, come recita il titolo della presentazione in catalogo di Laurence des Cars e Cécile Debray. Fatto curioso, questo destino internazionale è lo stesso che l’America garantirà dalla metà degli anni Cinquanta a un altro francese, Marcel Duchamp, a lungo misconosciuto in Francia, almeno fino alla grande mostra del 1977. Monet, dopo la morte, avrà una fase ventennale di oblio, identificato con lo spontaneismo impressionista che, scrivono i due curatori, contrasta col ritorno all’ordine dei realismi ideologici e con l’astrazione geometrica e costruttivista. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si manifesti un peccato di razionalismo, argomento tipico dei francesi. Sarà l’interesse della pittura americana per l’ultimo Monet, grazie anche all’opera di promozione nel mondo condotta dalla gallerista parigina Katia Granoff, a riaprire il discorso vedendo nel pittore francese il precursore dell’informale, che in Europa ha una forte valenza esistenziale e nichilista, mentre oltre Oceano Monet viene esaltato per l’analogia – colta da William Seitz nel 1955 – col panteismo naturalista di Emerson e Thoreau. Clement Greenberg aveva in un primo momento rilanciato per Monet la critica di Cezanne agli impressionisti, ovvero la mancanza di “struttura tridimensionale”.

Ma il giudizio cambia quando afferra tutta la novità prodotta dal crogiolo pittorico di Giverny: «Come Debussy presenta spesso la semplice texture del suono come forma forma della musica, così l’ultimo Monet offre la semplice texture del colore come forma adeguata della pittura ». Così nel 1954 Greenberg pone Monet di fronte a Clifford Still e Barnett Newman; e alle ninfee guarda anche la linea dell’“impressionismo astratto’” di Philip Guston, Sam Francis, Riopelle. Sarà Leo Steinberg nel 1956 a dettare il confine della piena consacrazione di Monet in America scrivendo che è «più vicino a Mondrian che a Corot». Un bel salto mentale, non c’è che dire. L’anno dopo Greenberg concluse che «le ninfee di Monet ci ricordano che i nostri canoni di eccellenza sono provvisori ». Da Guston a Tobey, da Rothko a Pollock, da Joan Mitchell a De Kooning, la mostra dell’Orangerie celebra una idea che ormai è entrata da decenni nei pensieri comuni della critica: Monet precursore dell’informale e dell’espressionismo astratto americano, antico maestro europeo di una pittura che vuole ritessere il legame originario con la cultura di cui si sente una continuazione e variazione. Questa mostra non sarà un modo per ipervalorizzare Monet (che è un genio indiscusso del suo tempo), una debolezza tipica dei francesi quando arrivano in ritardo, oppure è la visione acritica di un fenomeno che, dopo aver ristabilito l’assetto delle cose, andrebbe rivisto criticamente?

Penso che Monet abbia battuto negli ultimi dieci anni di vita una strada solitaria, nuova, ma anche molto personale, che non aveva come prima intenzione una rivoluzione del linguaggio ma una risposta al limite esistenziale cui la sua pittura poteva tendere e Greenberg, quando era ancora critico verso Monet, lo intuì chiaramente e scrisse che egli aveva «l’ambizione di notare, registrare e rendere permanenti gli aspetti più transitori della natura», ambizione, dice, extraestetica «che ha a che fare più con la scienza che con la pittura». Ma sbaglia mira: quel “minimalismo” praticato attraverso la materialità del colore, punto per punto, che si comprende vedendo il breve film di Monet mentre dipinge a Giverny, è la sua confessione di aver raggiunto il “momento giapponese” dove pittura e natura sono u cosmo solo. E dunque l’unica scienza che si manifesta è quella sapienziale che reintegra l’uomo nel dinamismo vitale dell’universo. Ma questo è assai meno americano e più nell’ordine spirituale dell’Oriente.

Parigi, Orangerie
L’ABSTRACTION AMÉRICAINE ET LE DERNIER MONET
Fino al 20 agosto

Cinema. A «Skampia» abita anche la speranza

da Avvenire

Vincenzo Sacchettino nel documentario di Andrea Rosario Fusco, “Skampia”, fra le Vele del quartiere napoletano

Vincenzo Sacchettino nel documentario di Andrea Rosario Fusco, “Skampia”, fra le Vele del quartiere napoletano

Sotto le Vele di Scampia sfreccia un ventenne in motorino senza casco. Un altro ragazzo in moto lo affianca. «Ma state girando Gomorra? », chiede. «No, è un documentario » risponde Enzo, che tutti nel quartiere conoscono come il Danielino di Gomorra, il ragazzino che nella prima serie della fiction scritta da Roberto Saviano e prodotta da Sky finiva ucciso in un agguato di camorra. Un ruolo che aveva cambiato la vita, almeno per un po’, all’allora 14enne Vincenzo Sacchettino, che a ridosso delle Vele ci viveva, accudito dalla nonna e un fratello, mentre padre, madre e fratello maggiore erano in galera a scontare lunghe pene. Scelto dai produttori tra i ragazzi di Scampia per girare la fiction, per inseguire il suo sogno di diventare attore il ragazzino aveva abbandonato la scuola senza terminare le medie. La fama durò un soffio e appena spenti i riflettori, Enzo si ritrovò di nuovo a vivere di espedienti rendendosi protagonista nel 2014 con altri amici di una aggressione al coltello. Di lì, carcere minorile e quattro anni passati in vari centri educativi . Oggi Enzo lo ritroviamo protagonista di un avvincente documentario, Skampia di Andrea Rosario Fusco, presentato in anteprima alla XVI edizione dell’Ischia Film Festival (che si conclude oggi) all’interno dell’ex carcere Borbonico del Castello Aragonese, in gara nella sezione “Scenari campani”.

Enzo accompagna il regista Fusco, come una sorta di Virgilio, nei gironi infernali delle Vele, a incontrare e intervistare chi in quei condomini fatiscenti, che prossimamente verranno abbattuti, vive, anche abusivamente, magari dopo essere uscito da un altro inferno, quello del carcere. «La mia intenzione era proprio quella di mostrare che non esiste solo Gomorra. Scampia la conoscono tutti, ma il problema è che ha sempre la stessa luce puntata, si usano sempre gli stessi colori», ci racconta il regista Fusco, giornalista che ha lavorato come assistente alle Iene, già regista del documentario L’odore dell’inferno, girato in un carcere di massima di sicurezza in Perù. «Volevo raccontare – prosegue – quello che non è mai stato raccontato, l’umanità di certe persone. Noi entriamo lì senza sceneggiatura, seguendo un ragazzo di vent’anni che ci fa entrare a casa, che fra ori e stucchi sembra quella dei boss di Gomorra, ci mostra la sua vita e la sua famiglia e ci porta all’interno delle Vele al momento in cui le voglio abbattere. Volevo raccontare le sofferenze di queste persone inquadrate non solo dal punto di vista di una pistola, degli inseguimenti, della droga. Dietro ci sono degli esseri umani che hanno delle storie che non vengono raccontate e a volte nemmeno ascoltate».

Tutta un’altra immagine rispetto al brivido noir del cinema. «Fa comodo che quel territorio venga catalogato in un certo modo. Il mio Skampia dimostra che non c’è niente di bello o eroico, come viene mostrato nelle fiction, nel vivere nell’illegalità». Il regista, che si gira in quartieri off limits grazie alla fiducia acquisita negli anni, lo sa bene. «Io sono nato nel quartiere di Boscoreale, mi padre era operaio emigrato al Nord, mia madre casalinga. Una famiglia onesta in un contesto difficile in cui ho imparato a muovermi. A dieci anni ho subito la prima rapina, a 11 già sapevo come non farmi rapinare». Skampia nasce dapprima sul web, in 5 puntate che hanno raggiunto le 700mila visualizzazioni e che ora sono state assemblate per la prima volta in un documentario di 75 minuti, con altro materiale inedito. «Ho scelto il web per farla arrivare a più gente possibile. Internet mi ha dato la libertà di raccontare la verità fino in fondo, cosa che la tv non ti permette. Quando ho presentato alle varie reti Skampiami è stato risposto che non lo avrebbero trasmesso perché dava voce a dei parassiti. Ma io voglio mostrare solo la realtà, senza pietismi o giustificazioni».

Così insieme al giovane Enzo, percorrendo le scale piene di spazzatura fra i calcinacci cadenti delle Vele, incontriamo Antonietta, che dopo 10 anni di galera per associazione a delinquere senza aver potuto crescere i molti figli, affidati ai servizi sociali, e senza avere diritto a una casa, cerca di campare come può con nuora e nipotino occupando un locale fatiscente e vendendo caffettiere artigianali fatte a mano, «perché in carcere ho imparato a fare tante cose belle grazie ai corsi». Enzo, intanto, ci racconta le sue disillusioni dopo aver giratoGomorra, e la difficoltà di uscire dalla mentalità diffusa fra i giovanissimi del quartiere, disposti a tutti pur di sfoggiare ricchezza e forza: «Se sei cresciuto qui conosci solo questo». I suoi fratelli lo hanno capito e sono riusciti a cambiare strada, uno lavora come benzinaio, l’altro in una fabbrica di caffè: «Mi sono perso tutta l’infanzia della mia prima figlia mentre scontavo cinque anni di prigione per spaccio. Ora lavoro e sono più sereno, guadagno meno ma ho in mano più soldi di prima quando li guadagnavo illegalmente e li buttavo» racconta il fratello maggiore abbracciando i suoi due bambini, che oggi sono tre. La speranza c’è, in questo documentario. Nel sorriso di Enzo che ci accompagna felice e pieno di nostalgia nelle stanze del Centro Educativo Cedro dei Padri Rogazionisti di Napoli dove è stato sereno e ha ritrovato un equilibrio, come raccontano gli educatori. Oggi Danielino non c’è più: c’è, invece, un ragazzo che si è sposato e che lavora nella fabbrica del caffè insieme al fratello. «Quello che mi ha colpito è che loro non hanno mai perso la speranza» conclude Fusco, che già sta pensando al sequel di Skampia.

Lui fa parte di una generazione di registi campani in ascesa, come dimostra l’Ischia Film Festival in cui figura anche il bel documentario Je so’ pazz di Andrea Canova, che racconta la storia dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Sant’Eframo Nuovo, a Napoli, attraverso il diario e le poesie di un ex detenuto, Michele Faragna. «C’è un forte fermento culturale nella regione – raccontano i direttori artistici del festival Michelangelo Messina e Boris Sollazzo –. Da parte dei giovani filmakers c’è la voglia di raccontare grandi storie attraverso personaggi comuni ». Ma abbiamo anche fortemente voluto la sezione “Location negata”, dove le opere in concorso mostrano luoghi che nessuno conosce, dove spesso i diritti umani vengono negati, che siano le guerre civili in Burkina Faso, i bambini soldato del Nepal, le ragazze rapite da Boko Haram o Scampia».

Giovani / Sinodo. Il cammino sui passi di don Lorenzo Milani

da Avvenire

Papa Francesco ha invitato i giovani italiani a mettersi in cammino da Nord a Sud per andare a incontrarlo a Roma il prossimo 11 agosto al Circo Massimo per una Veglia di preghiera. I giovani fiorentini in particolare attraverseranno le vie del Mugello, calpestando le impronte dei santi e dei testimoni della fede loro conterranei, quali San Cresci, San Zanobi, Santa Verdiana, il «sacerdote educatore» don Lorenzo Milani, il «sindaco santo»Giorgio La Pira e Fioretta Mazzei.

Ecco il video con cui l’arcidiocesi di Firenze propone ai giovani nell’estate 2018 un cammino a piedi da Firenzuola a Castelfiorentino, prima di incontrarsi con tutti i giovani toscani a Pistoia e di convergere a Roma, dove papa Francesco incontrerà i giovani italiani l’11 e 12 agosto per ascoltarli e pregare con loro in vista del prossimo Sinodo dei vescovi sui giovani.

LE TAPPE

2-3 agosto – Firenzuola (Sant’Agata)

Firenzuola

Firenzuola

4 agosto – Scarperia (Borgo San Lorenzo) – San Cresci

Scarperia

Scarperia

5 agosto – Vicchio (Barbiana) – Molin del Piano

La scuola di don Milani a Barbiana

La scuola di don Milani a Barbiana

6 agosto – Molin del Piano – Firenze

Firenze

Firenze

 

7 agosto – Firenze – Impruneta

Impruneta

Impruneta

8 agosto – Impruneta – Montespertoli (Certaldo)

Certaldo

Certaldo

9 agosto – Montespertoli – Castelfiorentino

Castelfiorentino

Castelfiorentino

10 agosto – Castelfiorentino – Pistoia

Pistoia

Pistoia

11 agosto – Pistoia – Roma

Per tutte le tappe, Chiese e Comuni locali hanno dato la loro disponibilità per accogliere, anche con vitto e alloggio, i ragazzi: «Il desiderio è quello di incontrare le persone delle varie comunità – spiega don Renato Barbieri, responsabile della pastorale giovanile della diocesi – per avere uno scambio e pregare con loro».
La maggior parte dell’itinerario si svolgerà su stradine sterrate, attraverserà i boschi del territorio e sarà caratterizzato da una grande bellezza panoramica. Il 2 agosto i pellegrini si ritroveranno a Firenzuola, per poi muovere il giorno seguente i primi passi su una delle antiche vie romee, quella che transita per il passo della scomparsa Osteria Bruciata, via di commercio dell’appennino tosco-emiliano, percorsa in passato dai pellegrini che intendevano recarsi verso le tre mete delle peregrinationes maiores: Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela.

Nel corso delle prime due tappe, nella zona di Scarperia, si toccheranno anche alcune pievi mugellane – la Pieve di Sant’Agata, uno dei fulcri medievali per l’organizzazione religiosa e sociale, e la Pieve di Santa Maria a Fagna, che celebra il suo millenario quest’anno – e arrivati a Vicchio i giovani ascolteranno una testimonianza su don Milani, sulla cui tomba a Barbiana avranno modo di pregare durante la tappa successiva.

La sosta più lunga per i giovani sarà a Firenze, dove ci sarà il tempo per incontrare persone che raccontino loro le storie dei testimoni della fede loro conterranei: la Bettina, Santa Maria Maddalena dei Pazzi e Giorgio La Pira; e con realtà di servizio.
Come disse papa Francesco ai giovani di Manila nel 2015: «Imparate a piangere. Al mondo di oggi manca la capacità di piangere. Certe realtà della vita si vedono solo con gli occhi resi limpidi dalle lacrime». Seguendo questo invito ad alzare lo sguardo su un’umanità ferita «i giovani pellegrini – spiega don Daniele Centorbi dello staff organizzativo del cammino diocesano – saranno divisi in piccoli gruppi, ognuno dei quali vivrà un’esperienza di prossimità. Le attività confermate per ora sono con l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, la Caritas, il Cottolengo, l’associazione Maria Cristina Ogier e il servizio di distribuzione dei pasti ai senza fissa dimora con i volontari del Preziosissimo Sangue e dell’Ascensione, parrocchie che svolgono questo servizio tutto l’anno presso la stazione di Campo di Marte».
Il pomeriggio del 7 agosto i pellegrini si rimetteranno in cammino verso i territori del Chianti fiorentino e alSantuario mariano dell’Impruneta vivranno un atto di affidamento a Maria. L’ultimo tratto di strada li condurrà da Montespertoli, passando per Certaldo, fino alla meta del cammino diocesano, il santuario di Santa Verdiana a Castelfiorentino.
«Durante questa tappa – racconta don Renato – conosceremo due donne la cui storia di santità è stata segnata dalla scelta della clausura: la beata Giulia e Santa Verdiana».

Da Castelfiorentino il 10 agosto è in programma il trasferimento con i mezzi alla volta di Pistoia – città custode delle reliquie di San Giacomo – per la Festa dei Giovani della Toscana. Organizzata da un’equipe regionale, il programma prevede: la celebrazione della Santa Messa, insieme con i pellegrini della diocesi di Vicenza; nel pomeriggio un percorso jacopeo; la sera il concerto in piazza del gruppo rock cristiano i Reale.

IL VIDEO di una delle canzoni dei Reale

FONTI:

La pagina Facebook del Centro diocesano Pastorale Giovanile di Firenze

La pagina dedicata ai cammini della regione Toscana

Per avere altre informazioni si può inviare una mail a giovani@diocesifirenze.it o telefonare allo 055 2763 724.

Trasformiamo i giovani da oggetti a risorse Il nuovo contributo per la rubrica #Vistodaimillennial

Foto d'archivio © ANSA

ansa

Ci viene insegnato che se ti impegni i tuoi sforzi vengono ricompensati. La scuola dovrebbe essere il primo luogo in cui riscontrare tale equazione. E invece si scopre che il sistema scolastico non premia lo studio, ma la tua capacità di adattamento al mondo del lavoro.

L’obiettivo della scuola non è più quello di formare gli studenti, ma di trasformarli in oggetti di consumo. Consumo per chi? Per lo stesso mondo del lavoro per il quale dovrebbe dotarti degli strumenti necessari per affrontarlo in maniera consapevole. Sì perché ormai viviamo in una società dove il lavoro non è più un diritto, ma solo un dovere e neanche giustamente retribuito.

Purtroppo pochi sanno che ciò verso cui la scuola spinge non è il futuro, ma la schiavitù. Il concetto è: all’università puoi anche andare, ma il lavoro non lo trovi lo stesso, quindi prendi quello che ti viene offerto, sapendo che se rifiuti, ce ne sono altri dieci come te pronti a prendere il tuo posto.

Da qui però hanno inizio tutti i soprusi e i ricatti di aziende e imprenditori, che non sono più interessati ad assumere lavoratori, ma macchine usa e getta. Questo avviene anche perché sono aiutati dalle politiche economiche del governo che, credendo di incentivare l’occupazione giovanile, in realtà, incentivano l’alienazione del lavoratore (bisognerebbe rispolverare i vecchi insegnamenti di Marx).

Se poi le cose vanno male si scarica tutta la colpa sui giovani “fannulloni”, oppure si muove l’opinione pubblica su altri problemi che a prima vista potrebbero sembrare di primaria importanza, ma che dovrebbero passare in secondo piano a fronte di dati come quelli dell’emigrazione giovanile (basti pensare che gli emigrati italiani sono triplicati dai 36mila del 2007 ai circa 115mila del 2016), piuttosto sottovalutata da chi sta al potere, che invece preferisce gonfiare il fenomeno “invasione”, i cui numeri sono calati rispetto a qualche anno fa.

Il mio suggerimento? Tornare ad investire sulla scuola, sull’istruzione in generale, ma non attraverso iniziative come “l’alternanza scuola-lavoro”che non fanno altro che agevolare lo sfruttamento (non è altro che lavoro gratuito che di istruttivo ha ben poco), ma tramite la sensibilizzazione degli studenti a queste importanti tematiche, incoraggiando lo scambio culturale con studenti di altre nazioni e con piani di studi volti a formare individui e non automi.

 

– CHI E’ L’AUTRICE –

*Lidia Bini, 18 anni, è una studentessa fresca di maturità di liceo classico, prossima matricola della facoltà di Giurisprudenza all’Università di Udine. Grazie alla sua passione per viaggiare ha potuto confrontarsi con altre realtà (quella britannica in primis) che le hanno permesso di allargare i suoi orizzonti culturali e l’hanno spinta ad interessarsi alle tematiche sociali riguardanti soprattutto la valorizzazione giovanile. Il suo sogno è quello di poter lavorare in ambienti volti alla tutela dei diritti costituzionali come il lavoro e l’istruzione, concedendosi comunque qua e là qualche viaggetto al di là dei confini italiani.