Quale senso potrebbe avere per la Chiesa una maggiore presenza nei luoghi laici di aggregazione giovanile (piazze, pub, discoteche…)? E secondo quali modalità? Le risposte di due giovani educatori

Il nostro cammino di avvicinamento al Sinodo incontra il tema della presenza della Chiesa nei luoghi non propriamente ecclesiali: che stile, che modo, che senso ha una presenza della comunità cristiana “fuori dal recinto” propriamente inteso?

Siamo partiti dall’interno: abbiamo rivolto le nostre domande a due ragazzi impegnati attivamente nella vita di fede. Maura Crepaldi, 29 anni, psicologa ed educatrice di un gruppo di 18enni in una parrocchia della periferia milanese, e Andrea Mobiglia, 25 anni, aderente al movimento di Comunione e Liberazione, studente di economia all’Università Cattolica di Milano.

Ecco le risposte di Maura e Andrea, che ringraziamo per la disponibilità

1) Quale senso potrebbe avere per la Chiesa essere presente nei luoghi laici di maggior aggregazione giovanile (piazze, pub, discoteche, etc.)? E secondo quali modalità?

Andrea

Credo che la chiesa, intesa come comunità cristiana, sia già presente nei luoghi di maggiore aggregazione; molti giovani che frequentano tali luoghi sono infatti cristiani, certo non tutti, e magari in alcuni luoghi sono solo una piccola parte, ma ci sono, nelle discoteche, nei pub, nelle piazze. La questione diventa allora di un altro tipo, cioè educare i cristiani (i giovani in questo caso) a verificare la pertinenza della fede in ogni ambito che vivono, infatti solo partendo dall’educazione si genereranno persone “diverse” e per questo testimoni di una vita viva. L’educare alla fede, alla familiarità con Gesù, è l’unico modo per generare cristiani vivi. E se una persona è viva si riconosce dal suo modo di porsi, dai suoi atteggiamenti, dalle parole, dai gesti, dalla sua bellezza e dalla sua sete di vita, testimoniando agli altri un modo più bello di stare davanti alle cose (le stesse che sono sotto gli occhi di tutti). Ai giovani non cristiani frequentatori delle stesse discoteche, dei pub e delle piazze non rimarrà altro da fare che guardare questi testimoni e interrogarsi, non sul perché loro sì e io no, ma sul cosa fare: stare a guardare o conoscerli? Questa risposta, mi preme sottolinearlo, non è dovuta a un problema organizzativo a cui si tenta di dare una soluzione, ma tenta di andare al cuore stesso della ragione per cui c’è la Chiesa: per rispondere alle esigenze ultime del cuore dell’uomo testimoniando l’incontro con Cristo.

Si possono certamente pensare a strutture o catechesi negli stessi luoghi, ma sono convinto che una conversione avvenga attraverso la testimonianza di una vita più bella piuttosto che da soluzioni all’esigenza di una presenza organizzata in strutture. Cosa diversa dalle strutture, infatti è un altro tipo di testimonianza, a mio parere molto bella o quanto meno interessante, è l’esperienza delle sentinelle del mattino (che non ho mai avuto l’opportunità di fare e che cito solo in quanto ho conosciuto dei ragazzi che l’hanno fatta).

Maura

Penso che la Chiesa, in quanto insieme di persone mosse da un desiderio comune di compiersi totalmente come uomini e donne, sia presente anche nei luoghi laici di aggregazione; non credo si possa fare una distinzione netta tra “Qui c’è la Chiesa” e “Qui non c’è la Chiesa”, in quanto questa non è una struttura solida, fissa e replicabile asetticamente, ma un’esperienza attiva e viva di persone che ha a che fare con un modo bello e profondo di vedere e vivere la realtà data interrogandosi sulle circostanze incontrate.

La domanda che possiamo porci è: come posso io cristiano affascinare chi mi sta attorno tanto da chiedersi il perché di tanta letizia? E come questo può essere visibile nel quotidiano, nei gesti che ognuno di noi compie ogni giorno (anche in discoteca) e non solo perché va Messa?

Penso che la difficoltà maggiore ora, soprattutto tra i giovani cristiani, sia proprio quella di affascinare, di attirare, di vivere in modo che gli altri guardando dicano “Anche io voglio essere felice così”. Ma ne siamo capaci? Ne siamo convinti? Solo così l’essere cristiano diventa “conveniente”, se riusciamo a capire che fa bene all’uomo, che investe tutto ciò che egli vive, comprese le piazze, le discoteche e i pub.

2) Dato che questi spazi sono luoghi d’intrattenimento spensierato, privi di grandi problematiche – tantomeno relative alla fede -, la Chiesa non corre il rischio di rendersi ridicola o di intimorire inutilmente?

Maura

Non penso che vivere secondo la Chiesa e seguire Cristo possa mai risultare ridicolo, né tantomeno intimorire. Penso invece possa essere un arricchimento proprio perché questa appartenenza ha a che fare con un modo di vivere la realtà che non si allontana dal reale e che cerca di affrontare ogni cosa che si vive con una coscienza consapevole e maggiore, con un domandarsi continuamente come le circostanze che uno vive abbiano a che fare con la propria crescita. La Chiesa in questo caso può portare un modo diverso di vivere a pieno anche questi momenti di intrattenimento in modo che possano lasciare qualcosa nei ragazzi che altrimenti corrono il rischio di viverli in maniera superficiale

Andrea

Se torniamo al discorso delle strutture più che intimorire o rendersi ricoli, sarà una presenza che non toccherà il cuore di nessuno. Per questo sostengo che l’unico modo per la Chiesa (struttura e comunità) è quello di essere se stessa: testimoniare Gesù Cristo negli ambiti in cui si trova, come si trova. Per fare un esempio concreto, può essere semplicemente un giovane che chiede a un altro di non bestemmiare perché è cristiano, oppure accompagnare a casa un ragazzo ubriaco abbandonato al bar dagli amici (ho un amico che ha fatto questo e da lì, solo da lì, da un incontro, è nato un dialogo).

 

3) A tuo parere, anche i luoghi ecclesiali di maggior aggregazione giovanile (scout, oratori, volontariato, etc.) sono spazi di svago e di divertimento ricreativo, nei quali si corre il rischio di porre la fede in secondo piano o di umanizzarla eccessivamente?

Andrea

Il rischio c’è, mi sembra evidente. Faccio un esempio relativo al volontariato. Qualche mese fa abbiamo fatto lacolletta alimentare con i ragazzi dell’oratorio (13-18 anni); prima di iniziare li abbiamo invitati a guardare quello che succede, a guardare la gratuità con cui la gente dona, a rendersi conto che quella giornata sarebbe stata totalmente un dono. Abbiamo anche sottolineato che loro non avrebbero fatto felice nessuno, dovevano solo raccogliere il dono degli altri e metterlo in alcuni scatoloni. Proprio questa “inutilità”, dicevamo loro, può essere d’aiuto per renderci conto di cosa succede nella mia vita, di cosa succede oggi, qui, ora! Non cito questo per dire che siamo stati bravi, ma perché sia chiaro quello che dico: davanti alla proposta della colletta alimentare uno può tornare a casa pensando solo al fatto che si è divertito e finisce lì. Oppure può tornare a casa con una semplice domanda: cosa è successo oggi? O anche: cosa succede nella mia vita? Cosa dice questa giornata alla mia vita? La proposta è la stessa, il tornare a casa è diverso. Come mai? Credo che per non ridurre tutto a uno sforzo volontaristico (cito questo in quanto ne stiamo parlando ma potremmo dire la stessa cosa per oratori, scout, associazioni, movimenti) serva l’incontro con una persona che abbia vissuto qualcosa di più grande di quello che appare.

Maura

Potrebbe esserci questo rischio, ma penso dipenda molto dal modo in cui le esperienze vengono presentate e vissute. Sabato siamo andati al palaghiaccio con una cinquantina di adolescenti e giovani: vivere questa esperienza con una coscienza di appartenenza e di familiarità bella sicuramente può fare la differenza; riprendere insieme il perché siamo insieme, cosa mi ha colpito della serata, porsi alcune domande, magari aiutati da qualcuno di più grande o da una guida, sicuramente aiuta a rimettere a tema ciò che si è vissuto, anche una semplice pattinata, e fare in modo che questa esperienza lasci il segno e non diventi semplicemente qualcosa di bello il cui ricordo scema in fretta.

 

4) Qual è il giusto equilibrio che deve mantenere la Chiesa tra richiesta e attesa di una vita di fede nei giovani? Tra presenza evidente o soffusa di elementi e simbologie religiose?

Maura

Penso che questa sia una sfida soprattutto tra i giovani: riuscire a far capire attraverso un’esperienza di vita e non in modo puramente teorico che vale la pena un’appartenenza alla Chiesa non è facile. Il salto che la Chiesa dovrebbe aiutare a compiere è il passaggio dall’«aderisco e seguo perché ho preso l’impegno di farlo», che a lungo andare non tiene più e che porta ad un moralismo sterile, al «aderisco e seguo perché capisco che mi fa bene e che mi aiuta». Solo così si può aiutare i giovani a vivere un cristianesimo pieno e vivo.

Andrea

Educare alla fede, rispondere quindi all’attesa del cuore di ogni uomo (in questo caso i giovani) è il compito della Chiesa; certamente l’incontro cristiano è totalizzante, nel senso che non si può chiedere di aderire a certe cose piuttosto che ad altre, o essere cristiani a volte sì a volte no: è un incontro che tocca tutta la vita. È un’esperienza, una vita, che chiede tutto. Più che di equilibrio parlerei quindi di un accompagnamento nella vita dei giovani, perché non stiamo parlando di un testo da imparare e ripetere, ma stiamo parlando di una vita sempre in movimento.

vinonuovo.it

Giornata diocesana della Vita Consacrata

Domenica 28 gennaio – IV Domenica del Tempo Ordinario

Alle 16 in Cattedrale, Celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo Massimo per le consacrazioni nell’Ordo Virginum e per la Giornata diocesana della Vita consacrata. La 22ª Giornata della vita consacrata, istituita da San Giovanni Paolo II per tutta la Chiesa, sarà invece celebrata nelle parrocchie o unità pastorali dove sono presenti le religiose o i consacrati, il venerdì 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore.

NOTE SULLA GIORNATA DIOCESANA DELLA VITA CONSACRATA

La Messa presieduta dal Vescovo Massimo Camisasca, fscb, sarà concelebrata dal Vescovo emerito Adriano Caprioli, dal Vicario episcopale per la vita consacrata, Mons. Francesco Marmiroli, dal direttore del Servizio Diocesano Vocazioni e Rettore del Seminario, Don Alessandro Ravazzini, dal Segretario dei Religiosi, P. Lorenzo Volpe, e dai Padri Cappuccini di Reggio, San Martino in Rio, dai Padri Servi di Maria della Ghiara, dai sacerdoti dei Fratelli della Carità, dell’Istituto Secolare Servi della Chiesa, della Fraternità missionaria di San Carlo Borromeo (Vescovado, San Giacomo città e San Valentino di Castellarano), della Comunità SacerdotaleFamiliaris Consortio, della comunità missionaria Regina Pacis (UP di Prignano).

Saranno presenti anche i giovani dello Studentato dei Cappuccini di Scandiano, come tutte le comunità Religiose femminili (tra cui numerose sorelle provenienti dall’India) con la Segretaria diocesana, Suor Rosanna Marmiroli (delle Piccole Figlie dei Sacri Cuori, comunità di Scandiano), le Carmelitane Minori della Carità (di cui alcune malgasce), le consacrate e i consacrati secolari, le donne consacrate nella vita eremitica, nonché le Sorelle dell’Ordo Virginum di Reggio Emilia-Guastalla, che accoglieranno con l’abbraccio di pace le due nuove consacrate: Chiara Franco, della parrocchia di Sant’Antonio città, docente all’università di Pisa e direttrice dell’Ufficio diocesano della Pastorale sociale e del lavoro, e Francesca Perricone, della parrocchia di San Girolamo di Guastalla e insegnante di religione in Diocesi.

Saranno presenti in comunione i monasteri di Correggio, Montecchio, Sassuolo, che, da tradizione, faranno dono del pane, del vino, dei fiori per la mensa eucaristica della celebrazione.

Tutti i religiosi, le religiose, i consacrati e le consacrate presenti, dopo la benedizione solenne di Chiara e Francesca, saranno invitati dal Vescovo Massimo a rinnovare il loro proposito di consacrazione, davanti al Signore e per questa Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla, che li accoglie.

La celebrazione sarà animata dal Coro Diocesano, diretto da Giovanni Mareggini. I cori delle parrocchie di provenienza di Chiara e Francesca, i religiosi e le religiose che desiderano aiutare nel canto, sono invitati ad unirsi al Coro Diocesano, che farà una “prova generale” a partire dalle ore 15 di domenica, direttamente in Cattedrale.

laliberta.info

Gesuiti a REGGIO e formazione sociale

Convegno sabato mattina alla sede Ifoa

In vista del convegno “Dalla formazione sociale all’etica civile. Una storia italiana, un’esperienza emiliana: la Scuola dei Gesuiti al Centro Sacro Cuore di Baragalla a Reggio Emilia”, che si tiene sabato 27 gennaio dalle 9.30 alle 13.30 presso la sede Ifoa di Reggio, in via Giglioli Valle 11, pubblichiamo un contributo di Luigi Bottazzi, autore fra l’altro di uno studio dal titolo “I Gesuiti a Reggio: uno sguardo d’insieme”, contenuto alle pagine dalla 102 alla 124 della Strenna 2016 del “Pio Istituto Artigianelli”.

Una realtà dimenticata o, comunque, poco conosciuta, quella della presenza a Reggio Emilia della Compagnia di Gesù, i cui membri (padri-sacerdoti e fratelli-collaboratori che avevano fatto i voti) provenivano dal Centro “San Fedele” di Milano, noti come editori della rivista “Aggiornamenti Sociali”. I Padri Gesuiti furono accolti provvisoriamente nei locali dell’ex-Seminario Urbano di Albinea, dal 1954 al 1958, per volontà del vescovo Beniamino Socche. Lo stabile era stato lasciato libero dalla Curia locale perché trasferirono, sacerdoti, docenti e seminaristi nel nuovo Seminario in circonvallazione alle porte della città.
Il primo nucleo dei Gesuiti si trasferì poi nella nuova “Casa” denominata Centro del Sacro Cuore, in località Baragalla. Una moderna costruzione edificata sui terreni del beneficio parrocchiale di Rivalta, su progetto dell’architetto Pierluigi Giordani, ad opera dell’impresa reggiana Pierino Benassi.

La missione che era stata affidata ai Gesuiti venuti a Reggio, per volontà dello stesso papa Pacelli ma con felici intuizioni di grandi personalità religiose e laiche del tempo (monsignor Montini, monsignor Pignedoli, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati), consisteva in un ampio spettro di azioni e di iniziative su tutto il territorio emiliano (ritiri ed esercizi spirituali, scuola di formazione sociale per giovani laici e preti, conferenze e incontri di associazioni cattoliche, gruppi di preghiera e di apostolato fin nelle più lontane parrocchie di montagna eccetera). Erano proprio quei territori che vedevano una massiccia presenza del potere comunista e un’insidiosa azione formativa e culturale anti-religiosa che ammaliava la “masse” popolari, a partire dai risultati elettorali fino a dominare ogni angolo della vita sociale.

Ne viene fatta un’analisi puntuale e approfondita in un ampio contributo storico inserito nella tradizionale “Strenna” degli Artigianelli della nostra città. Un saggio che, a parere di studiosi del movimento cattolico italiano, come il professor Giorgio Campanini dell’Università di Parma, come il professor Luciano Corradini dell’Università di Brescia, o come padre Gian Paolo Salvini, direttore emerito de “La Civiltà Cattolica”, ha il pregio di essere una prima ricerca in assoluto sul tema.

In grande sintesi si può tratteggiare così la presenza dei Gesuiti nella nostra realtà locale, tenendo presente che essi avevano lasciato la città nel lontano 1859, a seguito dell’Unità d’Italia e delle prime leggi di confisca dei beni ecclesiastici.
Il 10 maggio 1956 in località Baragalla avviene la posa della prima pietra da parte di monsignor Beniamino Socche, vescovo di Reggio Emilia, dell’erigenda Casa del Sacro Cuore, a cui diede un forte impulso il primo “superiore” padre Vito Maria Lorenzi s.j. (1914 – 2004). Il 28 ottobre 1956 con una suggestiva cerimonia nella piazza del Duomo a Reggio, papa Pio XII da Roma accende via radio la lampada multicolore posta davanti alla statua del Sacro Cuore di Gesù (opera della nota scultrice Carmela Adani), poi innalzata su apposito traliccio, come simbolo di amore nella fede verso le genti emiliane ancora abbacinate dal verbo materialista e comunista.

laliberta.info

Sei mesi fa moriva Charlie Gard: il bambino che ha scosso il mondo

Debora Donnini-Città del Vaticano

E’ di giovedì scorso la notizia: la Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha stabilito che sospendere i “trattamenti nel caso di un minore in stato vegetativo è conforme alla Convenzione”. Così, contro il parere dei genitori, i medici potranno sospendere i trattamenti vitali a Inès, una ragazza francese di 14 anni. Già affetta da una malattia neuromuscolare autoimmune, lo scorso giugno la giovane è stata colpita da un arresto cardiocircolatorio, che l’ha portata allo stato vegetativo. Ma la respirazione e la nutrizione artificiale le consentono di vivere e i genitori vogliono prendersi cura di lei. Per questo hanno ingaggiato una battaglia legale nei tribunali francesi, che li ha portati fino alla Corte di Strasburgo. Una vicenda che riporta alla memoria quella di Charlie Gard.

Charlie Gard: il bimbo che ha commosso il mondo

Proprio 6 mesi fa, veniva infatti interrotta la respirazione artificiale al bimbo inglese affetto da una rara malattia genetica. Charlie moriva alla vigilia del suo primo compleanno. Per mesi e mesi i genitori si erano battuti perché Charlie potesse accedere ad una cura sperimentale negli Stati Uniti e non gli fossero staccate la macchine come volevano i medici dell’ospedale londinese dove era in cura e dove era seguito dalla tutrice che gli era stata destinata. Anche qui, ne era scaturita una battaglia legale in diverse aule di tribunale.

L’ultima “battaglia”

Nel corso dell’ultimo confronto, davanti all’Alta Corte di Londra, era stato concesso che un’équipe internazionale coordinata dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù con il  neurologo “padre” della terapia sperimentale, visitassero il bambino. Ma il danno muscolare sembrava troppo avanzato, dicono i genitori che a quel punto rinunciano alla battaglia legale non senza denunciare i ritardi e ribadendo che si dovesse intervenire subito per tentare il tutto per tutto per salvare il piccolo. Charlie, che avrebbe compiuto 1 anno il 4 agosto, morirà invece in un hospice, non a casa come avevano chiesto i suoi genitori. “Il nostro splendido bambino se n’è andato. Siamo veramente orgogliosi di Charlie”, erano state le parole dei genitori Connie e Chris.

Gli appelli per Charlie

Dal Papa a Trump, dal cardinale Bassetti, presidente della Cei, a tantissimi cittadini con manifestazioni nelle Piazze reali e virtuali e con petizioni era stato chiesto che fosse data una chance al bimbo. Con lacrime e fiato sospeso il mondo aveva seguito la vicenda. A sei mesi dalla sua morte, ne parliamo con Assuntina Morresi, editorialista di Avvenire e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ha recentemente scritto un libro sulla vicenda del piccolo Charlie: “Charlie Gard. Eutanasia di Stato”.

Il miglior interesse

“La storia di Charlie Gard è stato un evento sentinella perché quando uno arriva a dire che il miglior interesse di una persona è morire, vuol dire che non c’è più l’orizzonte del favor vitae, cioè la vita non è più la bussola di riferimento” afferma la Morresi.

Ventilazione e nutrizione artificiale

“Il punto era che questo bambino, pur in condizioni gravi per ammissione dei medici, era comunque attaccato non a chissà quali macchine, ma a un ventilatore artificiale e veniva nutrito artificialmente. Per il resto tutti gli organi funzionavano” spiega, mettendo anche in evidenza che “non c’era prova che soffrisse, alcuni medici dicevano che era probabile, ma era continuamente sedato con la morfina perché i medici non avevano voluto fare la tracheostomia, cioè la ventilazione con il tubo in gola ma avevano lasciato la ventilazione con i tubi infilati nel naso, che è più invasiva: la tracheostomia si fa per malati cronici mentre i medici pensavano che questo bambino doveva essere fatto morire subito”.

C’è una vita non degna di essere vissuta?

Tra l’altro, sperimentare la terapia aveva come effetto collaterale la diarrea. La Morresi, infatti, nota che “se da un punto di vista professionale è legittimo per un’équipe medica rifiutare un trattamento sperimentale, è stupefacente pensare che l’unica possibilità di sperimentazione che dà solo la diarrea sia negata perché non costava niente farla, si poteva fare quasi come cura palliativa, in parallelo”. “Negarla”, quindi, è stato proprio sottolineare il fatto che si ritenesse “talmente bassa questa qualità di vita che non valeva la pena viverla. Il loro problema era la sofferenza del vivere, non il dolore fisico”. “Parliamoci chiaro – prosegue la Morresi –  il dolore fisico fortunatamente ai nostri tempi si può sempre sconfiggere, controllare”.

Atteggiamento eutanasico

Quindi il problema non è la sofferenza fisica, non lo sarebbe stata neanche quella psicologica se fosse stato più grande, il problema era che quel bambino – secondo loro – non aveva una vita degna di essere vissuta, perché non parlava, non si poteva muovere, non piangeva e perché era destinato a morire”. E quindi, “anziché preoccuparsi di accompagnarlo alla morte, anche in queste condizioni sicuramente gravi, il problema è stato come accorciare la sua vita, e questa è eutanasia”, sostiene ancora la Morresi, che si chiede: se ci mettiamo a misurare quando la sofferenza del vivere è tale per cui è meglio morire, chi stabilisce quale sia “il limite per cui una vita non vale la pena che sia vissuta, nel momento in cui riesco a controllare il dolore fisico, a sopportarlo? Questo è l’atteggiamento eutanasico”.

La volontà dei genitori

C’è un’altra questione che ha fatto sollevare l’opinione pubblica, specialmente attraverso i Social, e cioè che in qualche modo ospedale e giudici si sostituissero alla volontà dei genitori. La Morresi esprime preoccupazione su questo aspetto. “È chiaro che se i genitori non fossero stati in grado di prendersi cura del bambino, questo provvedimento sarebbe stato logico, la cosa che ha lasciato esterrefatti è stato che i genitori fino alla fine hanno dovuto dare il consenso per la TAC, per le ultime analisi cliniche, quindi i genitori erano considerati perfettamente in grado di avere cura del bambino ma non in grado di stabilire il suo migliore interesse”, ricorda.

Chi decide della vita di una persona?

“Ora il problema non è solo chi decide, perché ci può stare qualche caso in cui i genitori non sono in grado di prendersi cura del bambino e decide un tribunale al posto dei genitori. Ma il problema è cosa si decide: è possibile decidere della vita o della morte di una persona?”, si chiede. “Quando un giudice o la famiglia, se vogliamo andare fino in fondo, decide della vita o della morte di una persona, questo è ammissibile in una società civile?” prosegue, sottolineando che “in nome dell’auto-determinazione arriviamo all’etero-determinazione più netta, tanto è vero che i genitori di Charlie Gard non sono stati neanche liberi di decidere dove e come morisse il loro figlio, non sono stati neanche liberi di riportarselo a casa”.

da Radio Vaticana

Terra Santa: preghiera per la pace in 10 mila città

Michele Raviart – Città del Vaticano

Oggi, come ogni ultima domenica di gennaio, si celebra la X edizione della Giornata di intercessione per la pace in Terra Santa: una preghiera mondiale che coinvolgerà chiese in 10 mila città di tutto il mondo. La preghiera, organizzata da varie associazione cattoliche giovanili, arriva alla fine della Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani. Un evento particolarmente sentito in Terra Santa, come spiega padre Ibrahim Faltas, francescano e parroco a Betlemme:

R. – Qui in Terra Santa viviamo l’unità dei cristiani giorno dopo giorno, lavorando fianco a fianco e vivendo nel rispetto e nel dialogo con ogni fede religiosa. Viviamo un periodo di forte intesa ecumenica e la preghiera ci aiuta a rafforzare questa unità con tutte le chiese che vivono in Terra Santa.

D. – Ogni anno aumentano le chiese che partecipano a questa giornata. Cosa significa avere tutto il mondo che prega per voi?

R. – La Terra Santa è veramente la madre di tutte le chiese; è il centro di tutte le religioni. Gerusalemme rappresenta per tutti l’inizio di una vita nella fede. Il mondo intensifica la preghiera per noi perché la Terra Santa è un bene per tutta l’umanità. La preghiera di tutti ci rafforza e ci porta la consolazione, per continuare a resistere e per infondere speranza nella gente. Per un cristiano che vive in Terra Santa questa è una sfida; allora la preghiera di tutto il mondo ci aiuta a continuare a vivere questa sfida.

D. – Come vivono i cristiani di Terra Santa questa preghiera dopo gli ultimi mesi di tensione?

R. – I cristiani continuano a pregare perché Gerusalemme deve essere la città di tutte le religioni. Gerusalemme è una citta per tutti, internazionale, aperta a tutti e di tutti. La città non può essere di una parte sola. Salvare Gerusalemme significa mettere le basi per la pace. Come diceva San Giovanni Paolo II, se vogliono la pace in tutto il mondo devono cominciare con la pace a Gerusalemme. Senza la pace a Gerusalemme non ci sarà mai pace nel mondo.

D. – In particolare, qual è la situazione dove si trova lei, a Betlemme?

R. – Purtroppo Betlemme è dimenticata da tutti. La gente vive come in una prigione a cielo aperto. Lo sappiamo, quelli che vengono vedono sempre il muro che segna il confine con Gerusalemme. Nei campi profughi il numero delle persone aumenta e ciò che preoccupa di più è che la nuova generazione, anche quella dei cristiani, cerca di migrare verso l’estero alla ricerca di una dignità e di un futuro migliore. Il grande aiuto che Betlemme riceve è dato dal turismo, dai pellegrini. Questi ultimi in particolar modo devono tornare perché qui non c’è nessun pericolo. Dopo la dichiarazione di Trump negli ultimi tempi tanti pellegrini hanno avuto paura e tanti vogliono cancellare il loro pellegrinaggio qui. Dico a tutti: dovete venire. Non abbiate paura, la situazione è tranquilla. Il grande aiuto per la gente di Betlemme è avere voi come pellegrini. Lancio un appello alla comunità internazionale, affinché si lasci guidare dalle parole di Papa Francesco, metta fine alle guerre e lavori per il bene dell’uomo e del creato. Che la preghiera di questa domenica illumini la mente e il cuore di tutti.

Radio Vaticana

Musica. Emma: «Sono cresciuta, canto la fragilità e contro il cyberbullismo»

Video e foto del nuovo album di Emma Marrone sono ambientate a New York

«Sarà che ho 33 anni come Gesù Cristo, ma ho finalmente trovato l’equilibrio. Dietro questo aspetto duro, io sono una insicura». Ha parlato col cuore in mano Emma Marrone, che non ha mai nascosto di essere credente, oggi alla presentazione alla stampa milanese del suo nuovo album, Essere qui, che esce domani 26 gennaio. Undici belle tracce affidate, sempre sotto la supervisione stretta della cantante pugliese, ad autori come Roberto Casalino, Giovanni Caccamo, Amara e Giuliano Sangiorgi. Brani che aiutano Emma a tracciare un ritratto più intimo di sé, attraverso un modo di affrontare un misto di generi blues, rock, pop attraverso sfumature più mature e sofferte nell’interpretazione. «In questo disco ho perdonato la parte più fragile di me, ho imparato ad accettare cose che preferivo non vedere: mi racconto nella forma più onesta e sincera che conosco – ha confessato la cantante – Fermarmi per un po’ mi ha dato la possibilità di ascoltarmi di più: mi mancava la fiducia in me stessa, ora vedo più luce».

Il brano manifesto del nuovo corso è L’isola, dove un suono contemporaneo e una voce più dolce invitano a uscire dall’isolamento dei nostri giorni, che appare anche nel brano Mi parli piano. E non manca anche un inno contro il cyberbullismo, Malelingue. «Nel mio piccolo vorrei dare una spinta ai ragazzi vittima di questo fenomeno – aggiunge la cantante – . La cosa migliore è reagire col sorriso e con l’indifferenza». Più matura anche grazie a una gavetta «che per me non è mai finita», e a prove difficili nella vita come il cancro affrontato e superato da giovanissima, Emma continua ad essere un riferimento musicale di forza femminile per tante sue coetanee, cosa che ribadisce ne Le ragazze, Coraggio, Sorrido lo stesso. «Io un esempio di forza per le donne? – si chiede – È una grande responsabilità, ma la mia educazione arriva da mia madre, una grande donna. Lei è il mio esempio di onestà, rispetto dell’altro e sincerità.». In un momento in cui si parla molto di violenza sulle donne e molestie, Emma si svela: «Ci sono ambienti ancora sessisti nella musica italiana, per cui mi trinceravo dietro al chiodo di pelle nera per acquistare credibilità di musicista. Oggi ho fatto pace con la mia femminilità. Mi piace quando le donne in primis sono solidali fra loro, non mi piace quando invece non si impegnano. Il modo migliore per convincere gli uomini a supportarci è raccontare con sincerità quello che siamo».

Emma Marrone stamattina a Milano durante la presentazione del suo nuovo album 'Essere qui' (foto A. Calvini)

Emma Marrone stamattina a Milano durante la presentazione del suo nuovo album “Essere qui” (foto A. Calvini)

Con la co-produzione di Luca Mattioni, Emma ha dalla sua parte una serie di strumentisti illustri tra cui Paul Turner dei Jamiroquai, Ninja dei Subsonica e Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion. Essere qui sarà presentato dal vivo in un tour che a maggio porterà Emma in sette palasport: il 16 al Pala Lottomatica di Roma, il 18 al Mediolanum Forum di Assago (Milano), il 19 al Pala Alpitour di Torino, il 21 alla Kioene Arena di Padova, il 23 al Nelson Mandela Forum di Firenze, il 26 al Pal’Art Hotel di Acireale (Catania) e infine il 28 al Pala Partenope di Napoli.

Insegnamento. Neurodidattica, ecco i trucchi per imparare con il cervello

Neurodidattica, ecco i trucchi per imparare con il cervello
Una pausa attiva è una piccola attività, in genere ludica e basata sulla collaborazione, che soprattutto nella scuola primaria può essere utilizzata per mantenere alta la concentrazione dei bambini. La specificità di quest’attività sta nel fatto di collocarsi in continuità con quello che si sta facendo in classe nella didattica. Ad esempio, se sto lavorando sulle figure piane in geometria e faccio fare ai bambini pause attive sull’origami o su altre attività di piegatura della carta, è chiaro che il momento ricreativo mantiene comunque il bambino sul tema su cui si sta lavorando. Il vantaggio è evidente: alleggerire il carico, divertire, ma senza interrompere l’attività di apprendimento, senza produrre distrazione. Le pause attive sono un esempio di spaced learning, di apprendimento intervallato, un’ipotesi di lavoro che trova la sua origine negli studi che le neuroscienze cognitive hanno prodotto sui ritmi dell’attenzione e sul processo della memorizzazione. Il nostro cervello, dicono i neuroscienziati, ha bisogno di andare in pausa periodicamente. E questo succede in particolare quando il numero di informazioni nuove che si stano introducendo è eccessivo. In questo caso l’ippocampo, una parte della corteccia che svolge una funzione fondamentale nella memorizzazione, va in sovraccarico e, di conseguenza, in situazione di stallo. Qualcosa di molto simile a quello che ci capita quando stiamo lavorando su un computer un po’ vecchio e continuiamo a digitare sulla tastiera senza aspettare il feed-back del primo input: alla fine il computer si blocca.

Quello che abbiamo descritto è solo uno dei tanti possibili incontri della scuola con la ricerca neuroscientifica. Una nuova frontiera di indagine e sperimentazione che si sta facendo largo un po’ ovunque nel mondo, dagli Usa alla Gran Bretagna, dalla Francia all’Italia. A Parigi, ad esempio, per iniziativa del ministro dell’Educazione Jean Michel Blanquer, è stata appena formata una commissione, composta da esperti di neuroscienze, per studiare soluzioni capaci di migliorare le tecniche di apprendimento. L’incontro tra scuola e ricerca neuroscientifica ha dato vita a un nuovo campo di ricerca che di solito si indica parlando di neuroeducazione, o di neurodidattica. Esso si occupa di due grandi ambiti di ricerca e di intervento che hanno a che fare con il cervello dell’insegnante ( Teaching Brain) e con gli apprendimenti degli studenti ( Learning Brain). La ricerca sul cervello dell’insegnante lavora sull’uso del corpo e della voce in situazione, sul dispendio energetico durante la prestazione, sulla biochimica della relazione con lo studente, sul rapporto tra insegnamento e stress.

Riguardo a quest’ultimo tema si sarebbe portati a credere che lo stress, nel caso dell’insegnante, abbia solo effetti negativi e sia una delle ragioni principali del burn out cui la professione va soggetta. E invece una bellissima ricerca di Vanessa Rodriguez, una giovane studiosa dell’Università di Harvard, ha dimostrato che lo stress può essere positivo e che il risultato dell’attività didattica può essere il benessere. Studiando la curva del cortisolo e il rilascio di endorfine (sostanze cui è legato il nostro benessere) di un insegnante che si prende cura dei suoi allievi, la Rodriguez ne ha registrato il sensibile aumento. In buona sostanza, fare del bene fa bene. E cioè la relazione educativa e didattica, come il grooming (lo spulciarsi a vicenda) nei primati, produce una sensazione di benessere non solo in chi lo subisce ma anche in chi lo fa.

Certo, però, le maggiori attenzioni la ricerca le riserva allo studente. Penso agli studi sulle basi neurofisiologiche dell’apprendimento e dei suoi disturbi, sul rapporto tra ripetizione e memoria a lungo termine, sul valore dell’esperienza e delle emozioni, sull’imitazione. Interessantissime le applicazioni didattiche. Ad esempio, il fatto che la memoria a lungo termine si fissi grazie alla ripetizione dello stimolo (che attiva una sequenza di sintesi proteica) spiega perché le tabelline serva impararle a memoria. La memorizzazione si traduce in risparmio di energie che rimangono libere per livelli più alti e impegnativi del problem solving: è quanto hanno dimostrato i neuroscienziati studiando la formazione dell’intelligenza matematica. Quanto all’imitazione, poi, è possibile fare riferimento alla storica scoperta dei neuroni specchio da parte dell’équipe di Rizzolatti all’Università di Parma.

Si tratta di un tipo particolare di neuroni che, nella scimmia, si attivano sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva compiere da altri. Nell’uomo questa funzione è svolta dai neuroni che si trovano nella parte posteriore sinistra della corteccia frontale, in corrispondenza dell’area del linguaggio. Sul lavoro di questi neuroni poggia non solo la giustificazione di tutte le forme di apprendistato (dove il novizio impara affiancando il lavoratore esperto), ma anche la possibilità di comprendere come l’apprendimento passi sempre attraverso la simulazione corporea: è quanto dimostrano gli studi di Vittorio Gallese sulla capacità del cinema, e dell’immagine in genere, di attivare il nostro circuito specchio.

Ma la ricerca neuroscientifica getta anche nuova luce sul cervello degli adolescenti e sulle difficoltà che insegnanti ed educatori incontrano nel loro lavoro. Il ritmo veglia-sonno, ad esempio, è segnato nei più giovani da un rilascio in circolo della melatonina che avviene mediamente più tardi di quanto non succeda nell’adulto. I ragazzi dormono più tardi, ma anche entrano in attività più tardi al mattino. Questo confuta l’idea diffusa che le prime ore del mattino, a scuola, siano quelle più produttive: e infatti negli Usa in molte scuole si sta studiando un orario brain-based che prevede l’inizio delle lezioni alle 10.00. Un esperimento di questo tipo partirà anche in Italia: in alcune classi dell’istituto Ettore Majorana di Brindisi, una scuola superiore, dall’anno prossimo in alcune classi le lezioni incominceranno più tardi. L’altro grande tema è legato a motivazione e decisione. La corteccia frontale e prefontale, che nell’adulto sono responsabili di questi compiti, giunge a maturazione molto tardi. In età evolutiva, le scelte sono governate piuttosto dal ‘circuito del piacere’, ovvero dalla tendenza del cervello a liberare dopamina e serotonina in relazione con stimoli piacevoli. Questo significa per l’insegnante che più che richiamare la responsabilità dello studente verso il compito di apprendimento, dovrà capire in quale modo renderlo accattivante.

Cosa può o deve fare la scuola di fronte a queste istanze? Semplificando direi che si può comportare in due modi. Il primo è di appiattirsi su quanto la ricerca neuroscientifica suggerisce. Si tratta di una scelta riduzionista, che finisce per assegnare alle neuroscienze il compito di individuare i criteri per l’insegnamento e alla didattica quello di applicarli. È questa la via che a volte nel mondo anglosassone viene intrapresa, ma che non può essere condivisa. Il compito della scuola è un altro. Certo non può ignorare quanto le neuroscienze cognitive consentono di conoscere in tema di apprendimento: sono temi che devono entrare nella formazione iniziale e in servizio degli insegnanti. A partire da qui sarà però compito dell’insegnante progettare la didattica e gestire la classe perché l’educazione – sono gli stessi neuroscienziati a indicarlo – continua a essere soprattutto relazione.

Ricerca. Con i «posti rosa» per legge nei Cda arrivano le donne

Con i «posti rosa» per legge nei Cda arrivano le donne

Le quote rosa funzionano e portano le donne nei posti di comando. A sei anni dall’introduzione della legge il cambiamento comincia ad essere tangibile. Ma se non c’è l’obbligo la presenza femminile nelle stanze dei bottoni resta una chimera. Nel 2017, per la prima volta, più di un terzo del totale dei membri dei Consigli d’amministrazione sono donne. La rappresentanza femminile è cresciuta di 558 unità tra le società quotate e di 660 tra le controllate pubbliche. È quanto emerge dalla ricerca Le donne ai vertici delle società italiane condotta da Cerved e presentata ieri al Senato nell’ambito di un convegno promosso dalla Fondazione Marisa Bellisario. Sono 162 (il 70%) le società quotate che ottemperano l’obbligo, tuttavia solo in 26 (il 11%) il numero supera di almeno un’unità il minimo richiesto: infatti a fine 2017 sono 751 le donne che siedono nei Cda delle 227 società quotate in Borsa, pari al 33,5%. Si tratta di un numero quattro volte superiore a quello del 2011. Rimangono marginali invece i casi di donne che ricoprono la carica di amministratore de- legato (solo 18 a fine 2017, pari al 7,9% delle società) o di presidente del Cda (23, due in più del 2016).

Nelle posizioni di vertice delle società che non sono soggette alla legge sulle quote di genere la presenza femminile cresce lentamente, in gran parte grazie a fattori demografici. Segnali più incoraggianti si osservano nelle imprese di maggiore dimensione, dove si sono verificati effetti indiretti. La legge del 2011 ha individuato come destinatarie di queste norme le società quotate e a partecipazione pubblica, sperando che venissero successivamente imitate anche dalle imprese esentate da vincoli. Per legge, dunque, le società italiane quotate devono riservare al genere meno rappresentato almeno un terzo degli amministratori e dei componenti del collegio sindacale: al primo rinnovo la soglia minima deve essere di un quinto e la norma si applica per tre mandati consecutivi (fino al 2023).

Norme analoghe sono in vigore dal 12 febbraio 2013 anche per le società a controllo pubblico. La presenza di donne nelle società controllate, tra il 2014 e il 2017 nei Consigli d’amministrazione e nei Collegi sindacali (gli organi oggetto delle norme) è aumentato di 660 unità, passando dal 18,3% al 30,9% mentre la presenza femminile si attesta al 26,2% nei cda (era il 14,8% nel 2014).

Discorso del tutto diverso se si considerano le società non soggette agli obblighi di legge. Se si guarda solo a quelle che nell’ultimo decennio hanno realizzato un fatturato superiore a 10 milioni di euro (circa 14mila), risultano donne 9mila dei 53mila amministratori (17,2%), appena 2,2 punti percentuali in più del 2012, con una leggera accelerazione rispetto al quinquennio precedente. Le donne crescono sia nelle società con amministratore unico (da 10,9 a 12,2% tra il 2012 e il 2017) sia in quelle che hanno un board collegiale (da 15,2 a 17,4%). La crescita della componente femminile è più forte tra le società di maggiori dimensioni: tra il 2012 e il 2017 la quota in rosa nei Cda è infatti cresciuta dal 9,9 al 14,2% nelle aziende che fatturano più di 200 milioni di euro. A fine 2017 risultano a capo dell’impresa 1.473 donne, circa il 10% del totale, con un incremento di 133 unità rispetto al 2012.

da Avvenire