Heiner Wilmer: Anno del cuore ferito

Il 14 marzo 2018, in occasione della memoria del compleanno del nostro fondatore, ha avuto inizio nella Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (dehoniani) l’“Anno del cuore ferito”. «Eravamo convinti che il costato trafitto di Gesù fosse l’icona del XXI secolo», dice il superiore generale uscente p. Heiner Wilmer nella Lettera con la quale saluta la Congregazione perché nominato vescovo della diocesi di Hildesheim in Germania. Il cuore ferito «è l’immagine delle fragilità e ferite del nostro tempo. Il cuore aperto di Gesù include e accoglie tutte le ferite fisiche e psichiche, anche le nostre. Prenderle come cosa seria, esporle apertamente, significa prendersene cura e rimarginarle – in maniera umana, carica di comprensione, con una disposizione empatica. Così siamo giunti alla convinta persuasione che la dedizione per gli uomini e le donne affranti, segnati nella loro vita, poteva essere autentica solo se io stesso vedo e sono capace di accogliere la mia fragilità, il mio cuore ferito».

– A quale domanda risponde l’indizione di un Anno del cuore ferito?

Per noi e per me personalmente si vuole, con questa iniziativa, indagare quale sia una nostra possibile risposta al dolore. Al dolore fisico: c’è tanta gente che soffre di malattia, incidenti, invecchiamento, guerra e abusi. Al dolore psicologico: c’è tanta gente che è segnata da piccole o grandi depressioni, persone che si sentono rigettate, non amate, trascurate, che soffrono della rottura di relazioni, o appesantite dal fardello del proprio passato che nel presente può voler dire carcere. Al dolore spirituale: disorientamento, perdita della fede, incomprensibilità del silenzio di Dio; le domande della teodicea sono sempre attuali.

Da una parte la nostra società industrializzata e competitiva premia l’uomo di successo e lo promuove come modello unico; dall’altra, la realtà si presenta più spesso con il volto del fallimento. Che risposta possiamo dare davanti all’esperienza del fallimento, che è più reale del successo? Il fallimento è l’esperienza comune, non il successo. Il cuore ferito dice della serietà con la quale Dio ha preso su di sé, in Gesù, in un’esperienza corporea non come idea, la drammatica realtà del fallimento.

Anno del cuore ferito

«Guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Zc 12,10)

Quali sono le implicazioni teologiche dell’invito a «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto»?

La prima ricaduta è sulla teologia biblica. Volgere lo sguardo a Colui che è stato trafitto è una cerniera che tiene insieme Antico e Nuovo Testamento.

Matteo 25 propone l’identificazione di Gesù con il sofferente e il bisognoso: «quando mai abbiamo “volgere lo sguardo a te” nudo, affamato, senza tetto, triste». Nello stesso tempo, Matteo  propone anche l’identificazione del Figlio dell’Uomo con i makarioi, i beati.

Un’ulteriore pista teologica è tracciata da Filippesi 2, uno dei più antichi inni del Nuovo Testamento. Kenosi e incarnazione: Dio “si abbassa” e “prende carne”. Dio non rimane un’idea, ma si rende tangibile, vulnerabile e assume una phisis, una natura che offre la possibilità di essere ferita. Dio pone sé stesso nella condizione di dover fare i conti con la possibilità di essere ferito lui pure. Dio non evita l’esperienza del dolore. Nel cuore ferito di Gesù noi possiamo guardare e vedere il Dio raggiunto dal dolore.

Nel Salmo 23 («Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?») quelli che circondano il protagonista lo deridono perché si è fidato di Dio. La critica più forte alla religione, riportata dalla Bibbia stessa, non è l’ateismo; non è la negazione di Dio, ma l’accusa della sua malvagità. Gli empi non negano l’esistenza di Dio, ma deridono il suo operato o, più ancora, la sua “incapacità”, il suo fallimento.

San Paolo all’Areopago vuol essere fedele a Gesù risorto, ma viene rigettato e disprezzato. Anche il testimone di Dio è deriso e umiliato. È un fallimento spirituale e intellettuale. È il fallimento di un progetto.

La Bibbia ci parla dei fallimenti umani, ma anche del fallimento di Dio e del suo progetto.

Duns Scoto, posto in confronto a Tommaso d’Aquino, parla di due modi di conoscere le cose e distingue la cognitio cognitiva e la cognitio intuitiva. La prima è facoltà della ratio, dell’analogia; la seconda fa riferimento a un insight, a una conoscenza dal di dentro, che non si lascia spiegare con sillogismi né equazioni matematiche, eppure esiste, ci tocca, ci coinvolge, e, in definitiva, ci affidiamo ad essa per le decisioni più rilevanti della nostra esistenza. Le scelte d’amore, ad esempio. Si ama qualcuno non per calcolo, ma perché ci si sente attratti, si intuisce il buono che c’è nella persona. La cognitio intuitiva di Duns Scoto apre verso la mistica un varco che la sistematica razionale di Tommaso d’Aquino non era riuscita a sfondare.

Vi è una suggestione ulteriore: la teologia trinitaria. Una dimensione trascurata nella nostra teologia fino al Vaticano II. Lo studio si è occupato di teologia e di cristologia, ma la pneumatologia è stata trascurata. La dimensione che Dio è anche Spirito Santo, che il battesimo è il sacramento fondante e gli altri sono derivati da esso. Il topos della Trinità apre il discorso su Dio non comemonos, ma come comunicazione e comunione. Dio è in se stesso comunicazione e comunità. La comunione inizia con due, la comunità ha inizio con tre. Dio è in se stesso dinamica, è creativo, è comunicazione. Noi possiamo guardare a lui e lui rimane toccato dal nostro sguardo e ascolta le nostre domande.

Per dare una risposta alle ferite profonde dell’umanità è necessario poter rivolgere le nostre domande a un Dio che parla, anzi è in se stesso comunicazione. Non un Dio che dia una risposta facile e sbrigativa alle domande complesse dell’umanità, prendere o lasciare. Ma un Dio che ha sfumature in se stesso, è in se stesso un colloquio intrecciato.

Accogliere la complessità e la “coralità” in Dio permette di riconoscerlo come interlocutore aperto alle nostre domande, così come riconoscerlo feribile ce lo accredita come interlocutore credibile.

Anno del cuore ferito

«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Gv 3,14)

– Quali sono le implicazioni pastorali di un Anno del cuore ferito?

Primo, l’accompagnamento. In un mondo oltremodo complesso come il nostro dobbiamo prendere le persone sul serio, con rispetto leale per la loro coscienza. Il nostro primo lavoro non è predicare, dando risposte preconfezionate; è essere credenti con gli altri, essere compagni di strada, solidali. I filosofi francesi affermano che la présence è più importante della répresentation. In altre parole, essere presenti, vivi, a fianco di un altro vivente è più importante che inviargli  una rappresentazione di noi stessi preconfezionata. La presenza umana porta in se stessa salvezza. Precede la parola e dà significato alle parole. La presenza umana guarisce o meglio aiuta la guarigione.

Una seconda implicazione pastorale: spostare l’accento dalla folla all’individuo. Senza trascurare la folla, il focus ha da essere sull’individuo. Dobbiamo ritornare a Gesù che ha predicato sì alla gente, ma che nella sua opera di guarigione ha incontrato sempre persone: l’emorroissa, il cieco, il sordomuto… Gesù mette fango sugli occhi, tocca con la saliva, si sente toccato da una donna mentre è circondato dalla folla… Gesù non ha mai compiuto guarigioni di massa. Non ha guarito tutti, si è ritirato, si è sottratto alla tentazione della folla che voleva farlo re. Non si è consegnato a un attivismo alla ricerca di grandi numeri. Ha guarito alcuni, dando un segno, una testimonianza anche simbolica per la nostra missione pastorale: fate come ho fatto io.

Una terza linea: la pastorale sia attenta a quelli che falliscono. Non ci si rivolga soltanto a chi “riesce”. La realtà psicologica e sociologica del fallimento, non il successo, sia il paradigma.

anno del cuore ferito

La Chiesa si apra di nuovo all’arte contemporanea, questa portavoce e interprete dell’esperienza umana da noi troppo trascurata. L’arte è un sismografo che intercetta i sommovimenti profondi della psiche e della società. Il suo linguaggio è più vicino a ciò che si vive nell’intimo dell’esperienza umana, più della logica. In particolare, più che in altri momenti della sua storia, l’arte contemporanea è in fine sintonia con la sofferenza umana, con il cuore ferito dell’umanità. Il Vaticano II (GS 44) ci dice che l’arte moderna ha una connaturata dimensione profetica. Anche quando ci appare in superficie addirittura blasfema, ci dice profeticamente qualcosa del rapporto fra l’uomo e il mistero. L’arte contemporanea, astratta nella sua dimensione figurativa, è paradossalmente più saldata alla corporeità. Questo è rilevante nella spiritualità del Sacro Cuore. Il corpo umano – un corpo imperfetto e non una sua idealizzazione perfetta e irreale – più che un’idea è un’esperienza. Il mondo delle idee è affascinante nella sua luminosità e perfezione, ma la realtà è quella del corpo che ride, che piange, che suda…

– Quale Chiesa si prospetta a partire dal cuore ferito?

Papa Francesco parla della Chiesa in uscita (EG). Questo è nella simbologia del cuore aperto. Potremmo fare un passo avanti dal cuore aperto al cuore ferito. Vuol dire che la Chiesa non è solo in uscita, ma che ha una destinazione: andare al mondo del dolore. Il mondo del dolore non è solo uno tra i tanti. La nostra prima attenzione sia per la gente che soffre e questa gente sia l’incontro cercato e voluto, non puramente occasionale. Andare al mondo del dolore dà una contribuzione all’umanizzazione del mondo.

Mi viene alla mente un italiano di valenza universale: don Lorenzo Milani. Teologicamente componeva in se stesso Antico e Nuovo Testamento, lui di origini ebraiche, cristiano, sacerdote… La sua Scuola di Barbiana è un prototipo di umanità perché è andato alla persone giovani trascurate, lasciate ai lati senza opportunità, un mondo segnato dalla sofferenza e dall’esclusione a livello sistemico, senza via d’uscita. Ha mostrato solidarietà, ma, e questo è fantastico, ha cambiato la prospettiva dalla quale guardare al giovane. Invece di vedere il giovane come destinatario della sua opera di formazione, lo ha reso soggetto. Nella sua scuola, i ragazzi che avevano 10 anni li ha fatti insegnanti di quelli più giovani. Li ha portati a credere nella gente. «Io ti do qualcosa, ma ho a mia volta bisogno di te; io vedo che tu sei forte, più forte di quanto tu pensi». Noi dobbiamo non solo essere missionari, ma portare la gente a essere missionaria, anche i giovani. La nuova evangelizzazione dovrebbe cominciare con i giovani. Guardare ai giovani non solo come destinatari della nuova evangelizzazione, ma come protagonisti. La Chiesa ufficiale deve avere più fiducia nel mondo dei giovani, azzardando anche forme di sperimentazione.

Il cuore ferito mi invita a costruire una Chiesa che via più effettivamente la dimensione soteriologica. Nel mondo occidentale, ma un po’ in genere nel mondo cristiano, la comunità ecclesiale, che è comunità di persone, abbia a cuore la vicinanza alla persona più che la tutela dell’istituzione; dedichi le sue energie alla comunione solidale più che all’integrità del sistema, che ha ceto la sua importanza, ma è solo uno strumento. L’importante è la persona, farsi presente, farsi prossimo.

In questo contesto soteriologico, la Chiesa riscopra la sua dimensione pneumatologica e si domandi come viverla oggi. Prendere sul serio la fede battesimale vuol dire meno attivismo, più contemplazione e più creatività; credere di più nell’esperienza e nella ricerca di nuove esperienze, non aver paura di sbagliare, non aspettare che tutto sia previsto e programmato. Credere nel vento e nel fuoco dello Spirito Santo; credere nella Pentecoste, il terzo grande momento del mistero dell’incarnazione. Perché è dopo la Pentecoste che noi viviamo.

anno del cuore ferito

«Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco;
e non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20,27)

– Quale vocazione specifica comporta per la congregazione dehoniana la teologia del cuore ferito? In cosa la distingue e la precisa dalle mille altre forme della vita consacrata?

Il “sacramento della solitudine” e la solidarietà come espressione della fede vissuta. Mi spiego. Il “sacramento della solitudine” significa mettersi nella prospettiva della vittima, delle persone che soffrono, abbandonate. Chiunque soffre è in definitiva solo. Il dolore fisico, psichico, spirituale ti emargina in qualche modo, ha sempre a che fare con la solitudine. La solitudine è il moduspenitenziale della sofferenza.

D’altra parte la solidarietà come espressione della fede vissuta. E qui entra in gioco paradossalmente la dimensione contemplativa.

L’adorazione, il percorso contemplativo che apre alla mistica, sia nel senso classico (davanti al Santissimo), sia in senso “samaritano” («i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», Gv 4,23) è come il pontifex maximus tra la solitudine della vittima e la solidarietà nostra. Nell’adorazione mi sento solo, anche se circondato dalla comunità. È un modo di essere alla presenza di Dio anche senza parola, senza scopi programmati, senza schemi preconfezionati. Il frutto di questa contemplazione illumina la mia solitudine e me la rende evidente. Io devo vedere e devo vivere quella mia solitudine per essere capace di comprendere la solitudine dell’altro. Se io non vado in questo pozzo profondo della mia anima non sarò mai capace di comprendere l’altro che soffre, che si sente solo, che fallisce. È questa la base della solidarietà. L’adorazione è un momento nel quale Dio stesso si mette come il Solo davanti a me, solo, e sperimenta anche lui la sua “solitudine”. L’adorazione solidale tocca il suo vertice nel versante mistico e la solidarietà ha il suo frutto sul versante politico, come essere interessati (inter-esse) alla vita dell’altro, ai suo momenti, ai suoi giorni.

– Quale è la forza – o la debolezza – della riproposta della devozione? Quale può essere la sua forma rispondente alla domanda religiosa attuale, almeno nell’Occidente secolarizzato?

La forza della devozione sta nella sua capacità di toccare il mondo emotivo, il cuore, e sviluppare gli affetti, aprire i sensi. La devozione favorisce la nostra unità olistica. È inoltre un tipo di linguaggio dei sentimenti, che introduce alla mistagogia.

La debolezza si manifesta quando la devozione evita la ratio, la ragione, rischiando così di andare in confusione ed esprimersi in qualche stranezza che, vista da fuori, potrebbe risultare incomprensibile e in-significante. Se alla devotio manca il logos, la profondità della riflessione, può generare caos. Ci vuole argomentazione, saper dare le ragioni della nostra fede.

Quanto alla forma penso a tre punti.

  1. Sviluppare la dimensione del silenzio, della contemplazione. A Berlino, nella popolare Unter den Linden, nella Porta di Brandeburgo, di fronte alla famosa Ambasciata americana, c’è una stanza chiamata Raum der Stille (Spazio del silenzio). È una struttura vuota, che vuole esortare i visitatori alla riflessione sulla pace, sullo sfondo delle guerre recenti e delle loro vittime. Tanta gente, tedeschi e stranierei, cristiani, ebrei e musulmani, non credenti entrano in quella stanza. Il silenzio provoca, unisce. A volto il silenzio è “fragoroso”. La dimensione contemplativa è importante anche per noi nella Chiesa, perché corriamo sempre il rischio di cadere nell’attivismo.
  2. La Bibbia. Leggere e condividere la Parola, nella sua interezza, Antico e Nuovo Testamento. Dio si è fatto Parola, Dio è comunicazione, è Trinità, è comunione. La Bibbia è nello stesso tempo parola di Dio e riflesso delle esperienze umane. Ad esempio Mosè è figura di profeta che si può leggere come specchio profondo della vita di ciascuno. È più di un esempio, è un paradigma. Come lo è Gesù. La Bibbia mi conduce dentro stanze della mia anima delle quali ignoravo l’esistenza.
  3. Il pellegrinaggio. Una forma della devozione dell’Occidente è mettersi in cammino. Quello di Santiago è cammino per antonomasia. Mettersi in cammino è una chiave di lettura dell’uomo moderno. Viviamo in una mondo globalizzato; Internet ti permette in un secondo di essere ovunque. Senza muovere passi eppure tutto è in movimento, tutto è in cammino, perfino frenetico, e fa pensare alla vicenda di Emmaus. Anche noi viviamo dopo Pasqua, come quei discepoli che si sono messi in cammino verso Emmaus. Erano itineranti con i piedi ma anche nello spirito: avevano domande senza risposta, domande vere. Una vita segnata dalla domanda. Qual è la mia domanda? qual è il mio tema? qual è il mio rompicapo? Mettendoci insieme agli altri, condividendo le nostre domande, condividendo il cammino e il pasto la sera apriamo il campo nel quel possiamo trovare luce, come nel famoso quadro di Rembrandt: non c’è più la luce del sole, ma c’è la luce di Gesù. «Ci ardeva il cuore. Non lo abbiamo riconosciuto, ma lui era presente». Il pellegrinaggio è un’esperienza fisica, un omaggio alla corporeità ma anche un omaggio al pensiero teologico pastorale di farsi vicini all’altro, di vivere i momenti antitetici della solitudine e della vicinanza. Camminare nella natura, sentire sulla pelle il calore e il sudore. È sentirsi parte della natura, sentirsi natura dalla natura; io sono adam dall’adamah; io sono mercoledì delle ceneri. Il pellegrinaggio è una forma culturale che rimanda alla figura religiosa del mercoledì delle ceneri. Il pellegrinaggio è una forma della devozione non solo cattolico cristiana, ma anche ebraica, musulmana, buddhista e induista. Tutte le grandi religioni conoscono il pellegrinaggio. Nel pellegrinaggio vedo la sovrapposizione, l’intreccio fra cultura, civiltà e religione.

Il cuore ferito mi restituisce l’immagine del Risorto che si fa incontro ai suoi discepoli disorientati nelle loro domande, nel senso di fallimento che stanno sperimentando; apre loro il cuore e apre il loro cuore; mostra la ferita del fianco e in questa tangibilità della sua vicinanza invita a credere.

settimananews

EG: Quattro principi per la vita sociale

Nel IV capitolo dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (EG), che è il testo programmatico del suo ministero pontificale, il papa Francesco tratta delle ripercussioni comunitarie e sociali dell’evangelizzazione, ossia delle conseguenze che la missione evangelizzatrice (e il Vangelo!) ha nella vita della società e delle persone: essa non è un annuncio “spirituale”, disincarnato cioè, ma ha delle conseguenze sociali e storiche nella società (nn. 176-185).

Affronta poi il tema dell’inclusione sociale dei poveri, del dovere cioè di ascoltare “il grido dei poveri” e di tenere conto della loro presenza nella società di oggi, dei loro diritti, garantiti dalla parola del Vangelo, del posto privilegiato che essi hanno nella Chiesa, del dovere della società di distribuire equamente i beni, di prendersi cura dei più fragili (nn. 177-216).

Segue una sezione del capitolo dedicata al bene comune e alla pace sociale che del bene comune è il frutto (nn. 217-237).

In questa sezione il papa offre quattro principi (nn. 221-237),[1] o criteri-guida, che servono al discernimento in vista di giungere a delle scelte oculate e valide per una ordinata vita sociale ed ecclesiale. Tali principi, oltre che dalla dottrina sociale della Chiesa[2] e dallo studio della filosofia di Romano Guardini, provengono dalla formazione gesuitica del papa e dalla sua esperienza di formatore e di provinciale.

Questo ha affermato il suo amico gesuita, il teologo Juan Carlos Scannone, e p. Diego Fares s.j. in un articolo su La Civiltà Cattolica, scrive che p. Bergoglio già si riferiva a questi principi nel periodo in cui era provinciale dei gesuiti in Argentina. Comunque stiano le cose, Francesco afferma che, «per avanzare in questa costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità, vi sono quattro principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale. Derivano dai grandi postulati della dottrina sociale della Chiesa, i quali costituiscono “il primo e fondamentale parametro di riferimento per l’interpretazione e la valutazione dei fenomeni sociali”.[3] Alla luce di essi desidero ora proporre questi quattro principi che orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune» (EG 221).

Il papa parte dall’esperienza della vita sociale e comunitaria, ma anche nella vita personale e familiare, dove si presentano situazioni e/o posizioni teoriche e pratiche opposte tra loro, dette anche polarità,[4] dove sembra che, scegliendone una, si debba necessariamente escludere l’altra. Per es., evangelizzazione o promozione umana? Missione o sacramentalizzazione? Intervento immediato o paziente attesa? Cura dei dettagli o attenzione allargata? Preferenza per la singola parrocchia o unità pastorale?…

Chi accetta uno dei due poli, perde inevitabilmente l’altro. Francesco opta non per un aut/aut, ma per l’e/e, tenendo presente che i due poli normalmente si richiamano e ciascuno porta in sé un suo valore, per quanto limitato.

Qualcuno ha visto in questa dinamica delle polarità una logica di tipo hegeliano, quella che Hegel chiama l’Aufhebung.[5] A me pare che si tratti piuttosto della logica dell’incarnazione e della conseguente inclusione pastorale introdotta da Giovanni XXIII e dal concilio Vaticano II che è stata assunta dalla costituzione Gaudium et spes. Questi sono i quattro principi proposti da papa Francesco:

  1. Il tempo è superiore allo spazio
  2. L’unità prevale sul conflitto
  3. La realtà è più importante dell’idea
  4. Il tutto è superiore alla parte

Vediamoli uno dopo l’altro con le loro applicazioni pratiche.

1. Il tempo è superiore allo spazio (EG 222-225)

Con questo principio il papa intende affermare l’importanza di mettere in moto dei processi che richiedono tempo per svilupparsi, senza pretendere quindi di avere subito e/o di possedere o tenere in mano il risultato che ci si prefigge. Infatti, per il papa, il tempo parla di un orizzonte aperto verso il futuro, mentre lo spazio richiama un limite che chiude e conclude. Per questo, afferma che “il tempo è superiore allo spazio” e spiega: «Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone (…) Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi (…), privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (EG 223)

Un esempio di utilizzazione di questo principio lo offre il papa stesso nella promozione della riforma della Chiesa. Il papa non punta alla riforma delle strutture, ma al cambiamento delle persone che vi sono coinvolte, le quali produrranno nel tempo la riforma delle strutture. Questo modo di procedere chiede tempo, pazienza e perseveranza.

Il papa Francesco nella lettera enciclica Lumen fidei, scritta insieme a papa Benedetto e pubblicata il 29 giugno 2013, scrive: «Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che “frammentano” il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza» (Lumen fidei57).

La pazienza e la speranza permettono di raggiungere il tutto e, insieme, le parti, come si vedrà nel quarto principio.

Questo primo principio è necessario alla nostra società digitale caratterizzata dalla fretta, ed è importante nella formazione/educazione delle nuove generazioni, dove invece prevale un altro principio, quello del tutto subito e qui, che rivela tutti i suoi effetti deleteri. Noi siamo oggi abituati ad avere con un clic tutte le informazioni, dobbiamo riscoprire il principio della gradualità. Ma iltutto e subito è matrice di superficialità.

Il principio “il tempo è superiore allo spazio” è importante e necessario nell’evangelizzazione che richiede i tempi lunghi, la pazienza del seminatore che non accelera i tempi di crescita con il pericolo di compromettere anche la semente (cf. Mc 3,26ss). Il papa ha usato questo principio inLaudato si’ 178[6] e in due passaggi di Amoris laetitia 3[7] e 261,[8] tre passaggi che ci permettono di comprendere meglio ciò che il papa intende dire.

Nella prassi quotidiana questo principio suggerisce di investire molto nella formazione. Per es., la formazione dei catechisti è più importante del servizio immediato della catechesi, che pure è necessario; l’investimento in formazione è superiore (ossia, alla lunga rende di più…) all’azione immediata o al cambiamento immediato; è saggio, in certi casi, permettere oggi un atteggiamento imperfetto in vista di una maturazione più avanti…

Gesù l’ha applicato nella parabola della zizzania nel buon grano, là dove i servi vorrebbero agire subito e pulire lo spazio strappando la zizzania, mentre il padrone dà tempo al tempo e dice: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura …» (Mt 13,30). Il nemico può occupare lo spazio del regno e causare danno ma, alla fine, è vinto dalla bontà del grano che si rivela nel tempo.

Inoltre, Gesù ha fatto intendere ai discepoli che c’erano verità che non potevano comprendere subito e che lui non poteva trasmettere subito, ma che avrebbero compreso con il tempo (cf. Gv 16,12-13).

2. L’unità prevale sul conflitto (EG 226-230)

Uno degli aspetti che caratterizzano ogni convivenza è l’incontro e lo scontro fra vedute e progetti differenti, fonte pertanto di “conflitti” fra le persone e le loro vedute. In questo modo è in pericolo l’unità del gruppo e la comunione, perché il conflitto potrebbe paralizzare il gruppo fino al punto di trasformarsi in vere e proprie guerre. Questo accade ai vari livelli, dello stato, delle società civili, delle comunità parrocchiali o religiose e delle famiglie. Che i conflitti siano quasi inevitabili è un dato di fatto da tutti verificabile.

Davanti ai possibili conflitti, il papa offre un criterio di comportamento e afferma anzitutto che «il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato» (EG 226) e affrontato per trovare una soluzione, e non rimanere intrappolati o paralizzati. Bisogna reagire per non perdere il bene dell’unità e della comunione.

Ci sono, secondo Francesco, diverse maniere di affrontare il conflitto: «Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227).

La maniera più adeguata per affrontare il conflitto è guardarlo in faccia, accettarlo e cercare insieme, solidalmente, la via della soluzione andando oltre il conflitto nella direzione di ciò che è ancora comune, per ritrovare – al di là delle posizioni divergenti – una comunione che subito non appare (altrimenti non ci sarebbe il conflitto!) ma che si ritroverà magari a poco a poco e che sarà costituita come “unità delle differenze riconciliate”: «In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto» (EG 228).

Nella ricerca dell’unità al di là del conflitto nasce una vera solidarietà, intesa nel suo significato più profondo di comunione e di sfida, che è uno «stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita» (EG 228). Lo vediamo nel modo con cui il papa sopporta le critiche che gli piovono addosso. Egli non le combatte direttamente, ma riafferma la verità, e così la fa penetrare nella coscienza della Chiesa.

Questo principio non consente di “mettere tutto insieme” (sarebbe un pericoloso sincretismo) e neppure di “far finta di niente” (sarebbe un inefficace irenismo), ma di scoprire la soluzione del conflitto a un livello superiore che conservi in sé le preziose potenzialità che le posizioni in conflitto contengono. Infatti, nei conflitti si confrontano posizioni che, pur divergendo, contengono dei valori da non perdere. Per es., l’accoglienza dei rifugiati e la richiesta di sicurezza e legalità sono due istanze entrambe valide/giuste che sembrano tuttavia escludersi. La saggezza chiede di salvaguardare i valori dell’accoglienza che vengono dal vangelo e della sicurezza/legalità degli accoglienti, che vengono dalla giusta richiesta di armonia, e di comporli in una legislazione che sia attenta ad entrambi.

3. La realtà è più importante dell’idea (EG 231-233)

In ogni comunità ci sono i pragmatici e gli idealisti, quelle persone che guardano solo alla realtà e ai dati di fatto concreti e altre che vivono nelle… nuvole, che hanno sempre delle idee nuove. In altre parole, ci sono quelli che hanno, come si dice, i piedi per terra e quelli che vivono nelle loro idee e hanno sempre qualche cosa di nuovo da proporre. Chi deve prevalere? Che cosa è più importante: la realtà o l’idea? La risposta del papa è chiara: «La realtà semplicemente “è”, l’idea “si elabora”. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. (…) La realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà». (EG 231).

Con questo principio papa Francesco dice che «sognare va bene, ma per andare avanti serve il confronto con la realtà» (lo ha detto nel radiomessaggio a Scholas occurrentes lo scorso 12 maggio 2018), perché la realtà è, esiste cioè, mentre l’idea è frutto di elaborazione mentale la quale, proprio perché fatta fuori e prima della realtà, rischia di cadere nel sofisma (cioè nel falso ragionamento), distaccandosi dalla realtà fino a voler imporsi sulla realtà. Pensiamo alla politica: i politici formulano molti progetti e proposte logiche e chiare, magari affascinanti, ma che poi non si realizzano. Per questo la gente non ha più fiducia in loro.

Questo terzo principio lo potremmo chiamare il “principio di realtà” ed esso, per noi cristiani, ha il suo fondamento nel mistero dell’incarnazione di Dio: «il Verbo di Dio si è fatto carne» (Gv 1,14) diventando una persona concretamente immersa nella storia e nella cultura (palestinese) di quel tempo ben preciso.

Questa deve essere la strada della Chiesa e della sua missione evangelizzatrice (Ad gentes10). Questo comporta di tener conto e di valorizzare la storia e la tradizione della Chiesa che non deve essere messa da parte per progetti nuovi non verificati nella realtà. Così la Parola deve essere “realizzata” (messa in pratica) e produrre opere di giustizia e di carità nella realtà storica di oggi e di qui. La Parola deve essere radicata nella realtà, altrimenti la missione costruisce sulla sabbia.

Non è raro il caso che queste idee senza fondamento nella realtà nascondano la realtà. Tra le forme di «occultamento della realtà» (EG 231) il papa enumera certe forme di religiosità spiritualista che dimenticano la condizione umana come se le persone fossero dei “puri spiriti” che non hanno bisogno della materia (i purismi angelicati), oppure l’accettazione di qualsiasi posizione intellettuale senza verificarne la possibile realizzazione, pensando che va tutto bene (i totalitarismi del relativo: basta che un’idea vada bene a me, gli altri pensino pure quello che vogliono…), le dichiarazioni di principio che non corrispondono alla realtà, oppure quei bei discorsi campati in aria (nominalismi dichiarazionisti), i fondamentalismi antistorici di chi, in nome di idee religiose, va contro la storia (pensiamo al fondamentalismo islamico o cristiano), oppure il moralismo senza cuore (gli eticismi senza bontà), gli intellettualismi senza saggezza…, tutte espressioni di un mondo non più umano.

4. Il tutto è superiore alla parte (EG 234-237)

C’è, infine, un quarto principio, molto pratico, che si applica a molte situazioni concrete. Scrive il papa: «Anche tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati; l’altro, che diventino un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini» (EG 234).

Con questo principio il papa invita ad allargare lo sguardo per riconoscere la presenza o la possibilità di scoprire e fare un bene più grande. Egli invita a prestare attenzione alla dimensione globale delle cose per non cadere nel “localismo”, perché «il tutto è più della parte ed è anche più della loro semplice somma» (EG 235).

Il papa ha citato questo principio al n. 141 della sua enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune dove, parlando dell’ecologia integrale, afferma che si deve aver cura di tutto l’insieme dei problemi del mondo e non preoccuparsi solo degli animali o delle foreste amazoniche, ma anche dell’uomo, del suo ambiente, dei suoi diritti, del lavoro, della pace sociale…: «Oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con se stessa, che genera un determinato modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente. C’è un’interazione tra gli ecosistemi e tra i diversi mondi di riferimento sociale, e così si dimostra ancora una volta che «il tutto è superiore alla parte» (Laudato si’ n. 141).

È interessante notare che il papa invita a tenere insieme i due poli che sono e devono rimanere in tensione tra loro, la globalizzazione e la localizzazione. Ad esempio, la Chiesa locale e la Chiesa universale, la parrocchia e la diocesi, la famiglia e la comunità civile, la persona e il suo ambiente… La valorizzazione della parte o della “realtà locale” non deve far dimenticare il “tutto” o scomparire nel “tutto”, ma deve essere posta sull’orizzonte del tutto, vista e curata in relazione al “tutto”, perché «il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili» (EG 235).

C’è un principio della filosofia e della sociologia caro al mondo anglosassone, “act locally, think globally”, che esprime questo quarto principio del papa: bisogna agire là dove ci si trova, ma tenendo presente l’orizzonte più vasto. Questo, per es., vale quando si vuol rinnovare la pastorale di una comunità parrocchiale con la costituzione delle “unità pastorali”: non ci si può concentrare solo sulle urgenze e le richieste locali, ma si deve considerarle in relazione all’ambiente più vasto che sta attorno e unire le forze per rispondere efficacemente alle urgenze più vaste. Si noti che questo principio non minimizza l’importanza della “parte” e non la dimentica, chiede solo che essa non rimanga chiusa in se stessa, ma tenga conto dell’altro e dell’orizzonte più vasto.

Il papa esprime in modo plastico questo principio e la realtà del nostro mondo con l’immagine delpoliedro, una figura geometrica composta di facce differenti (diversa dal cubo!) in cui il tutto si compone delle singole facce, ognuna delle quali mantiene la sua identità, ma è assunta nella figura complessiva: «Il modello [del tutto][9]non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro [dove non hanno spazio le singole facce]. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti» (EG 236).

Per la missione evangelizzatrice della Chiesa questa immagine è importante. L’inculturazione del messaggio evangelico conserva e potenzia le singole culture che insieme formano la Chiesa «popolo dai molti volti» (EG 115) e permettono a questa di essere presente nella “località” propria di ognuna di esse (cf. EG 115-118).

Conclusione

Questi principi o criteri che il papa offre alla Chiesa sono importanti e utili per il discernimento che sempre deve essere fatto quando si deve vivere e lavorare insieme. Qualche critico del papa ha voluto vedervi dei principi di ordine idealistico, provenienti da G.F. Hegel o addirittura da Marx.[10] A noi pare che queste siano idee e principi della sana cultura cristiana, dove le singole persone conservano il loro valore con i loro carismi particolari, mentre concorrono a formare il corpo di Cristo in cui tutti i singoli concorrono alla vita e alla missione del capo, Gesù Cristo.


[1]           Ref. arch.: Predicazione sacra/Paniga, 3 marzo 2018. Quattro principi per costruire la comunità.docx – conferenza del 15 maggio 2018.

[2]           Cf. L’articolo di Alberto Cozzi, La verità di Dio e dell’uomo in Cristo, in: Alberto Cozzi, Roberto Repole e Giannino Piana, Papa Francesco Quale teologia?, Cittadella, Assisi 2916, pp. 14-35.

[3]           Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 161. I principi di cui parla la DSC sono: la dignità della persona umana, il bene comune, la sussidiarietà e la solidarietà (ibid. n. 160).

[4]           Polarità è una figura letteraria che significa l’essere opposto, l’essere in antitesi: la polarità dei concetti di “caldo” e di “freddo”; né si possono collocare classico e barocco, come due opposte “polarità”, sullo stesso piano (B. Croce). Questa è la definizione del Dizionario Treccani.

[5]           Aufhebung, sostantivo tedesco che deriva dal verbo aufheben, che ha duplice significato di “togliere via, eliminare” e di “sollevare, conservare”. Con questo termine Hegel esprime il carattere peculiare del processo dialettico, il quale “nega”, “supera” un momento, una categoria… e, al tempo stesso, lo “eleva” e “conserva” in un ulteriore momento, in un’ulteriore categoria, che quindi ne è l’inveramento e il completamento. La negazione dialettica di un momento ne annulla dunque soltanto l’immediatezza, e in effetti lo riafferma e lo compie in un grado superiore di svolgimento (dal Dizionario filosofico Treccani, ed del 2009). Nell’uso che ne fa Bergoglio esso significa “superare senza eliminare”.

[6]           «Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. (…) Si dimentica così che “il tempo è superiore allo spazio”, che siamo sempre più fecondi quando ci preoccupiamo di generare processi, piuttosto che di dominare spazi di potere. La grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione» (Laudato si’ n. 178).

[7]           «Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali, devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano» (Amoris laetitia n. 3).

[8]           «Tuttavia l’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare. Qui vale il principio per cui “il tempo è superiore allo spazio”[291]. Vale a dire, si tratta di generare processi più che dominare spazi. Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide» (Amoris laetitia n. 261).

[9]           I testi tra [] sono spiegazioni dell’autore.

[10]         Giovanni Scalese, religioso barnabita, dal 2014 capo della missione sui jurisdell’Afghanistan, pubblicato da Sandro Magister nel suo Blog il 19 maggio 2016: I quattro chiodi a cui Bergoglio appende il suo pensiero. Si tratta di un blog “cattivo” (è di un giornalista deL’Espresso attualmente in pensione) che rispecchia la critica integrista e conservatrice propria di un certo numero di teologi e di ecclesiastici che hanno il dente avvelenato contro papa Francesco e le sue idee di riforma.

in settimananews

La classifica. Politecnico di Milano prima tra le Università italiane

Politecnico di Milano prima tra le Università italiane

La XV edizione del Qs World University Rankings, pubblicato da Qs Quacquarelli Symonds, società globale di consulenza specializzata nell’analisi del settore universario, conferma il Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston la migliore Università al mondo per il settimo anno consecutivo, superando Harvard, che ha detenuto questo ambito titolo per sei edizioni.

Gli Stati Uniti mantengono le prime quattro posizioni che restano invariate rispetto alla scorsa edizione, mentre per la prima volta, Oxford (5) supera Cambridge (6) e conquista il primato europeo. Il Politecnico di Zurigo (7) ottiene il proprio miglior posizionamento nella storia del ranking.

National University of Singapore (11) e Nanyang Technological University (12) sono a un passo dal raggiungere la Top 10, segno che i centri di ricerca d’eccellenza e le “knowlege powerhouses” in Asia sono sempre più competitive. Per la prima volta una Università cinese, Tsinghua University (17) entra tra le top 20 al mondo.

Tra le 30 Università italiane incluse nella classifica, 21 guadagnano terreno e nove lo perdono. Il Politecnico di Milano scala 14 posizioni e raggiunge il 156°posto, riconfermandosi la migliore Università italiana per il quarto anno consecutivo e ottenendo il proprio più alto posizionamento nei 15 anni dalla creazione del ranking.

L’argento italiano va alla Scuola Superiore Sant’Anna Pisa (167), che balza in avanti di 25 posizioni. Sul podio anche la Scuola Normale Superiore di Pisa che ne guadagna 17, piazzandosi al 175° posto. Anche l’Università degli Studi di Bologna sale di otto posizioni, e si classifica 180esima.

Nella fascia Top 600, l’Università italiana che cresce più significativamente rispetto allo scorso anno è l’Università degli Studi di Padova (249), che con un salto di 47 posizioni, è tra migliori 250 al mondo. Questa ascesa è ascrivibile al progresso ottenuto in quattro dei sei indicatori che compongono il ranking.

Una nota particolare merita il Politecnico di Torino (387), che perde 80 posizioni per un declino in cinque dei sei indicatori. In realtà, la discesa è stata in gran parte determinata dall’avere incluso per la prima volta, nel conto del personale docente, gli assegnisti di ricerca, adeguandosi alla definizione di Qs del “full-time equivalent staff”. Questo ha comportato un incremento del 67% della faculty, che ha determinato la perdita di 162 posizioni nell’indicatore “Citation per Faculty”. In sostanza, il Politecnico di Torino è un’eccellenza italiana, che quest’anno è rappresentata accuratamente in questa classifica, secondo i criteri e le definizioni che la determinano.

Ben Sowter, direttore del Dipartimento di Ricerca di Qs, ha commentato: «Quest’anno 24 Università italiane su 30 migliorano nella considerazione della comunità accademica internazionale. E 25 migliorano nel criterio che misura l’impatto della ricerca. Sono trend positivi, specialmente considerando la competitività globale che cresce incessantemente. Se si considerano i singoli indicatori, le vostre università compaiono tra le prime cento in otto occasioni».

La metodologia e la classifica per indicatori
L’indicatore “Academic Reputation” si basa sulle opinioni di 83.877 accademici e ricercatori universitari internazionali ai quali è stato chiesto di indicare le migliori università, escluse quella/e per la quale lavorano. Questo criterio contribuisce per il 40% al punteggio globale. L’Università di Bologna è l’Ateneo italiano preferito dalla comunità accademica internazionale, ottenendo il 77° posto al mondo, seguita da Sapienza – Università di Roma all’82° posto. Altre quattro Università si posizionano tra le prime duecento in questo importante indicatore (Politecnico di Milano 121°, Università degli studi di Padova 141°, Università degli studi di Milano 171°, Università degli studi di Pisa 195°) . In questo indicatore, 24 Università italiane su 30, guadagnano posizioni.

L’indicatore “Employer Reputation” si basa sulle opinioni di 42.862 datori di lavoro, responsabili delle risorse umane e manager ai quali è stato chiesto di indicare le università che producono i migliori laureati, secondo la propria esperienza. Questo criterio contribuisce per il 10% al punteggio globale.

L’Università Bocconi è la preferita dai recruiter internazionali, ottenendo il 52° posto in questo indicatore. Bocconi è considerata una Università specialistica e in quanto tale, compare in alcuni indicatori ma non nella classifica globale, che include solo università attive in almeno due macro-aree di studio e ricerca.

Segue il Politecnico di Milano al 55° posto. Distanziati, troviamo il Politecnico di Torino al 153° posto, L’Università Cattolica del Sacro Cuore al 163° e L’Università di Bologna al 169°. In questo indicatore, solo L’Università degli studi di Padova (260) cresce rispetto allo scorso anno mentre tutte le altre perdono terreno.

L’indicatore “Faculty/Student Ratio” misura la quantità di docenti rispetto al numero di studenti. L’Italia è tra i paesi che performa peggio in questo criterio, che determina il 20% del punteggio totale. A parte due notevoli eccezioni, la Scuola Normale Superiore di Pisa, 34a al mondo, e la Scuola Superiore Sant’Anna Pisa, 68a, tutte le altre si posizionano nella fascia 601+. In questo indicatore, l’Italia è fortemente penalizzata.

L’indicatore “Citations per Faculty” misura la quantità di citazioni nelle pubblicazioni scientifiche indicizzate dalla banca dati bibliometrica Scopus/Elsevier rispetto al numero di docenti e ricercatori, per il periodo 2012-2017. Questo criterio determina il 20% del punteggio totale. In questo criterio, la Scuola Superiore Sant’Anna Pisa (18) si posiziona tra le prime venti al mondo seguita dalla la Scuola Normale Superiore di Pisa al 59° posto. Il bronzo tra le Italiane va all’Università degli Studi di Ferrara, 178à, seguono Politecnico di Milano al 190° posto, e all’Università degli Studi Milano-Bicocca al 193°. L’Università degli Studi di Brescia si colloca appena fuori le Top 200, posizionandosi 203a.

Venticinque delle trenta Università classificate, migliorano in questo indicatore rispetto allo scorso anno.

Gli ultimi due indicatori misurano la proporzione di studenti e docenti internazionali e rappresentano il 10% del punteggio finale. La Scuola Superiore Sant’Anna Pisa (309a al mondo) ha la proporzione maggiore di studenti internazionali tra gli atenei italiani, seguita dal Politecnico di Milano (320°), che ha anche la maggiore proporzione di docenti internazionali (347° al mondo).

avvenire

È la sete dell’anima che ci fa uomini. Ma troppe volte la neghiamo, travolti da effimere soddisfazioni che mortificano la voglia di bere. E le nostre Chiese hanno sete?

José Tolentino Mendonça è sacerdote, teologo e poeta portoghese

José Tolentino Mendonça è sacerdote, teologo e poeta portoghese

«Insegnami, Signore, a pregare la mia sete, / a chiederti di non togliermela o spegnerla troppo in fretta…». Inizia così la preghiera in forma di poesia che chiude “Elogio della sete”, il libro di José Tolentino Mendonça pubblicato in questi giorni da Vita e Pensiero (pagine 151, euro 14,00), del quale anticipiamo un significativo brano. Un saggio sul desiderio di amore e crescita interiore senza del quale perdiamo la nostra verità più intima.

Entrare in contatto con la propria sete non è un’operazione facile, ma se non lo facciamo la vita spirituale perde aderenza alla nostra realtà. Abbiamo bisogno di questo atto di riconoscimento per ancorare il percorso spirituale al nostro orizzonte concreto, biografico, storico. «La pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare», ci ricorda il profeta Isaia (Is 55,10). Prendiamo questi verbi: irrigare, fecondare, far germogliare. Verbi che descrivono una trasformazione reale. La terra non rimane la stessa. È un vero processo rivitalizzante. Ma la trasformazione non accade se impermeabilizziamo la vita nella sua crosta, mantenendo unicamente una gestione funzionale ed efficace della superficie; o se, allo stesso modo, ci proiettiamo in un’idealizzazione che poi ci impedisce di guardare alla vita quale essa è, nelle sue forme e deformazioni, nella sua normalità e anomalia, nei suoi sussurri e nelle sue grida. E quanto maggiore sarà la secchezza del terreno, più la pioggia avrà difficoltà a penetrare. Può succedere di essere completamente assetati e di non accorgersene. Sembra che tutto fluisca, ma in profondità non è così.

Nella valutazione dello stato della nostra sete, credo possa venirci in aiuto la letteratura. Oggi, nel fare teologia, assistiamo sempre più, e con grande vantaggio, all’utilizzo della letteratura, ormai considerata uno strumento importante di analisi degli itinerari religiosi. La letteratura è in effetti uno strumento sapienziale. Probabilmente adesso stiamo comprendendo meglio che gli scrittori e i poeti sono maestri spirituali pertinenti e le opere letterarie possono essere di enorme utilità nel nostro cammino di maturazione interiore. E questo… perché? Il teologo Elmar Salmann ci ricorda tre ragioni fondamentali. Per prima cosa, la letteratura riesce a generarsi come metafora integrale della vita ai suoi diversi livelli (il suo scopo è descrivere l’interezza, non solo questa o quella dimensione univoca). E la vita spirituale progredisce soltanto quando è una rivisitazione dell’esistenza nel suo complesso, nella sua diversità. In secondo luogo, la letteratura ci dà una conoscenza concreta, non concettuale (per esempio: non dimostra, bensì mostra, in un chiaro sforzo di disappropriazione ideologica per fedeltà all’esistenza in quanto tale). Anche la vita spirituale non è un’ideologia, e neppure un’idealizzazione che si limita a sorvolare la realtà, come un cappello metafisico che fluttua. Terzo: la letteratura è uno strumento di precisione come pochi altri, poiché si pone al livello della singolarità, libertà e tragicità della vita (riesce a mettere in relazione l’io e il noi, l’ardentemente personale e l’avventura collettiva, ma anche la grazia e il peccato, l’incontro e la solitudine, il dolore e la redenzione). La vita spirituale non è prefabbricata: è coinvolta nella radicale singolarità di ogni soggetto. Per darle carne, devono esserci un volto e un nome. Per questo è naturale che lungo il nostro cammino andiamo cercando il contributo della letteratura.

Parlare della sete è parlare dell’esistenza reale e non della fiction di noi stessi a cui troppe volte ci adattiamo. È illuminare un’esperienza, più che un concetto. È lasciare che il corpo esprima quel che siamo, nella sua levità e nel suo peso, nella sua unità e nelle impasse che ci dividono, nell’entusiasmo e nella frustrazione, nella fatica e nel giubilo di essere. È ingaggiarsi in una auscultazione profonda della vita. La sete ci esprime. Ma può avvenire che proviamo la più grande difficoltà perfino ad ammettere di essere assetati. Tutto sembra andare avanti senza particolari scossoni. Per questo reagiamo con imbarazzo e ci chiediamo: ma assetati di che? Di chi? Può avvenire che, immersi nella nostra routine quotidiana, sconfessiamo i sintomi della sete e, a un certo punto, questi divengano incomprensibili quanto una lingua straniera a cui non siamo iniziati. Eppure, la necessità vitale di rigenerazione è da sempre incisa nella nostra carne. Non possiamo fare come se la sete non esistesse. Anzi, proprio dal metterci in suo ascolto dipende la qualità spirituale della vita. Ascoltare la propria sete è interpretare il desiderio che è in noi. E, in questo senso, è certamente importante approfondire il senso di questa parola.

Nella parte finale del Simposio di Platone appare un’interpretazione del desiderio che segnerà la storia dell’Occidente fino ai giorni nostri. Il desiderio vi è inteso come mancanza, ha l’accezione di carenza. Secondo il mito greco, l’amore è figlio di Penia (che rappresenta la povertà e l’indigenza) e di Poros (che rappresenta i molteplici espedienti dell’ingegno). In quanto tale, esso non è uno stato di possesso, ma di desiderio incessante della verità, della bellezza e della bontà che gli mancano. Quando amiamo, che cosa succede? Accade questo: l’amore desidera i beni che non ha in se stesso. La vocazione di chi ama è perciò una vocazione di questuante: intraprende il suo cammino nello sconforto delle mani vuote; dorme all’addiaccio; veste da straccione come un mendicante. Ha ricevuto giusto le risorse per attrarre ed essere attratto, cioè ha ricevuto la sete. E così vive. Per questo dobbiamo distinguere il desiderio da una mera necessità, che si placa e si soddisfa col possesso di un oggetto. Non andiamo a confondere il desiderio coi bisogni. Il desiderio è una mancanza mai completamente soddisfatta, è una tensione, una ferita sempre aperta, un’interminabile esposizione all’alterità.

Oggi diviene sempre più chiaro che le società capitalistiche, organizzate attorno al consumo, che sfruttano avidamente le compulsioni di soddisfazione di necessità indotte dalla pubblicità, stanno in pratica rimuovendo la sete e il desiderio tipicamente umani. Il discorso capitalistico promette di liberare il desiderio dalle inibizioni della legge e dalla morale in nome di una soddisfazione illimitata. Ma quando il piacere, la passione, la gioia si esauriscono in un consumismo sfrenato, tanto di oggetti come di persone, arriviamo all’estinzione della sete, all’agonia del desiderio. La vita perde il suo orizzonte. I tetti diventano sempre più bassi.

C’è nelle nostre culture, e allo stesso modo nelle nostre Chiese, un deficit di desiderio. Quando si nota, nel momento attuale, l’emergere, e su scala sempre più grande, di soggetti senza desiderio, questo deve condurci a un’autocritica ecclesiale. Noi battezzati formiamo una comunità di desideranti? I cristiani possiedono sogni? La Chiesa è un laboratorio dello Spirito dove, come nell’oracolo provocatore di Gioele (3,1), i nostri figli e figlie profetizzano, i nostri anziani hanno sogni e i nostri giovani costruiscono nuove visioni, non solo religiose, ma anche nuove comprensioni culturali, economiche, scientifiche, sociali? La Chiesa ha fame e sete di giustizia (Mt 5,6)? I cristiani aspettano davvero, secondo la promessa, «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia » (2Pt 3,13)? Forse noi cristiani dobbiamo valorizzare di più la spiritualità della sete. Abbiamo forse bisogno di ritrovare il desiderio, la sua itineranza e apertura, più che non le codificazioni in cui tutto è già previsto, stabilito, garantito. L’esperienza del desiderio non è un titolo di proprietà o una forma di possesso: è una condizione di mendicità. Il credente è un mendicante di misericordia.

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