OCSE-PISA, STIPENDI QUOTA MAGGIORE DI SPESA PER ISTRUZIONE

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DIVARI STUDENTI DOVUTI A QUALITÀ INSEGNAMENTO, OK AUTONOMIA Gli stipendi e la formazione degli insegnanti rappresentano la quota maggiore della spesa per l’istruzione in ogni Paese. E’ quanto rileva un Rapporto Ocse-Pisa sulla scuola, secondo cui non tutti gli studenti hanno pari accesso ad un insegnamento di alta qualità e questa disuguaglianza può spiegare gran parte dei divari di apprendimento osservati tra gli studenti più favoriti e quelli svantaggiati. (ANSA).

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B). Foglietto Letture e Salmo

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO  (ANNO B)

Grado della Celebrazione: DOMENICA
Colore liturgico: VERDE

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Una volta seminato nel cuore dell’uomo, il regno di Dio cresce da sé. È una meraviglia di Dio tanto grande e tanto bella
quanto grande e bella è la crescita delle piante, e tanto misteriosa quanto misteriosa è la trasformazione di un bambino che cresce e diventa uomo. Così la crescita del regno di Dio non dipende dalle forze umane; essa supera le capacità umane poiché ha in sé un proprio dinamismo.
Questo messaggio è un messaggio di speranza, poiché, adottando una prospettiva umana, potremmo dubitare del trionfo del regno di Dio. Esso si scontra con tanti ostacoli. Esso è qui rifiutato, là respinto, o, in molti luoghi, sconosciuto del tutto. Noi stessi costituiamo un ostacolo alla realizzazione del regno di Dio con la nostra cattiva volontà e con i nostri peccati. È bene dunque che sappiamo che, a poco a poco con una logica che non è quella umana, con un ritmo che a noi sembra troppo lento, il regno di Dio cresce. San Paolo, che era ispirato, percepiva già i gemiti di tale crescita (Rm 8,19-22). Bisogna conservare la speranza (Eb 3,6b). Bisogna ripetere ogni giorno: “Venga il tuo regno!”. Bisogna coltivare la pazienza, quella del seminatore che non può affrettare l’ora della mietitura (Gc 5,7-8). Bisogna soprattutto non dubitare della realtà dell’azione di Dio nel mondo e nei nostri cuori. Gesù ci dice questo poiché sa che il pericolo più grande per noi è quello di perdere la pazienza, di scoraggiarci, di abbandonare la via e di fermarci. Noi non conosciamo né il giorno né l’ora del nostro ingresso nel regno o del ritorno di Cristo. La mietitura ci sembra ancora molto lontana, ma il tempo passa in fretta: la mietitura è forse per domani.

Una fede a schemi non funziona più

Ottava puntata della rubrica «Verso il Sinodo sui giovani», firmata da don Armando Matteo sulla rivista Vita pastorale, che ringraziamo per il consenso a riprendere l’appuntamento mensile anche su Settimana News. Di seguito gli interventi finora pubblicati: Crescere in una società senza adulti /1Se credere non è più di moda /2Ripartire dagli adulti /3La vocazione all’adultità /4La domenica al centro /5Insegna a pregare /6; Credi di più nella Bibbia /7.

Un’altra urgenza si impone oggi alla Pastorale giovanile vocazionale: quella di uscire dagli schemi. Essa, infatti, non può più fare affidamento ad un’immagine standardizzata del cammino nella fede da parte delle nuove generazioni. Un’immagine cioè ben definita e completa, fatta di tappe e scansioni cronologiche nette, con tanto di sacramenti e di impegni precisi. A causa dell’imporsi della crescente longevità, le nostre esistenze si evolvono verso modelli più aperti, più distesi, con passaggi meno definiti e più soft tra quelle che sono state sinora le diverse fasi dell’esistenza. Senza dimenticare che oggi ciascuno ha davanti a sé la sfida di reggere ad una vita che facilmente toccherà anche gli 80 e i 90 anni!

A fronte di tutto ciò, ereditiamo un cristianesimo che è stato pensato per persone con una speranza di vita media piuttosto limitata, precocemente chiamate ad assumere impegni lavorativi, familiari e procreativi. Questo comportava la necessità di un investimento catechistico significativo nell’età dell’adolescenza e un restare a disposizione, da parte della comunità ecclesiale, per eventuali “tagliandi” dell’anima qualora ce ne fosse stato bisogno. La stessa condizione di mortalità, assai percepita nel passato, era una buona premessa per una qualche configurazione personale di moralità.

Oggi siamo da tutt’altra parte. È scomparsa l’urgenza dell’educazione, del desiderio del rendere al più presto autonomi i propri “cuccioli”, dell’istruirli ed instradarli verso la qualità adulta dell’esistenza umana e del mondo. Un riscontro lampante di tutto ciò è dato per esempio dall’allungarsi dei tempi della formazione scolastica, che prevedono anche dopo la laurea (sic!) una quantità infinita di master e corsi di specializzazione.

Continuare ad immaginare un’introduzione all’esperienza della fede cristiana standardizzata rischia di fare un bel buco nell’acqua. Certo, nel campo dell’iniziazione cristiana, servono gli schemi, le tappe, le guide…, ma è fuori discussione che tutto ciò non funziona più come prima. La vera urgenza è quella di aiutare ciascun giovane a trovare la propria strada verso l’incontro con il Dio del vangelo, facendo memoria della fondamentale verità espressa da Benedetto XVI nellaDeus caritas est: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

Per la Pastorale giovanile vocazione non si tratta più della consegna di un pacchetto di dottrine e di istruzioni, valevoli per tutti e per ogni occasione dell’esistenza. È tempo, piuttosto, di invitare ciascuno a percepire l’amore di Dio e di accompagnarlo ad assumere lo sguardo di Gesù sulla propria vita, sul mondo e su Dio. Il tempo che viviamo ci offre un’inattesa opportunità. Con i giovani di oggi non c’è più bisogno di aver fretta. Si può  concedere loro di far bollire le domande e i dubbi, di far decantare le loro precedenti attese deluse da parte della Chiesa, dei preti, di una certa immagine di Dio stesso; e di potersi aprire alla gioia del Vangelo.

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Parlare di pigrizia nel tempo di Internet

Sosteneva Hofmannsthal ne Il libro degli amici che «vi è negli spiriti superiori una pigrizia feconda e una improduttiva, ed esse sconfinano apparentemente l’una nell’altra in una regione che si sottrae al nostro sguardo».

Parlare di pigrizia nel tempo di Internet, quando tutto è stato accelerato e viviamo correndo, diventa quasi una necessità. E poi di pigrizia ve ne sono di diversi generi, oltre i due indicati da Hofmannsthal, tanto che è possibile confonderli anche con la legittima difesa; comunque, questa – definiamola così – «sonnolente presenza» non va confusa con l’ozio.

Chi volesse conoscerla meglio, dovrebbe risalire il tempo di un’ottantina d’anni e andare ad ascoltare un singolare discorso che lasciò molti presenti a bocca aperta. Vediamo data, persona e luogo.

Il 17 novembre 1936, Jacques Leclerq, moralista e sociologo, docente all’Università di Lovanio, era accolto nella Libera Accademia del Belgio. Per rispondere alle felicitazioni a lui indirizzate, pronunciò un «Elogio della pigrizia». Ora il Centro editoriale dehoniano di Bologna l’ha tradotto con una nota di lettura di Enzo Pace (EDB, pp. 56, euro 6,50) e con il «Supplemento» che l’autore scrisse dopo la Seconda guerra mondiale.

Leclercq non fu soltanto un teologo o filosofo, ma – come nota appunto Pace – seppe essere uno studioso impegnato attivamente nella vita sociale del suo Paese e un poeta. Un suo verso, amato da Chiara Lubich, la fondatrice dei Focolarini, recita: «Verrò verso di te, con il mio sogno folle: portarti il mondo fra le braccia». Inoltre fu anche un grande esperto di pigrizia.

Il libretto delle edizioni EDB fa parte di quel genere che un tempo si definivano «da comodino» e ogni sera sarebbe opportuno leggerne una pagina. Aiuta a riflettere e a porsi domande non banali.

Osservazioni garbate, qua e là vene d’ironia. Si chiede: «Avete notato che, per ammirare, occorre fermarsi? E per pensare, pure?». Domande, queste ultime, che contengono una forte polemica contro le visite veloci a città o musei; o sbugiardano i ragionamenti improvvisati. La bellezza, sembra sussurrare Leclerq, ha bisogno di tempo; le scelte della vita, di calma.

Dal «Supplemento» riprendiamo due osservazioni: «Se non ci sono più le distanze, non c’è più il movimento»; oppure: «Le nuove Carmelitane praticano la contemplazione, lavorando come operaie o commesse di negozio». Riguardano, la prima, i viaggi di tutti, in un mondo che si sposta continuamente, fa le medesime cose ovunque e non sa più osservare. E, la seconda, la nuova religiosità. Senza il tempo che caratterizza il sacro, che cosa è possibile comunicare al mondo?

Non sono che due esempi, ma si potrebbe continuare. Ci fermiamo per onorare la pigrizia.

Riprendiamo la presentazione del volume di Jacques Leclerq, Elogio della pigrizia (EDB, Bologna 2017, pp. 56, € 6,50), firmata da Armando Tornoper Il Sole 24 ore lo scorso 1 giugno 2018 (disponibile online a questo indirizzo).

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La ricerca storica su Gesù

Un altro interessante libro sul problema del rapporto tra il Gesù storico e il Cristo della fede. Frutto di un convegno organizzato dalla Pontificia Università Lateranense nel 2016, il volume raccoglie 9 voci di specialisti in materia e di diversa provenienza.

Con competenza e coraggio essi tentano un largo ragguaglio su quanto è stato prodotto al riguardo dalla svolta illuministica a oggi e ripropongono ancora quel problema, focalizzandosi in particolare sulla necessità imprescindibile di tenere collegati i due poli: quello della ricerca scientifica razionale e quello della tradizione cristologica sviluppatasi nella/e Chiesa/e e già presente nei testi sacri del NT. Ottima intenzione. La risposta è ancora, per vari aspetti, sconcertante. Fin quando lo sarà?

L’intervento dell’ormai famoso ricercatore americano John Paul Meier, autore tra l’altro di già 5 grossi volumi su Gesù un ebreo marginale, ne è una prova. Pur con tutte le sue precisazioni e motivazioni, non potrà non sconcertare molti lettori la sua tesi che «solo 4 parabole evangeliche» possono risalire a Gesù (pp. 70-73), e così per altri aspetti della vita del Nazareno.

Analoga impressione di fronte alle tesi di Giorgio Jossa sui cambiamenti avvenuti nella mentalità e nella predicazione di Gesù in particolare sul Regno dei cieli: nessuna preclusione all’idea di uno sviluppo in Gesù (se è vero che anch’egli «crebbe in sapienza, età e grazia»), ma le ipotesi e le conclusione che l’illustre e stimato biblista espone non lasceranno tranquillo il lettore. È questa, del resto, la reazione che si prova da parte di molti, specialmente se inesperti, di fronte a tanti libri sulla ricerca del Gesù storico e del suo rapporto con quello cosiddetto della fede.

Benché anch’io ne abbia trattato varie volte a livello di studi insieme con la citata «scuola milanese preoccupata della singolarità di Cristo» (p. 182), tuttavia mi preme sempre anche la preoccupazione di orientare clero e laici di fronte a quelle ricerche e alla creazione continua di ipotesi e contro ipotesi (segno della debolezza di tanti studi biblici moderni, bisogna riconoscerlo).

Ebbene, mi piace suggerire a tutti di prestare molta attenzione agli interventi, riportati nel volume, di Romano Penna, Daniel Marguerat, Antonio Pitta e Nicola Ciola: dopo lo sconcerto per tanti dettagli, essi aiutano a recuperare una visione più completa e globale del Gesù storico e creduto dai primi cristiani: un Gesù cioè non solo “marginale” nel giudaismo, ma anche più unico che raro: per esempio per il suo specifico rapporto col Padre, per quello con la Toràh, per il suo stile e comportamento con ogni tipo di gente, per la sua ignominiosa e “maledetta” crocifissione seguita subito da sorprendenti atti di fede e di amore (Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, alcune donne e forse, almeno in parte, di Pilato stesso, che si decise a lasciare quel cartello sulla croce e a concedere onorata sepoltura a quel misterioso e intrigante personaggio).

Questo è il Gesù dei Vangeli e della Chiesa primitiva, un Gesù in particolare che appariva come uno alla pari se non addirittura al di sopra della divina Toràh (cf. il ben noto libro di Neusner e di altri ebrei moderni): aspetto, questo, un po’ troppo in ombra anche nel presente volume (oltre che nella tradizione cristologica ecclesiale e nella catechesi!).

Sul presente volume esprimo anche una sorpresa: si ha l’impressione che i singoli interventi si siano quasi ignorati l’un l’altro; comunque, il complesso merita senz’altro plauso e conforto, per un cammino tutt’altro che concluso, come gli stessi curatori riconoscono.

N. CiolaA. PittaG. Pulcinelli (a cura), Ricerca storica su Gesù. Bilanci e prospettive, EDB, Bologna 2017, pp. 224, € 22,00. 9788810410325

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Figure bibliche per tempi incerti

Teologia per tempi incerti: così titola un volume Laterza (Bari, 2018), a firma di Brunetto Salvarani. Riprendiamo la presentazione che ne ha fatto a Modena (29 maggio) Michelina Borsari. L’autrice di questo intervento, laureata in filosofia, è stata per 16 anni il cuore e il motore del Festivalfilosofia, che coinvolge le città di Modena, Carpi e Sassuolo.

Ci serve la Bibbia, afferma questo libro denso e ben scritto. È la Bibbia il farmaco capace di guarire i tanti mali da cui ci sentiamo circondati. E, se è ben vero che la Bibbia è lì da millenni, è però vero che 1) i tempi sono mutati e 2) non è neppure vero che la Bibbia è lì da migliaia d’anni se è rimasta un libro chiuso.

Rivincita di Dio o no?

Vediamo i tempi. Il libro prende avvio con una pittura di paesaggio a tinte piuttosto drammatiche. Cito: incerto, confuso, ansioso, depresso, autodistruttivo, rassegnato alla scomparsa dell’altro, decadente e decaduto… Lo avete riconosciuto nonostante il carico di colore: è il nostro tempo. Epoca del rischio e dell’incertezza – si dice –, come se ce ne fosse stata una in cui l’umano ha avvertito la sua vita come una traiettoria certa e sicura.

Il fatto è che, cito: siamo alla fine di un universo mentale, le Grandi Narrazioni hanno esaurito la loro forza propulsiva, non si intravedono modelli nuovi.

Persino le narrazioni delle fedi si sono fatte opache, afone, inservibili. Cito ancora: È l’intero convenzionale orizzonte religioso a essersi attorcigliato su se stesso e il cristianesimo tutto a essere andato in frantumi, rendendosi incomprensibile ai più e per molti versi innaturale. Tanto da sollevare una domanda inattesa: siamo gli ultimi cristiani? Ma come? Non eravamo nel momento della rivincita di Dio?

Contrordine: siamo nel tempo della rivincita di Dio ma, al tempo stesso, nell’epoca della sua sconfitta. Perché, se è vero che le religioni hanno acquisito visibilità nello spazio pubblico, è anche vero che non hanno per questo ripreso il dominio. In particolare, è dato per definitivamente concluso il regime di cristianità che ha plasmato la società e la cultura occidentali. Ne consegue un’indifferenza che aggrava il dramma dell’ignoranza religiosa in generale e della Bibbia in specie.

Ma, a ben vedere, la Bibbia – la Bibbia nella sua interezza col Primo e il Nuovo Testamento – per il cristianesimo romano è un’acquisizione recente, lanciata sul mercato dal concilio Vaticano II. 50-60 anni fa, l’arco di due generazioni. Prima di quella data, l’“Antico Testamento” restava la Scrittura ebraica, di fronte alla quale è convenuto durante l’intero millenario regime cristiano marcare la novità del Nuovo Testamento, che anche nel nome segnalava il suo carattere di superamento dell’Antico.

E giova ricordare che, sulla lettura della Bibbia, sulla possibilità di accedere direttamente al testo in lingua volgare, si era spaccata la cristianità. Così che quando, in qualche film, compare il Libro, state certi che si tratta di una Bibbia riformata.

La Chiesa di Roma e i suoi ministri no, non delegano, conservano – dobbiamo dire a caro prezzo – il monopolio della lettura. Tanto che, per la lunga e densa storia degli effetti della Bibbia – la suaWirkungsgeschichte –, si dovrebbe più precisamente parlare di effetti delle sue interpretazioni.

Ecco dunque che, mentre la Modernità avanza prepotentemente con tutte le sue liberazioni (compresa quella dall’analfabetismo), il Vaticano II compie finalmente il grande passo: l’Antico Testamento entra nella messa e si comincia a leggere. E subito la Bibbia cambia, come del resto recita l’antico adagio ermeneutico: Sacra Scriptura cum legente crescit. È cambiato il testo? Certo che no (anche se le traduzioni fanno molto…). Ma sono mutati gli occhi, il significato e la portata delle parole, i tempi.

Fragilità di Dio

E, dato che, come abbiamo visto, i tempi sono incerti, perché questo libro che presenta in sette capitoli altrettante figure bibliche non titola Una Bibbia per tempi incerti, bensì Teologia per tempi incerti?

Teologia, credo, perché quello che preme all’autore non è la narrazione biblica, ma l’immagine di Dio che veicola. E qual è questa immagine? Quella di un Dio fragile. Una teologia della fragilità di Dio corre trasversalmente alle sacre Scritture – al Primo come al Nuovo Testamento – e ritaglia storie e personaggi (Giona, Noè, Giacobbe, Giobbe, Qoelet, Gesù, la Chiesa) che tutti rinviano allo specchio umanissimo della fragilità. Tutti compaiono con caratteri umani (sono peraltro tutti quanti uomini!), né perfetti, né perfettamente virtuosi. Non quelli del Primo Testamento e neppure quelli del Nuovo, sulla virtù dei quali basterebbe la scena della croce dove i 12 se la sono svignata (ma le donne no).

Insomma, le figure che Brunetto Salvarani seleziona per noi illuminandole della luce e delle ombre dell’umana fragilità non compongono un martirologio e non hanno la postura esemplare dei santi. Sono dei poveri Cristi, come tutti noi.

Anche Cristo? Anche il Dio degli eserciti? Qui sta il portato teologico del libro e la sua ragion d’essere: la fragilità è carattere dei tempi e dell’uomo perché è innanzitutto un carattere di Dio. Proprio in ciò saremmo fatti a sua immagine e somiglianza.

In questa lettura ardita naturalmente Brunetto Salvarani non è solo: lungo tutto il libro scorrono note colte e informatissime su un dibattito che data dal secolo scorso e che si è venuto articolando in modo crescente, alimentandosi proprio di quella lettura ebraica che il Concilio ha consentito abbassando gli steccati. Alimentandosi in particolare della teologia della Shoah.

Teologia per tempi incerti

Ai Gentili

Chi tra i cristiani fosse restato al Dio onnipotente (e del resto… Credo in un solo Dio, padre onnipotente…) potrebbe doversi mettere a correre. Ma il libro dichiara che la lettura della Bibbia è utile anche per i Gentili, in particolare per i Gentili italiani, che – e non solo per ignavia loro – sono tra i più malati di ignoranza biblica.

E qui si avvertono i Gentili che, senza la Bibbia finirebbero per sfuggire non solo le grandi e piccole opere della cultura letteraria occidentale, ma anche quelle pittoriche e visive, anche quelle musicali, in una parabola lunghissima che giunge fino ai blues di Sonny Bono.

Concordo, non c’è dubbio: anche i Gentili debbono abbassare gli steccati e mettersi a leggere la Bibbia: si ritroverebbero a casa. È un argomento che basta? Mi permetto di aggiungerne un altro che traggo da La santa ignoranza di Olivier Roy, Feltrinelli 2009.

Il libro chiarisce un malinteso di base: la secolarizzazione unita alla mondializzazione non ha cancellato la religione, ma ne ha prodotto una mutazione; l’ha separate dal suo contesto culturale, facendola apparire nei termini di una “pura religione”. In tal modo le ha garantito autonomia e capacità di espansione oltre il territorio di appartenenza storica.

Ora, deterritorializzazione e deculturazione sono proprio la cifra di un nuovo religioso che, nella sua “purezza”, si fondamentalizza. Il ritorno del religioso non è solo una sorta di illusione ottica, è anche il teatro dell’avanzata di versioni religiose che rifiutano di essere ridotte a sistemi simbolici e che rendono esplicita la rottura con le pratiche e le culture dominanti. Insomma, la battaglia per la Bibbia e quella per la cultura possono rivelarsi la stessa e identica battaglia: quella contro l’ignoranza e contro i fondamentalismi che ormai corrono agili anche nelle nostre strade.

Però, caro autore, sarebbe meglio, per questi Gentili bendisposti, citare almeno un’edizione di questa benedetta Bibbia. E non ridurla ai commenti, più o meno aggiornati: di cui non si accontenterebbero.

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Nuovi “schemi di gioco” per la pastorale dello sport

Roberto Mauri è psicologo e formatore,  laureato presso l’Università Cattolica S. Cuore di Milano, che da anni si occupa del tema sportivo nella Chiesa. È stato anche referente per il CSI della formazione nazionale. Svolge attività in qualità di consulente strategico per aziende, enti ed associazioni, conducendo incontri e stage di aggiornamento sullo sviluppo organizzativo, la gestione dei processi di comunicazione e delle dinamiche di gruppo.  Collabora con il Master “Sport e intervento psicosociale” dell’Università Cattolica. È autore di testi e sussidi tra cuiGenitori a bordocampo. Passione sportiva, istruzioni per l’uso (In Dialogo, 2013), Allenatori – genitori. Percorsi di alleanza possibile (con G. Basso) eDirigere per gli altri. Come guidare i collaboratori sportivi (La Meridiana, 2014).

Non c’è che dire: Dare il meglio di sé è proprio un bel titolo per un “documento sulla visione cristiana dello sport e della persona” come quello appena pubblicato dal Dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita. Il titolo infatti coniuga in modo felice l’immaginario e la tensione al primato tipicamente sportivi con l’immaginario e la chiamata alla santità tipicamente cristiani. Aggiungiamo che solo fare il punto pastorale sul rapporto Chiesa/sport o almeno “cimentarsi” sul tema già esprime l’intenzione di “dare il meglio”.

Una riflessione opportuna

L’esigenza di un’autorevole riflessione su questa materia si avvertiva da tempo, sia in quanto l’ultimo documento della Chiesa italiana è del 1995 (CEI – Nota pastorale Sport e vita cristiana), sia per il crescente impatto nella vita di persone e comunità che il fenomeno sportivo ha fatto registrare in questi ultimi decenni, come lo stesso documento fa notare.

L’uscita del documento segnala che è tempo di rileggere in modo nuovo, con discernimento ma senza timidezze o reverenziali timori, il rapporto tra sport e pastorale: un rapporto fatto di luci e ombre, andato per certi versi “in crisi”, ma che – come per tutte le crisi – può rivelarsi, se ben affrontata, un’opportunità feconda per le domande e le aperture di senso che esso contiene ed esprime.

Anche se il documento non ne fa cenno, infatti, non è possibile prescindere dallo scenario delle emergenze pastorali da un lato (in particolare la pastorale giovanile, rispetto a cui lo sport è da sempre terreno elettivo e ad un tempo insidioso), dall’altro l’esigenza della Chiesa di non isolarsi, di uscire nel mondo ed essere presente nelle sfide e negli snodi vitali attuali.

Gioco a tutto campo

Utilizzando una metafora sportiva, possiamo dire che Dare il meglio di sé si propone di giocare a tutto campo: organizzando la “difesa” (dove appare ben coperta), occupando lucidamente il “centrocampo” (dove allarga gli spazi di gioco) e tentando ripartenze “in attacco” (soprattutto sortite in contropiede).

Sul primo aspetto (difesa) vi è la dichiarata esigenza di liberarsi dal sospetto e/o pregiudizio secondo cui la Chiesa abbia «un pensiero e approccio ostile rispetto allo sport … a causa di un atteggiamento negativo verso la corporeità». Un fraintendimento che il documento si preoccupa di smontare con un sintetico quanto puntiglioso excursus storico-pastorale.

Il “centrocampo” risulta – a parere di chi scrive – il comparto migliore, dove gli spazi e gli scambi si dilatano, respirano, si intrecciano in modo elegante ed efficace: bella al riguardo la risposta alla domanda «cosa è lo sport?», articolata in cinque parole chiave che colgono l’essenza ed il perimetro dello sport come “luogo di senso”: corpo in movimento, gioco, regole, competizione, pari opportunità. Una visione integrale e integrante del rapporto uomo-sport che consente di intrecciare corpo, anima e spirito, creatività e sacrificio, gioia e coraggio, uguaglianza e rispetto.

Si può allora tentare di infilare qualche ficcante contropiede, ribaltando punti di vista che sembravano scontati: così, ad esempio, il cristianesimo rifiuta di essere considerato solo una sorta di «marchio di qualità etica» dello sport, ma al contrario si propone come valore aggiunto, in grado di dare pienezza all’esperienza sportiva.

Dare il meglio di sé

Cambio di passo

Dare il meglio di sé va dunque inteso come “segno dei tempi pastorali”, a patto tuttavia di cogliere le opportunità che dischiude, dal momento che «lo sport apre alla ricerca sul significato ultimo della vita … ponendo in evidenza la tensione tra la forza e la fragilità, entrambe esperienze che appartengono necessa-riamente all’esistenza umana».

A questo riguardo il documento offre degli interessanti spunti per un “cambio di passo”, soprattutto quando in tema di sport riporta in primo piano attori prima sullo sfondo, come genitori e famiglie oppure i (social) media; o quando sottolinea l’importanza del lavoro di rete (o “di squadra”, dato il tema) tra le agenzie educative, superando l’ancora prevalente tendenza a operare per “compartimenti stagni” o per “addetti ai lavori”, oppure nell’estendere l’attenzione ai nuovi luoghi dello sport (parchi, centri fitness, spazi urbani).

Proposta debole

Tuttavia, a fronte dell’efficace analisi e discernimento del fenomeno sportivo è proprio sul versante della proposta pastorale che purtroppo il documento non sembra dare il meglio di sé, perdendo di originalità e incisività: mette ordine, sollecita energie, richiama al dovere …. ma manca di “profezia”!

Esso infatti ribadisce quanto già acquisito ed in atto, ovvero che la proposta pastorale del magistero «prende forma essenzialmente in un impegno educativo verso la persona», confermando il primato e la dominanza dell’approccio pedagogico, calibrato sui diversi ambiti e interlocutori quale paradigma di riferimento, pur segnalando l’esigenza di aggiornare e rilanciare con maggior autorevolezza e organicità percorsi e proposte formative.

È fuori dubbio l’importanza e la necessità dell’azione educativa ispirata alla visione evangelica dello sport, come pure appare evidente il ruolo dello sport per ricostruire il patto educativo. Sarebbe in questo senso già un ottimo risultato riuscire a formulare ed attuare nel concreto la strategia formativa auspicata nel documento a riguardo dei diversi soggetti e operatori pastorali, dagli educatori, ai genitori ai volontari e sacerdoti. Così pure sarebbe di grande utilità operare un discernimento e apprendimento su cosa e quanto degli approcci e modelli educativi adottati in ambito sportivo abbia o meno funzionato, sui motivi di successo o fallimento dei percorsi educativi e formativi condotti nei diversi contesti sportivi, ecclesiali e non, rispetto alle finalità pastorali ipotizzate.

Il documento, pur insistendo sul paradigma educativo non affronta questi aspetti e nemmeno offre indicazioni su come meglio delineare i futuri progetti e percorsi formativi, limitandosi a sollecitare un più deciso impegno in tal senso.

Un primo modo di rilanciare la pastorale dello sport è dunque quella di “credere fino in fondo” alla scommessa educativa e formativa, al di là della buona volontà e possibilità delle tante e diverse realtà coinvolte.

Il gioco è cambiato, cambiare gioco

Risolvere la proposta pastorale sullo sport restando nel solo paradigma educativo, per quanto necessario, non è tuttavia più sufficiente.

Occorre cambiare “schema di gioco”, perché il “gioco è cambiato”: occorre cambiare linguaggio, approcci e modelli di intervento perché il linguaggio, l’immaginario e l’esperienza sportiva è cambiata rispetto al passato. Oggi, ad esempio, in molti casi fare una “bella gara” e “bella figura” valgono quanto se non più di una brutta vittoria; così pure la narrazione dell’evento sportivo è condizione necessaria perché la prestazione sia riconosciuta.

In questo senso, il classico approccio educativo allo sport, palestra valoriale e sociale, rischia di non cogliere adeguatamente la nuova sensibilità ed immaginario. Oggi lo sport non è “metafora della vita” ma “la vita”; non è promessa di futuro ma acquista senso nel “qui ed ora”.

Vale anche per la pastorale dello sport la considerazione che “non siamo in una epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca”. Abbiamo bisogno di più coraggio e creatività. Si tratta di innescare un autentico processo di conversione, capace di andare oltre un cambiamento semplicemente “programmatico” per attivare un cambiamento “paradigmatico”.

Le sfide poste dal fenomeno sportivo in quanto tale, dal rapporto sport/giovani, sport/comunità cristiane chiedono nuovi schemi di gioco, ovvero un cambio paradigmatico, andare oltre l’approccio educativo per adottare un approccio antropologico all’esperienza sportiva, in grado di comprendere potenzialità, limiti, simboli, rituali, “sacralità” dello sport dall’interno e poterlo così “abitare” pastoralmente senza strumentalizzarlo o “redimerlo”, pur con retta intenzione. Poche esperienze umane sono al contempo così profondamente immanenti e nel contempo così aperte al trascendente, come lo sport.

Forse per “dare il meglio di sé” potrebbe essere interessante cambiare preposizione: da pastorale dello sport a pastorale nello sport.

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Dell’educazione (urgente) al filosofare

raffaello

Platone e Aristotele ne “La scuola di Atene” di Raffaello

(1) Nessuno dubita della razionalità delle teorie scientifiche: queste consistono in tentativi di soluzione di problemi, tentativi che vengono sottoposti ai più severi controlli. E se questi controlli smentiscono la teoria o le teorie proposte, se cioè le mostrano false, vale a dire le falsificano, allora è compito del ricercatore avanzare, creare, altre ipotesi da sottoporre ugualmente a controllo, nella speranza che qualcuno di questi «mondi possibili» riesca a render conto del problema affrontato. E ciò nella consapevolezza che anche la meglio consolidata teoria resta, per ragioni logiche ed epistemologiche, sempre sotto assedio.

La ricerca scientifica, in breve, procede per congetture e confutazioni, per tentativi ed errori. Evitare gli errori – ha scritto Karl Popper – è un ideale meschino: se ci confrontiamo con problemi difficili, è facile che sbaglieremo. E solo l’errore commesso, individuato ed eliminato costituisce «il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza» – conseguentemente, razionale non è un uomo che voglia avere ragione, quanto piuttosto un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori e da quelli altrui.

Dunque: esiste la storia della scienza, come storia di teorie tramite le quali si è cercato di risolvere problemi vecchi e nuovi; e la razionalità delle teorie scientifiche si identifica con la loro controllabilità e, quindi, nella scelta di quella teoria, se c’è, che, in confronto con teorie alternative, ha meglio resistito agli assalti della critica.

Ora, però, c’è anche una storia della filosofia – una storia di problemi filosofici, di teorie filosofiche, di controversie filosofiche. Problemi filosofici come i seguenti: Dio esiste o tutto si risolve nella più radicale immanenza?; il tutto-della-realtà è solo quello di cui parla o può parlare la scienza ovvero si può argomentare per concezioni che ci permettono di dire che c’è un al-di-là e che tutto non è destinato a finire in questo nostro mondo? È proprio vero che l’ateo è più scientifico o razionale del credente, ovvero l’ateismo è una scelta che talora viene camuffata da teoria razionale o addirittura scientifica? E poi: l’uomo è libero o determinato? L’uomo è quello descritto da Freud o quello che ci prospettano i comportamentisti? E che cosa è cambiato o cambia, per l’immagine dell’uomo, con l’avvento della teoria dell’evoluzione?

Problemi carichi di conseguenze morali e politiche sono quelli che fin dagli inizi i filosofi hanno affrontato con la proposta di quelle che sono le filosofie della storia: la storia umana è da sempre un campo aperto all’impegno morale, creativo e responsabile degli esseri umani oppure è una imponente realtà che si evolve seguendo ineluttabili leggi di sviluppo – leggi di decadenza, cicliche o di progresso?

Problemi filosofici ineludibili sono, inoltre, quelli relativi alla «migliore» organizzazione della convivenza umana – problemi, dunque, di filosofia politica: quand’è che si vive in uno Stato democratico? Quali istituzioni caratterizzano una società aperta? Dove stanno le differenze di fondo tra la società aperta e la società chiusa? Quali le «ragioni» della società aperta? Con quali argomentazioni più d’un filosofo, a cominciare verosimilmente da Platone, ha cercato di giustificare concezioni assolutiste, totalitarie, tiranniche del potere politico?

Interconnessioni con le questioni riguardanti l’esistenza o non esistenza di Dio, la natura dell’uomo e le concezioni dello Stato ci mostrano i problemi concernenti la giustificazione razionale o meno dei valori etici: ha ragione Pascal allorché afferma che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei padri e dei figli, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose» ovvero sono nel giusto i sostenitori del «diritto naturale», per i quali l’umana ragione sarebbe in grado di individuare e razionalmente fondare norme morali valide sub specie aeternitatis?

Ulteriori problemi di chiara natura filosofica: in che cosa consiste la filosofia? Attraverso quale criterio o quali criteri è possibile demarcare le teorie scientifiche da quelle filosofiche? Attraverso quali regole procedurali si pratica la ricerca scientifica? E queste regole valgono, per esempio, soltanto nel campo delle scienze naturali, come la fisica o la biologia, ovvero sono regole tramite le quali avanza tutta la ricerca, anche nell’ambito delle discipline umanistiche e, più ampiamente, delle scienze storico-sociali? Di fronte all’imponente storia delle arti figurative, della musica e dei vari generi letterari è possibile dire che l’arte è una forma di conoscenza attingibile con mezzi non scientifici?; regge o è davvero inconsistente, tanto per usare una espressione di N. Goodman, la «dispotica dicotomia» tra artistico-emotivo e scientifico-cognitivo?

Simile elenco, aperto e asistematico, di problemi filosofici potrebbe venire facilmente ampliato. Un solo altro problema – il problema di Pilato: che cos’è la verità? Insomma: cosa vuol dire che una teoria fisica è vera, che un teorema matematico è vero, che una teoria metafisica è vera, che una fede religiosa è vera?

(2) L’esistenza dei problemi filosofici è un dato irriducibile e ostinato. Le teorie filosofiche sono risposte a questi problemi. E la storia della filosofia è la storia della insorgenza di problemi filosofici, storia di tentativi teorici di soluzione di tali problemi, storia di dispute e di argomentazioni filosofiche.

Varie forme di ateismo e diverse teorie asserenti, invece, una realtà metaempirica; antropologie filosofiche, cioè immagini filosofiche dell’uomo; concezioni filosofiche dello Stato, vale a dire teorie di filosofia politica; filosofie del diritto, come quelle della tradizione giusnaturalistica ovvero la concezione del realismo giuridico o quella normativistica; filosofie morali; visioni filosofiche della storia; filosofie della matematica, quali il platonismo di Frege, il formalismo di Hilbert o l’intuizionismo di J.L.E. Brouwer e A. Heiting; gnoseologie: realismo, idealismo, scetticismo e, ancora, empirismo e razionalismo; filosofie della scienza: induttivismo, convenzionalismo, operazionismo, falsificazionismo; concezioni filosofiche dell’arte: realismo, idealismo, simbolismo ecc. – tutti tentativi teorici tesi, appunto, alla soluzione di problemi genuinamente filosofici. Una storia da dove emerge che, se c’è qualcosa di perenne nella filosofia, perenni non sono le soluzioni quanto piuttosto i problemi. Cosa che, insieme ad interrogativi che nascono e poi magari muoiono, capita talvolta anche nella scienza: la fisica nucleare di oggi è ancora una risposta alla domanda di Talete: di che cosa è fatto il mondo?

Le idee – ha detto Einstein – sono la cosa più reale che esista al mondo. E non ci vuole molto a comprendere che, tra queste «cose più reali», le più importanti storicamente, socialmente e personalmente sono proprio idee filosofiche: su Dio e la non esistenza di Dio; su questo o quest’altro o nessun senso della storia; sulla natura umana; sui princìpi dell’etica accettata; sulle regole della convivenza umana, cioè sul tipo di configurazione dello Stato e così via. Idee reali, importanti e non di rado disumane. La terra è inzuppata di sangue versato a causa o in nome di idee filosofiche. Non si uccide né si muore o ci si sacrifica per le leggi di Ohm o di Faraday. E concezioni fatalistiche e deresponsabilizzanti come le varie filosofie deterministiche della storia ovvero, ancora, teorie come quelle razziste o come i totalitarismi di destra e di sinistra non sono uscite da botteghe di artigiani ma dalla testa di filosofi il cui influsso nefasto si è diffuso come peste tra le masse.

(3) Ecco, dunque, una ragione di grande portata per una educazione generalizzata dei nostri giovani alla argomentazione filosofica, cioè alla discussione di concezioni filosofiche assorbite magari inconsapevolmente dalle persone con le quali sono venuti a contatto, dalle loro più o meno o nient’affatto guidate letture, dalle sempre più invadenti fonti di informazione.

Ma qui urtiamo nella difficoltà di maggior rilievo: come è possibile controllare idee tanto importanti e decisive come quelle filosofiche? Le idee filosofiche sono filosofiche e, in quanto tali, non scientifiche. Le teorie scientifiche sono controllabili in base a controlli fattuali – e, come sappiamo, la prova, nella vita come nella scienza, si ha dove si rischia: dove si rischia di fare fallimento. Dunque: di volta in volta, nel corso della ricerca scientifica si accetta, se c’è, quella teoria che, in confronto con le ipotesi alternative, ha resistito e resiste ai controlli più rigorosi.

Ora, però, simile procedura non è possibile per il controllo e la selezione delle teorie filosofiche: queste sono filosofiche esattamente per la ragione che non sono fattualmente controllabili, non sono cioè falsificabili in base al ricorso ai fatti. Le teorie scientifiche sono tali perché fattualmente falsificabili; le teorie filosofiche sono tali perché fattualmente non falsificabili. Difatti, se fossero fattualmente falsificabili sarebbero scientifiche e non filosofiche. Ma, allora, la razionalità è un attributo predicabile unicamente delle teorie scientifiche, mentre lo spettacolo offerto dai filosofi, anche dai più grandi e maggiormente influenti, è forse quello di tanti dogmatici muezzin che cantano ognuno la loro presunta incontrovertibile canzone dai loro magari prezzolati minareti?

(4) Sono, dunque, razionali soltanto le teorie scientifiche o c’è anche una razionalità filosofica? E se è possibile parlare di una razionalità delle teorie filosofiche, in che cosa consisterà mai questa razionalità? Ebbene, nell’orizzonte del razionalismo critico – cioè in base alle riflessioni e alle proposte che sono state avanzate da Karl Popper, Joseph Agassi, John Watkins e, soprattutto, da William Bartley – si può motivatamente parlare, con buone ragioni, di razionalità delle teorie filosofiche.

Questa la tesi proposta: le teorie scientifiche sono razionali in quanto controllabili tramite il ricorso ai fatti; le teorie filosofiche sono razionali se e in quanto sono criticabili. E una teoria filosofica risulta criticabile allorché può entrare in urto con un pezzo di Mondo 3 – un teorema logico, una teoria scientifica, un risultato matematico o, per esempio, un’altra idea filosofica – all’epoca ben consolidato e al quale all’epoca non si è ragionevolmente disposti a rinunciare.

Così, tanto per esemplificare, dato che non si dà passaggio logico da n, un numero quantunque elevato di osservazioni analoghe reiterate, al quantificatore universale x, non reggono le pretese dell’induzione per ripetizione; o ancora: se vale la legge di Hume, riguardante l’impossibilità logica di derivazione di asserti prescrittivi (norme etiche o giuridiche) da asserti descrittivi (teorie scientifiche o altri asserti descrittivi), risultano infondate tutte le varianti del giusnaturalismo; l’impossibilità della costruzione di un autopredittore scientifico devasta alla radice le pretese di quei filosofi che hanno creduto di essere venuti in possesso di ineluttabili leggi di sviluppo dell’intera storia umana; una attenta analisi del «circolo ermeneutico», così come è stato elaborato da Gadamer, mostra con tutta chiarezza che il metodo adoperato nella ricerca delle discipline umanistiche è lo stesso metodo usato dal fisico, dal chimico o dal biologo, mostra cioè l’inconsistenza della tradizionale distinzione tra l’Erklären (lo spiegare casualmente, tipico delle scienze naturali) e il Verstehen (l’intendere i significati, procedura che sarebbe tipica delle discipline umanistiche e delle scienze storico-sociali); l’immotivato dogmatismo e l’autocontraddittorietà del principio di verificazione costituiscono argomenti persuasivi in grado di far cadere l’idea neopositivistica stando alla quale i concetti e le teorie metafisiche sarebbero solo cumuli di nonsensi; se scientifiche sono unicamente le teorie fattualmente falsificabili, allora – nonostante le pretese in contrario – non possono venir dichiarate scientifiche concezioni come, per esempio, il materialismo storico-dialettico o teorie che si intrecciano o si combattono all’interno della tradizione psicoanalitica.

Dunque: razionali le teorie scientifiche in quanto controllabili fattualmente; razionali le teorie filosofiche in quanto criticabili teoricamente, cioè in base a idee e teorie all’epoca accettate e, per quanto consolidate, anch’esse non assolute e sempre sotto assedio. «Razionale» e «critico», pertanto, si identificano; e la falsificabilità delle teorie scientifiche è un caso della più ampia razionalità. Senza fine, quindi, la ricerca scientifica e senza fine l’indagine filosofica. Razionale il fisico, razionale l’ermeneuta, razionale il filosofo. E ciò anche se nel campo della filosofia verbosità, confusione e arroganza dogmatica sono «malattie» non sempre esorcizzabili e che difficilmente, invece, attecchiscono nel campo della scienza, dove in linea generale contra factum non valet argumentum.

Per concludere, questa la risposta di Isaiah Berlin alla domanda: a che cosa serve la filosofia? «Il fine della filosofia è sempre il medesimo: consiste nell’aiutare gli uomini a capire se stessi e quindi a operare alla luce del giorno e non, paurosamente, nell’ombra».

Dario Antiseri (Foligno, 1940) è uno dei più importanti filosofi italiani. Già professore ordinario di Metodologia delle scienze sociali, è fra i massimi specialisti del moderno pensiero liberale angloamericano e austriaco, da Popper a von Hayek, e autore di numerosi volumi e articoli. La sua grandeStoria della filosofia (con Giovanni Reale) è stata più volte riedita e tradotta.  Il testo che qui riprendiamo, in dialogo con la riflessione firmata da Silvano Petrosino (26 maggio), è stato pubblicato sulla rivista on-line VP Plus 20, il 9 giugno 2018.

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