Al via Miur Radio Network, la web radio delle scuole

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È nata Miur Radio Network – La voce della scuola, la web radio voluta dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per raccontare notizie, eventi, curiosità sul e dal mondo della scuola, in collaborazione con le migliori esperienze radiofoniche delle nostre istituzioni scolastiche.

Miur Radio Network, che si può ascoltare su www.miurradionetwork.it, è un progetto didattico innovativo che nasce nell’ambito del Piano Scuola Digitale per dare spazio al talento e alla creatività delle ragazze e dei ragazzi che già fanno radio nelle loro scuole e per raccontare insieme a loro cosa accade dentro e intorno al mondo dell’istruzione. La web radio è in onda da oggi. Ad animarla saranno studentesse e studenti con approfondimenti, interviste, interazioni per capire di più e meglio come sta cambiando la scuola, quali sono le migliori pratiche, quali sono gli eventi in programmazione e le opportunità da cogliere. Pur nella cornice istituzionale, la radio avrà, grazie alla collaborazione con le scuole, un punto di vista inedito e dal basso. Fra gli obiettivi, accorciare le distanze fra chi la scuola la vive e le istituzioni, raccontare passo passo cosa ‘bolle in pentola’ nel mondo scuola, con un linguaggio semplice e diretto. Promuovere valori positivi come il rispetto e il contrasto delle disuguaglianze, lo sviluppo sostenibile.

Nella prima fase sono previste due ore di programmi, dalle 14.30 alle 16.30 che saranno preceduti e seguiti da musica. La radio punta poi a diventare un vero e proprio network e nei prossimi mesi saranno costruite nuove collaborazioni per aumentare la programmazione. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito della radio e sui suoi social.

fonte: miur.gov.it

Chiesa e comunicazione: la pastorale 3.0

E’ stato Pier Cesare Rivoltella, docente di tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento all’Università Cattolica, a tenere la relazione sul tema centrale dell’Assemblea dei vescovi: Quale presenza ecclesiale nell’attuale contesto comunicativo. Un percorso che è partito dalla storia, dalla centralità della comunicazione per la vita della comunità ecclesiale per arrivare a chiedersi come l’attuale contesto interroghi la dimensione comunicativa e missionaria della Chiesa.

radioinblu.it

Pubblica amministrazione, primi effetti della riforma

da Avvenire

Pubblica amministrazione, primi effetti della riforma

Si notano i primi effetti della linea dura sull’assenteismo, con una riduzione del 10,6% in un anno dei giorni di malattia e la diminuzione dei certificati medici (da sette ogni dieci lavoratori del 2016 ai sei certificati ogni 10 del 2017) soprattutto per il calo delle assenze brevi di un giorno, mentre si riduce di quattro punti percentuali la percentuale di lavoratori con almeno un giorno di malattia sul totale (dal 33% del 2016 al 29% del 2017). Sono già 40 i licenziamenti disciplinari avviati ai sensi della nuova norma introdotta con la riforma Madia, considerando che nel 2017 complessivamente nella Pubblica amministrazione sono stati licenziate 324 persone, il 62,8% in più rispetto cinque anni prima, di cui quasi metà per assenze. Inizia a farsi strada il lavoro agile: già 4.210 dipendenti pubblici operano in telelavoro (800 in più in un anno), per lo più negli enti locali, e oggi il 5% delle pubbliche amministrazioni ha progetti strutturati di lavoro agile, un altro 4% lo pratica informalmente e quasi il 48% è interessata a una prossima introduzione .

Ecco le prime tracce della riforma Madia sulla Pubblica amministrazione, i cui impatti hanno ancora bisogno di tempo per diventare visibili. Ma al momento nei dati del pubblico impiego non c’è alcuna rivoluzione. I dipendenti pubblici italiani sono 3,2 milioni, ancora in calo perché gli effetti dei piani di assunzione inizieranno a dispiegare i loro effetti solo nel 2018, con 246mila persone uscite e non rimpiazzate dal 2008. Oggi la Pa italiana può contare su 70% in meno di dipendenti rispetto alla Germania, il 65% rispetto all’Inghilterra e il 60% della Francia. Pochi i volti nuovi, con appena 64mila “nuovi dipendenti pubblici”, mentre aumentano i precari, che raggiungono quota 314mila, 25mila in più rispetto al 2015, su cui ancora non si vedono gli effetti delle recenti politiche di stabilizzazione. Un personale vecchio – età media di 50,34 anni che cresce di sei mesi ogni anno, oltre 450mila over 60 – per il 62% costituito da diplomati, che fa sempre meno formazione (6/7 ore di media ogni anno). Lo stipendio medio è di 34.500 euro, sostanzialmente lo stesso dal 2009, con molte differenze tra i comparti, dai 138mila euro della magistratura ai 28,4 mila del personale della scuola. Ma la spesa per la collettività è sempre di meno: ammonta a 160 miliardi di euro il costo per tutto il personale della Pa, dieci miliardi in meno rispetto al 2009, un risparmio che porta l’Italia in linea con i principali Paesi europei. E ciascun cittadino italiano spende per il lavoro dei dipendenti pubblici 2.632 euro l’anno.

Sono i risultati dell’indagine sul lavoro pubblico presentata questa mattina da Fpa, società del gruppo Digital360, al convegno di apertura di Forum Pa 2018, che si è aperto con la lectio magistralis di Stephen Goldsmith. Il direttore del Programma di innovazione delle amministrazioni presso la Harvard University Kennedy School of Government ha presentato la sua visione di “governo con la rete”, per una Pa che deve aprirsi alla collaborazione con soggetti pubblici, privati e non-profit. «La Pa italiana si trova oggi sull’orlo del cambiamento possibile – commenta Carlo Mochi Sismondi, presidente di Fpa -. L’ultima stagione di riforma ha posto le basi per ridefinire i tratti e il profilo della Pa, ma al momento, almeno stando alle ultime rilevazioni disponibili, non si sono modificati i dati strutturali relativi al pubblico impiego: il numero dei dipendenti e la spesa per redditi di lavoro si riducono, anche se meno velocemente del passato, sono stazionarie le condizioni di invecchiamento, i divari retributivi le condizioni di precariato di migliaia di persone che lavorano nel pubblico. È ancora irrisorio l’investimento in formazione, pochissime sono le “facce nuove” e permangono gli interrogativi sulla tenuta strutturale del sistema del pubblico impiego alle sfide del cambiamento e alla crescita dei fabbisogni di cittadinanza e imprese. All’Italia serve oggi una Pa diversa in grado di ‘governare con la rete’, ossia uscire dal palazzo e interagire con i diversi soggetti attraverso una governance collaborativa. Servono profili diversi, in grado di adattarsi al cambiamento e alla trasformazione digitale in atto. Ora tocca al futuro Governo proseguire la strada della riforma, non con nuove leggi, ma applicando quelle che ci sono e senza perdere quanto di buono è stato impostato in questi anni. Non ci serve una nuova riforma da chiamare con il nome di un nuovo ministro, ma cura, accompagnamento e formazione. Non è più tempo di norme: comincia il tempo dei manuali e delle cassette degli attrezzi».

Lavoro / Alla ricerca di 50 nuovi specialisti e addetti

Alla ricerca di 50 nuovi specialisti e addetti

Ali Spa, Agenzia per il lavoro (Apl) a capitale italiano attiva dal 1997 nel nostro Paese nella consulenza e nei servizi nel settore delle Risorse Umane, è impegnata in un forte progetto di sviluppo territoriale, per ampliare la propria rete nelle aree dove non è ancora presente e per rispondere alla domanda di lavoro oggi in crescita in Italia.

L’obiettivo dell’Apl è quello di aprire nei prossimi mesi almeno dieci filiali in diverse province italiane, con particolare attenzione alla Lombardia, all’Emilia Romagna e al Veneto.

Per realizzare questo obiettivo, Ali Spa ha avviato un piano di ricerca di persone motivate e desiderose di condividere il progetto di crescita. Il piano è rivolto a circa 50 figure professionali, da inserire e far crescere nei prossimi mesi. I profili ricercati sono in particolare quelli di account, responsabile di filiale e district manager.

Per inviare le candidature e il curriculum, scrivere a: alispa@jobs.workablemail.com oppure consultare il sitowww.alispa.it.

da Avvenire

Papa: la Chiesa è donna e madre, come Maria

Papa: la Chiesa è donna e madre, come Maria

La Chiesa è femminile”, “è madre” e quando viene a mancare questo tratto identitario diviene “un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio”; quando “è una Chiesa maschile”, tristemente diventa “una Chiesa di zitelli”, “incapaci di amore, incapaci di fecondità”. E’ la riflessione offerta da Papa Francesco durante la Messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta, nell’odierna memoria della Beata Vergine Maria, Madre della Chiesa. Tale memoria ricorre quest’anno per la prima volta, dopo la pubblicazione – il 3 marzo scorso – del decreto “Ecclesia Mater” della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Per volontà dello stesso Pontefice, la ricorrenza si celebra il lunedì dopo Pentecoste, per “favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei Pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana”. Barbara Castelli per VaticanNews

La “maternalità” di Maria
Nell’omelia, Papa Bergoglio precisa che nei Vangeli Maria è sempre indicata come “Madre di Gesù”, non “la Signora” o “la vedova di Giuseppe”: la sua maternalità percorre tutte le Sacre Scritture, dall’Annunciazione fino alla fine. Una specificità che hanno compreso sin da subito i Padri della Chiesa, una dote che raggiunge e cinge la Chiesa.

“La Chiesa è femminile, perché è ‘chiesa’, ‘sposa’: è femminile. Ed è madre, dà alla luce. Sposa e madre. E i Padri vanno oltre e dicono: ‘Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre’. E in questo atteggiamento che viene da Maria, che è Madre della Chiesa, questo atteggiamento possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa che quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa”.

No a una Chiesa di zitelli
Solo una Chiesa al femminile potrà avere “atteggiamenti di fecondità”, secondo le intenzioni di Dio, che “ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada di donna”.

“L’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre. Quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile, senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità. Senza la donna, la Chiesa non va avanti, perché lei è donna. E questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così”.

La tenerezza di una mamma
La virtù che distingue maggiormente una donna, rimarca Papa Francesco, è la tenerezza, come Maria che “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”: prendersi cura, con mitezza e umiltà sono le qualità forti delle mamme.

“Una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza. Sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio. E, anche, un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore”.

da Avvenire

Investimenti militari e pace. Così la spesa in armi limita lo sviluppo e la democrazia

Missili Buk-M2 in una parata in Russia (Ansa)

Missili Buk-M2 in una parata in Russia (Ansa)

Il riarmo a livello mondiale non sembra arrestarsi. Secondo gli ultimi dati del Sipri la spesa militare mondiale nel 2017 è stata pari a 1.739 miliardi di dollari, dato in crescita rispetto al 2016. La maggioranza dei Paesi sta aumentando i propri arsenali e la produzione della ‘Pace’ sembra divenire sempre più difficile. I costi legati all’espansione della spesa militare sono diversi e sostanziali. Al fine di avere un’idea più compiuta del nocumento e dei rischi legati al riarmo in corso in particolare per un Paese come l’Italia, dobbiamo in primo luogo interpretare il termine ‘costo’ in un’accezione ampia andando a indicare non solamente un esborso monetario ma più propriamente un ‘disagio’ o una ‘privazione’. In sintesi, tre sono i costi da evidenziare, vale a dire un minore sviluppo economico, un indebolimento della democrazia e una maggiore insicurezza. Le spese militari, in quanto intrinsecamente improduttive, costituiscono un peso per lo sviluppo economico.

Una delle argomentazioni più utilizzate per giustificare un crescente impegno militare è quella che fa leva sullospillover tecnologico che deriverebbe dagli avanzamenti della tecnologia militare. In altre parole, secondo molti le attività di ricerca e sviluppo in ambito militare potrebbero generare innovazioni poi riutilizzabili in ambito civile. Questo convincimento è tuttavia sbagliato per una serie di ragioni. In primo luogo – in particolare per Paesi piccoli come l’Italia – il capitale umano impiegato nella ricerca militare è sottratto a quella in ambito civile. Tale distorsione nell’allocazione del capitale umano ha conseguenze spiazzanti sulla ricerca civile, dal momento che la disponibilità di risorse umane qualificate è limitata. In ogni caso, la più importante criticità della ricerca militare è la segretezza. Poiché i prodotti della ricerca in questo ambito dovrebbero essere destinati a realizzare un vantaggio concreto nei confronti di nemici, tradizionalmente i ricercatori e gli inventori che vi sono impegnati sono tenuti a rispettare vincoli di segretezza, che da un lato generano un ritardo nell’innovazione e dall’altro rendono impossibile sfruttarne i ritorni in ambito commerciale. Se quindi le innovazioni sviluppate nell’industria militare tendono a essere introdotte con ritardo, gli eventuali benefici per l’economia civile tendono conseguentemente a essere limitati.

Costo ancor più rilevante è quello legato all’indebolimento della democrazia. Alcuni avanzamenti tecnologici, tra cui i droni armati e i dispositivi d’arma autonomi (come i Killer Robot), infatti, destinati a cambiare la condotta della guerra, vengono solitamente indicati nel discorso pubblico come strumenti che aumentano i livelli di efficienza bellica, ma in realtà incidono sulla legittimità, la qualità e la solidità della democrazia stessa. Questo è particolarmente vero nel caso dei killer robot. Uno dei principi alla base delle società democratiche, infatti, è quello della responsabilità. Nelle democrazie i cittadini dovrebbero essere messi in condizione di identificare e valutare i responsabili delle azioni del loro governo, in particolare di fronte a scelte tragiche quali ad esempio quelle in merito alla partecipazione e alla condotta da tenere in guerra. Nel momento in cui una ‘macchina intelligente’ operi in maniera autonoma e brutale, potrebbe infatti innescarsi un meccanismo di negazione della responsabilità a causa del quale nessun soggetto vorrà essere chiamato in causa per risultati indesiderati. In parole più semplici: nel momento in cui un robot dovesse rendersi protagonista di stragi o uccisioni indiscriminate sorgerebbe un problema di attribuzione di responsabilità. Almeno tre soggetti potrebbero essere additati come responsabili: i programmatori e coloro che hanno sviluppato gli algoritmi di azione dei robot; il comando militare che ha decretato l’impiego delle macchine; i decisori politici che hanno deciso in favore dell’impegno bellico e della sua intensità. È chiaro che l’incertezza e la confusione nell’attribuzione di responsabilità sono sicuramente una buona notizia per i leader politici ma una pessima notizia per la democrazia.

Nella storia sappiamo, infatti, che non è infrequente che leader politici tendano a sminuire il proprio ruolo laddove le azioni di guerra siano state caratterizzate da gravi abusi e da violazioni dei diritti umani. Il caso delle torture di Abu Grahib in questo senso è emblematico: l’amministrazione Bush respinse una responsabilità diretta parlando di ‘mele marce’ e trasferendo in tal modo la responsabilità sui singoli soldati coinvolti. Tali meccanismi di negazione di responsabilità (il blame shifting) rappresentano un costo elevato per le democrazie e per la pace, in virtù del fatto che se i capi non sono chiamati a rispondere delle proprie azioni la prudenza dei leader democratici rispetto alla partecipazione ad azioni belliche tende ad attenuarsi diminuendo la probabilità di mantenimento della pace. In assenza di chiare responsabilità le guerre potrebbero dunque essere più frequenti e più sanguinose.

Ultimo tra i costi del riarmo, ma chiaramente non in termini di importanza, è l’aumento del livello di insicurezza. In linea generale, a dispetto del senso comune, la sicurezza di un Paese decresce al moltiplicarsi delle armi disponibili. L’aumento delle spese militari è infatti percepito come una ‘minaccia’ dagli altri Paesi che, di conseguenza, alzeranno a loro volta le proprie spese militari, con un effetto negativo sulla pace. Questa dinamica nelle rivalità più accese prende il nome di ‘corsa agli armamenti’ che è caratterizzata da instabilità. Paradossalmente, la mancata guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica a colpi di bombe atomiche ha convinto molti che la deterrenza sia una condizione intrinsecamente stabile e che una politica in questa direzione sia pertanto auspicabile. Anche questa tuttavia è una convinzione sbagliata ma sovente utilizzata per giustificare i processi di riarmo. Una delle condizioni essenziali della stabilità della Guerra Fredda, infatti, era la sua natura diadica. La presenza di soli due attori favoriva la stabilità al verificarsi di alcune specifiche condizioni. In presenza di una molteplicità di soggetti coinvolti, l’analisi e la gestione della deterrenza diviene più complessa e le condizioni che lasciavano pensare a un’intrinseca stabilità di tali scenari tendono a scomparire.

Per questi motivi è necessario provare a invertire la rotta e impegnarsi per il disarmo. L’Unione Europea in particolare si trova di fronte a un bivio. Da un lato i Paesi mantengono un proprio modello di difesa basato sull’esistenza di ‘campioni nazionali’ di proprietà pubblica (come nel caso di Leonardo ex Finmeccanica) in ambito industriale e dall’altro si dicono disponibili alla costruzione di una difesa comune. Questo scenario purtroppo presenta diverse problematiche. In primo luogo, la quotazione in Borsa dei gruppi industriali di proprietà pubblica spinge gli amministratori a muoversi finanche al di fuori del perimetro degli accordi internazionali sottoscritti e ratificati dai loro principali azionisti come ad esempio l’Att, il Trattato sul commercio delle armi, ratificato da tutti i Paesi Ue ma disatteso nei fatti. In secondo luogo tali gruppi al fine di generare i maggiori rendimenti possibili oltre ad aumentare l’offerta e la varietà di armamenti competono tra loro rischiando di minare anche le tradizionali alleanze politiche.

È necessario, quindi, rivedere la natura di aziende orientate al profitto dei gruppi industriali militari ma anche creare un’agenzia indipendente europea per il controllo del commercio internazionale di armamenti che abbia i poteri adeguati per limitare le esportazioni in linea con i trattati internazionali ratificati dai parlamenti. Questo è tanto più urgente se consideriamo il processo di creazione di una Difesa comune appena iniziato con la Pesco e con l’istituzione del fondo europeo per la Difesa. In questa fase iniziale sembra che i nuovi accordi europei non limiteranno gli impegni di spesa nazionali ma piuttosto si affiancheranno ad essi andando infine ad aumentare la spesa militare aggregata. Come detto, questo costituisce una fonte di declino economico e di svuotamento di significato delle democrazie con conseguenti ricadute sui livelli di sicurezza e Pace. Speriamo che le classi dirigenti abbiano la visione e la forza per invertire questa tendenza abbandonando i falsi convincimenti che le danno forma.

L’autore dell’articolo di questa pagina, Raul Caruso, ha appena pubblicato per Egea «Chiamata alle armi», libro sui costi della spesa militare.

da Avvenire

NEUTRINI ‘TRASFORMISTI’, APRONO LE PORTE ALLA NUOVA FISICA

HANNO ANCHE UNA MASSA, LE TEORIE ATTUALI NON LA PREVEDEVANO C’è la prova che le più misteriose e sfuggenti delle particelle, i neutrini, sono dei trasformisti: cambiano identità sfrecciando quasi alla velocità della luce dal Cern, dove vengono prodotti, ai rivelatori dell’esperimento Opera, nei Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Il risultato, pubblicato su Physical Review Letters, prova che queste particelle hanno una massa: una caratteristica non prevista dalle teorie attuali, che apre la via a una nuova fisica. (ANSA).

LA CASSAZIONE CONDANNA LO STATO, RISARCIRE ITAVIA PER USTICA

‘I MINISTERI DI DIFESA E TRASPORTI NON SORVEGLIARONO I CIELI’ Per ‘omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica’, il Ministero della Difesa e quello delle Infrastrutture devono risarcire la compagnia aerea Itavia, fallita dopo l’abbattimento del suo Dc9 caduto in mare il 27 giugno 1980 con 81 vittime per ‘l’esplosione esterna dovuta a missile lanciato da altro aereo’. Lo ha deciso la Cassazione confermando la responsabilità dei ministeri: tra qualche mese stabilirà se 265 milioni di euro bastano o sono troppi. ‘Inammissibile’ il ricorso dei dicasteri.

ansa