Club Esse. Alla ricerca di 400 lavoratori estivi

Alla ricerca di 400 lavoratori estivi

Comincia dalla Borsa Internazionale del Turismo la campagna di selezione di Club Esse, catena alberghiera italiana con una quindicina tra villaggi e hotel nel centro-sud Italia e nelle isole, che sta cercando 400 persone delle oltre 1.200 che impiegherà la prossima estate, da fine aprile a metà ottobre. Proprio da Fieramilanocity a Milano infatti, l’11 e il 12 febbraio, partiranno gli Open day per selezionare 400 lavoratori nel turismo, di cui 100 per il settore intrattenimento e sport e i restanti tra ricevimento, cucina, sala, bar ed economato.

I candidati potranno presentarsi a Bit4Job liberamente (ore 12-13 e 17-18), muniti di curriculum, foto e tanto entusiasmo, oppure scegliere un colloquio su appuntamento (ore 9.30-12 e 14-17) iscrivendosi ahttp://recruitingday.lavoroturismo.it/candidato/. Altri Open day a partecipazione aperta si terranno in marzo in Sardegna, Calabria, Abruzzo e Sicilia, mentre fino a maggio verranno organizzate numerose giornate di incontri su appuntamento a Roma, Milano e Napoli per le quali occorre compilare il form sul sitowww.clubesse.it (o scrivere a personale@clubesse.com per chi è interessato all’alberghiero, arisorseumane@clubesse.com per l’intrattenimento) e attendere l’invito a presentarsi.

Le figure cercate riguardano il settore dell’intrattenimento (i cinque profili più richiesti sono i tecnici audio-luci, gli scenografi, i coreografi, gli animatori per i miniclub e gli istruttori sportivi – in particolare tennis, tiro con l’arco e fitness -, ma non mancano ottime occasioni per i capi animazione, i musicisti, i ballerini, i costumisti, gli assistenti bagnanti, gli addetti alle boutique) ma anche in quello più strettamente alberghiero. Sono aperte posizioni nelle aree ricevimento, manutenzione, economato, cucina, servizio in sala e al bar. Tranne che per le figure apicali, come direttori o chef, la ricerca di personale alberghiero si focalizza però prevalentemente sul territorio in cui sorge la struttura, in modo da esaltare le competenze, le tradizioni e i “sapori” locali.

Ai candidati, uomini e donne maggiorenni, si chiede innanzitutto entusiasmo e positività, ma la presenza sempre più massiccia di ospiti stranieri, che negli ultimi anni nei villaggi Club Esse ha superato il 30% della clientela, ha reso molto apprezzata la conoscenza di inglese, francese e tedesco, lingue che si ha così l’opportunità di approfondire. Si richiede inoltre una disponibilità di almeno tre mesi, motivazione, attenzione alle esigenze dell’ospite, capacità di lavorare in gruppo e disposizione al sorriso. Anche le esperienze precedenti non guastano.

Club Esse è una società italiana di gestione turistica in grande crescita che ha chiuso la stagione 2017 con 25 milioni di fatturato (+25% sul 2016). Ogni estate dà lavoro a circa 1000 persone (1200 quest’anno) nelle sue strutture in Sardegna, Sicilia, Calabria e Abruzzo, per lo più personale fidelizzato che però ha sempre bisogno di nuovi “innesti”.

Gli Open day si terranno in Sardegna, sabato 24 febbraio al Palazzetto dello Sport di Stintino, Sassari (ore 10-13 e 15-16.30) e domenica 10 marzo al Club Esse Posada di Palau, Olbia-Tempio (10.30-13 e 15-16.30); in Calabria, sabato 3 marzo (14-17,30) e domenica 4 (10-13) al Club Esse Sunbeach di Squillace Lido, Catanzaro; in Abruzzo, sabato 17 marzo al Club Esse Mediterraneo di Montesilvano, Pescara (10.30-13 e 15-16.30); in Sicilia, sabato 24 marzo al Club Esse Selinunte di Selinunte, Agrigento (9.30-12.30 e 14.30-15.30).

I primi colloqui su appuntamento si svolgeranno invece il 24 febbraio, il 24 marzo, il 14 aprile e il 12 maggio all’Hotel Royal Santina di Roma; il 10 marzo, 7 aprile e 5 maggio all’Hotel Milano Scala di Milano; il 15 marzo, 11 aprile e 9 maggio all’Hotel Stelle di Napoli.

Il calendario delle selezioni verrà aggiornato periodicamente sul sito www.clubesse.it.

da Avvenire

Mc Donald’s. A Milano 200 nuovi posti di lavoro

A Milano 200 nuovi posti di lavoro

Mc Donald’s cerca 200 persone dinamiche, predisposte al lavoro in team e al contatto con il cliente, da inserire nei ristoranti di Milano. Da oggi sono aperte le selezioni online per individuare i candidati che parteciperanno alla tappa milanese del Mc Italia Job Tour, l’evento itinerante di selezione del personale per i ristoranti McDonald’s. Una tappa organizzata in vista della nuova apertura in via Torino, in pieno centro a Milano, e per il rafforzamento dello staff di altri ristoranti in città. Entro il 21 febbraio, i candidati interessati potranno partecipare alla prima fase di selezione sul sito mcdonalds.it, rispondendo ad alcune domande (disponibilità oraria, tipo di mansioni a cui si è interessati, area geografica di interesse etc) e inserendo il proprio cv. Ai candidati idonei verrà richiesta la compilazione di un test, volto a individuare le aree comportamentali di forza dei candidati.

I candidati ammessi riceveranno una convocazione con data e orario e avranno accesso ai colloqui individuali. Il Mc Italia Job Tour, che avrà luogo a fine febbraio, sarà l’occasione per ottenere tutte le informazioni sull’azienda e sul lavoro in Mc Donald’s, grazie alla presenza in loco del personale degli altri ristoranti della zona.

Negli ultimi cinque anni, Mc Donald’s Italia ha creato oltre 5mila nuovi posti di lavoro, di cui 3.800 nella fascia d’età 18 e 24 anni. A questi si aggiungeranno, durante il 2018, altri 1.000 nuovi posti di lavoro. Per cercare queste persone, per raccontare loro cos’è Mc Donald’s, per dare concretezza alla promessa, l’azienda ha deciso di organizzare il McItalia Job Tour. A Milano McDonald’s è presente con 26 ristoranti in città che occupano circa 1200 dipendenti.

Per maggiori informazioni e per inviare il proprio cv: www.mcdonalds.it/lavorare/mcitalia-job-tour.

Empatia, quel traguardo da superare per conoscere l’altro

Empatia, quel traguardo da superare per conoscere l'altro

Hans Blumenberg in Naufragio con spettatore descrive la metafora di una civiltà, quella occidentale, che nel corso dei millenni ha visto uomini e donne incerti tra «coinvolgimento e distacco» (per usare un’espressione nota scelta da un altro grande pensatore, Norbert Elias, per definire l’atteggiamento dell’uomo dinanzi agli eventi). Blumenberg parte dal proemio al secondo libro del De rerum natura di Lucrezio, che vede un uomo sulla terraferma assistere impassibile al naufragio di una nave: il saggio, vuole dirci il poeta epicureo, è imperturbabile, non si fa scalfire da quanto accade, pur tragico che sia. A tale visione si contrappone quella di Pascal, per il quale il filosofo non può restare fermo sulla riva ad assistere passivamente al naufragio, che sia di una nave o di un’intera civiltà. «Vous êtes embarqués», scrive il mistico francese. Questo il senso della scommessa cui ci invita: chi assiste allo spettacolo della vita senza divenirne partecipe, accontentandosi di contemplare le rovine della storia, si perde. In epoca di naufragi sempre più frequenti che accadono nel nostro mar Mediterraneo, il discorso si ripropone rilanciando la questione dell’empatia.

Davanti a queste tragedie, così come alle immagini di guerra o di bambini che muoiono di fame, quali sentimenti proviamo? Estraneità, lontananza, disinteresse, atarassia a volte prevalgono, anche perché ormai ci siamo assuefatti; altre volte, se restiamo particolarmente colpiti, siamo presi da simpatia, partecipazione, solidarietà, compassione. Ebbene, tutto questo ha a che fare con l’empatia, ma non la rappresenta appieno. Negli ultimi tempi c’è stata un’enfasi eccessiva sulla parola “empatia”: l’ex economista ora nei panni di filosofo Jeremy Rifkin ha parlato di “empatia globa-le”, intendendo la necessità di una svolta dinanzi alla minaccia di una catastrofe ecologica e all’aumento dell’interconnessione tecnologica. Perfino il patron di Facebook Zuckerberg ha lanciato lo slogan «Connettetevi! », un appello ovviamente tutt’altro che disinteressato ma ispirato proprio all’empatia. A sgombrare il campo dagli equivoci arriva ora in libreria il saggio di una filosofa, Laura Boella, che allo studio dell’empatia ha dedicato diversi volumi, ben prima che diventasse una moda. Il libro ha per titolo Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto ed è pubblicato da Cortina (Pagine 212. Euro 13,00). Per la docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano, autrice in passato di studi rilevanti su figure femminili nell’ambito del pensiero e della letteratura (da Simone Weil a Cristina Campo, da Etty Hillesum a Edith Stein), l’empatia «non è un sentimento di partecipazione o di condivisione, né corrisponde alla capacità innata di leggere la mente dell’altro». Essa è «l’atto attraverso il quale ognuno di noi fa esperienza diretta e immediata dell’esistenza di altri individui».

In poche parole, è una scoperta dell’altro non in termini generici, ma la presenza incarnata e sperimentata sensibilmente di un altro essere umano. Quando si parla di empatia, entrano in gioco i sensi e la ragione, noi «sentiamo e vediamo» l’altro, che viene sottratto dalla massa anonima della metropolitana o dei follower. L’enfasi con cui filosofi e scienziati, soprattutto dopo la scoperta dei neuroni specchio, parlano di empatia, fa di essa un sentimento generico che lascia il tempo che trova. I neuroscienziati e gli etologi in larga maggioranza affermano che siamo fatti per connetterci con le altre menti e che il senso di altruismo e solidarietà è destinato a svilupparsi anche grazie ai social network: in realtà non ne siamo così sicuri. Il neuropsichiatra Paul Bloom in un articolo sul New Yorker rigetta l’idea che l’empatia sia una panacea universale. I dati che ha raccolto attestano che ciascuno di noi sceglie di mobilitarsi dinanzi a una vittima se essa è una sola ed è identificabile; se il numero di persone in difficoltà aumenta e siamo messi di fronte alla dura realtà dei bimbi denutriti in Africa, la motivazione ad agire diminuisce e siamo più portati alla rassegnazione.

Proprio l’interconnessione ci rende più indifferenti? Il rischio che l’empatia diventi una moda che può passare, o comunque un’espressione riferita al puro desiderio di fare del bene, perciò riduttiva e altalenante, lo dimostra il recente successo in libreria di volumi come L’età della rabbia di Pankai Mishra, che pone al centro il disordine mondiale, o come l’ultimo della filosofa americana Martha Nussbaum dedicato all’ira e al risentimento. Ci aiuta a capire meglio il vero senso dell’empatia un ritorno alle origini, vale a dire una rilettura di Edith Stein, che fra i primi ne ha formulato una teoria. La filosofa allieva di Husserl fa l’esempio dell’incontro con un amico: il basso tono di voce e il volto arrossato sono il segnale della sua sofferenza. Vedere l’atteggiamento triste di questa persona, presente in carne ed ossa, è innanzitutto un’esperienza originaria, un «vedere in prima persona». Ma perché questo fenomeno non si limiti a un approccio, all’osservare una faccia triste e a rispondere con un sentimento analogo, occorre un passo in più: esplorare il mondo dell’altro, ricostruire la sua storia e determinare la causa del suo dolore, essere insomma “presi dentro” , trascinati non solo da ciò che si vede e si sente, ma da ciò che l’altro sta vivendo.

«L’altro – scrive Boella – è un centro di esperienza autonomo e differente rispetto al mio e come tale irrompe nella mia esperienza. L’empatia dunque è il contrario dell’identificazione o appropriazione dell’emozione o intenzione altrui. Essa consiste invece nell’ingresso nel mio orizzonte vitale, emotivo e cognitivo, di ciò che è vissuto dall’altro». Come si intuisce, non è per niente facile definire davvero l’empatia e negli ultimi tempi persino tra filosofi, psicologi e neuroscienziati non c’è consenso. Più che la scienza e la tecnologia, la letteratura e il cinema ci vengono in soccorso. Boella cita a mo’ di esempio il libro A voce alta, da cui è stato tratto il film The reader con una Kate Winslet degna vincitrice dell’Oscar nel 2009. È la storia di una kapò nazista analfabeta che nel lager obbligava le detenute a leggerle dei libri, per poi punirle spietatamente. Dopo la guerra, chiede al suo giovane amante di fare altrettanto, finché il suo passato non torna alla luce, è arrestata e condannata all’ergastolo. Dopo il processo, Hanna in galera riceve da Michael cassette che le permettono di imparare a leggere: un modo per porsi davanti alle sue colpe e finalmente riconoscerle?

Ma un’altra pellicola si può citare, Le vite degli altri, cui nel 2006 è stato attribuito l’Oscar come miglior film straniero. Racconta la reazione di una spia dei servizi segreti della Germania Est che controlla alcuni oppositori al regime comunista e a poco a poco entra in sintonia con loro, sino a condividere la loro sofferenza e ad aiutarli, senza che loro lo sappiano. Sia come sia, davanti a queste due storie scatta anche in noi spettatori un processo di empatia: ci immedesimiamo nei personaggi anche se talora ci fanno orrore. Accade più o meno in noi quanto scrive David Foster Wallace, uno dei più importanti scrittori americani del dopoguerra: «Nel mondo reale tutti soffriamo da soli. La vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora, forse, sarà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro».

da Avvenire

Teologia e scuola, si potrà studiare anche online

L'università Lateranense in una foto d'archivio

L’università Lateranense in una foto d’archivio

Insegnamento a distanza, attenzione ai profughi e rifugiati, riconoscimento dei titoli, verifica della qualità e lavoro in rete. Sono le principali novità alle quali sono chiamate ad adeguarsi, nell’arco di due anni, le 792 facoltà ecclesiastiche e istituti collegati che contano 64.500 studenti e 12 mila docenti nel mondo. A stabilirlo è la nuova costituzione apostolica Veritatis gaudium pubblicata oggi con la quale si confermano e si aggiornano le disposizioni contenute nel documento “Sapientia Christiana” del 1979.

Secondo papa Francesco, infatti, è il momento di “imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa ‘in uscita’”.
Questo comporta, in concreto, “la felice e urgente opportunità” di rivedere “l’architettonica e la dinamica metodica dei curricula”, cioè “ripensare e aggiornare intenzionalità e organicità delle discipline e degli insegnamenti impartiti negli studi ecclesiastici”. In quest’ottica, la Costituzione punta sull’urgenza della “inter e trans-disciplinarietà” e sulla necessità di “attivare con decisione le opportune sinergie anche con le istituzioni accademiche dei diversi Paesi e con quelle che si ispirano alle diverse tradizioni culturali e religiose, dando vita al contempo a centri specializzati di ricerca finalizzati a studiare i problemi di portata epocale che investono oggi l’umanità, giungendo a proporre opportune e realistiche piste di risoluzione”.
L'università Lateranense in una foto d'archivio

L’università Lateranense in una foto d’archivio

In base alle nuove disposizioni, tutte le facoltà e università ecclesiastiche saranno sottoposte alla valutazione dell’Agenzia della Santa Sede per la Valutazione e la Promozione della Qualità. Per facilitare la mobilità degli studenti ed il riconoscimento dei titoli conseguiti, le Facoltà potranno fornire “un ulteriore documento con informazioni più dettagliate riguardo ai contenuti e alle discipline di studio”. Negli Statuti inoltre dovranno essere previste “procedure per valutare le modalità di trattamento dei casi di rifugiati, profughi e persone in situazioni analoghe sprovvisti della regolare documentazione richiesta”.
Di fronte poi alla rivoluzione informatica e telematica già ampiamente penetrata nei sistemi degli studi accademici, la “Veritatis Gaudium” stabilisce che “una parte dei corsi può essere svolta nella forma di insegnamento a distanza, se l’ordinamento degli studi, approvato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica, lo prevede e ne determina le condizioni, in modo particolare circa gli esami”.
da Avvenire

Il libro. Da Renato Zero a Nek, la teologia si fa pop

Da Renato Zero a Nek, la teologia si fa pop

“Pop Theology per i giovani”: questo il titolo dell’ultimo libro di monsignor Antonio Staglianò, vescovo di Noto, appena pubblicato dalla casa editrice Rubettino. Incardinando il messaggio del Vangelo in un linguaggio semplice ma con la profondità di grande teologo, attraverso la musica pop, il libro riesce a parlare ai giovani catturando la loro attenzione. Sono parole umane, ma anche parole «poetiche», capaci di risvegliare ciò che altrimenti rimarrebbe anonimo e inespresso nel profondo del cuore, capaci di stupire e inquietare, smuovere e provocare.

Don Antonio Spadaro, direttore della rivista “La civiltà cattolica”, ha curato la prefazione del libro, in cui evidenzia come questo volume è un tentativo per parlare di Dio ai giovani e ai ragazzi con un linguaggio che conoscono, quello della musica. Nel libro monsignor Staglianò evidenzia come l’uomo si stia lentamente riducendo a consumo, merce, numero, massa. Eppure, gli esseri umani sono straordinari, fantasiosi, creativi, con grande successo nel campo della tecnologia. Sul terreno dell’amore, però, appaiono carenti, delusi e frustrati.Fatti per amare (Nek), proprio l’amore non riesce. Perché? La risposta si trova nell’ultima canzone di Renato ZeroGesù: “Gesù non ti somigliamo più”. Quando l’umanità si allontana dall’umanità di Gesù, “la terra in ginocchio sta, soli più soli di sempre”.

Molto soddisfatto monsignor Staglianò: «La Pop Theology è teologia popolare e si incarica di svecchiare la predicazione cristiana. È teologia “pop”, vera carità intellettuale verso i giovani, sapendo che essi si esprimono anche con la musica e seguendo i cantanti, nuovi poeti. Attraverso i loro testi la Pop Theology può ritornare con nuova freschezza a presentare ai giovani il modello umano di Gesù, la sua umanità ricca di amore e di pace, di tolleranza e di dedizione, di fiducia e di rilancio delle energie positive, belle e buone, di ogni essere umano».

avvenire

Memoria da rinnovare per opporsi all’onda limacciosa del razzismo

da Lettere a Avvenire

Caro direttore,

vi leggo (quasi) giornalmente dalla città tedesca di Heidelberg, ove ho coperto un insegnamento di cultura italiana per 41 anni. Usurpo un poco del suo tempo e della sua attenzione per dire, innanzi tutto, a lei e ai suoi collaboratori la mia gratitudine per quanto (quasi) giornalmente ricavo dalla lettura di “Avvenire”. Ma, in secondo luogo, anche per segnalare un certo disagio, starei per dire morale, nell’apprendere – da fonti autorevoli – che «il fascismo ha fatto molte cose» e che è ora finalmente di «onorare il ventennio del Fascio». Una sola domanda: visto che c’è chi sostiene che dobbiamo onorare le leggi razziali antisemite, portatrici di morte (penso ai docenti ebrei del mio Liceo “Giovanni Berchet” in Milano), perché non aiutare tutti a capire che cosa furono e che cosa produssero chiamandole, finalmente, con il nome che si meritano, scilicet “leggi razziste”? Grazie per l’attenzione

Ettore Brissa, Heidelberg

Lei, caro professor Brissa, non è il primo e non sarà l’ultimo a porsi e a porre a tutti il problema se l’aggettivo giusto per qualificare quelle leggi del 1938 sia “razziali” o “razziste”. La questione è seria, ma non mi pare così decisiva. Personalmente mi fa inorridire che nel mio Paese si sia potuto anche solo parlare di “leggi razziali”. E ritengo che non possa esserci il minimo dubbio sul fatto che le norme varate dalla dittatura fascista contro le persone di ascendenza, cultura e religione ebraica avessero purtroppo motivazioni e contenuto vergognosamente razzista e intenzioni insopportabilmente discriminatorie e distruttive. Anche per questo credo – come lei e, grazie a Dio e alla retta coscienza di tantissimi, non siamo affatto soli neppure in questo tempo diviso tra retorica e smemoratezza – che non merita oggi più di ieri e meno di domani alcuna compiacenza o indulgenza un regime dittatoriale che arrivò a codificare il razzismo. Non mi tolgo dalla mente una frase che Pio XI pronunciò in un colloquio con il gesuita padre Piero Tacchi Venturi, a lungo trait d’union tra la Santa Sede e il regime fascista, e che la storica Emma Fattorini riporta in un suo bel libro di undici anni fa “Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa” (Einaudi, 2007) basato su un’ampia documentazione dell’Archivio Segreto Vaticano. Pio XI, al secolo Achille Ratti, «Ma io mi vergogno… mi vergogno di essere italiano. E lei, padre, lo dica pure a Mussolini! Io non come Papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza». Esemplare. Da cittadini italiani, per umanità e civiltà, non si può seguire l’onda limacciosa del razzismo o addirittura abbandonarsi a essa. E da cristiani e da cattolici bisogna sapersi opporre a essa con limpida e pacifica fermezza.

L’uomo è ancora al centro dell’universo?

in Settimana News

Nel contesto della presentazione degli Atti del 21° Seminario nazionale di gnomonica, raccolti in un ricco volume di 200 pagine, il 15 dicembre scorso all’Auditorium di Valdobbiadene è intervenuto come ospite il prof. Piero Benvenuti. Professore emerito di astrofisica all’università di Padova, Benvenuti è stato responsabile scientifico per l’Agenzia spaziale europea, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica e membro dell’Agenzia spaziale italiana. Nel 2015 è stato nominato segretario generale dell’Unione astronomica internazionale, carica che ricopre tuttora. Si interessa attivamente del dialogo tra scienza e teologia: è docente del corso su creazione ed evoluzione presso la Facoltà teologica del Triveneto di Padova e, nel 2011, è stato nominato da Benedetto XVI consultore del Pontificio consiglio della cultura.

– Prof. Benvenuti, viviamo un’epoca di grandi scoperte astronomiche che vede – ad esempio – i telescopi astronomici portati nello spazio. Non è vero?

Oggi il progresso dell’astronomia è legato soprattutto ad una strumentazione sempre più sofisticata. Da quando, negli anni ’60, si è cominciato ad utilizzare la tecnologia spaziale per portare i nostri strumenti osservativi al di fuori dell’atmosfera, è iniziata una vera rivoluzione: abbiamo visto fenomeni di cui non avevamo ipotizzato nemmeno l’esistenza.

Recentemente abbiamo assistito ad un grande evento: la recezione di segnali come le onde gravitazionali. Le aveva previste Einstein nella sua teoria della relatività generale ma non erano mai state viste perché talmente deboli da richiedere uno sviluppo tecnologico straordinario.

Il progresso della tecnologia ha permesso di capire qual è la storia del nostro universo e di pensare un modello cosmologico nuovo che mette l’uomo al centro dell’evoluzione: non più in senso geometrico, come nel modello aristotelico-tolemaico, ma come punto di arrivo di un percorso di 14 miliardi di anni.

– Oggi allora ha ancora senso occuparsi di “meridiane” solari?

In questo tempo ha ancora valore il sistema dello gnomone (l’asticella al centro della meridiana,ndr), che nella sua formulazione più semplice è un bastone piantato per terra che permette di seguire cosa fa l’ombra, a seconda del movimento del sole e delle stagioni. Questo strumento è legato alla cultura e alla tradizione di tutti i popoli del mondo: non c’è cultura e non c’è civiltà che non abbia sviluppato delle conoscenza di astronomia, a partire da quelle più semplici relative al sole. Il suo movimento, solo apparentemente è regolare, ma – come sa bene chi si occupa di meridiane – non è esattamente così: da qui si origina l’avventura dell’astronomia che nasce nell’antichità.

Guardare avanti attraverso i nuovi strumenti è fondamentale per capire sempre meglio il nostro universo; ma è necessario anche guardare indietro per recuperare la storia e affondare le radici nella nostra tradizione. Per questo è molto importante che ci siano anche oggi dei gruppi di appassionati che continuano a coltivare interesse scientifico per le meridiane.

scoperte astronomiche

– Lei ha menzionato le “onde gravitazionali”: perché questo risultato è così importante per la scienza?

Questa scoperta ha creato una grande emozione tra gli scienziati. Le onde erano state previste da Einstein, che aveva intuito che lo spazio – quello che noi intuitivamente conosciamo – non è inerte né assoluto o estraneo alla nostra presenza; ma si modifica per effetto della presenza della massa. Il sole, ad esempio, modifica lo spazio attorno a sé.

Questo fenomeno è stato provato per la prima volta durante un’eclissi di sole nel 1919. Allora gli astronomi fecero delle fotografie durante l’eclisse totale – il cielo si oscura e le stelle diventano visibili – alle stelle vicine al bordo del sole. La posizione delle stelle durante l’eclissi venne confrontata con la loro posizione quando il sole non c’era: notarono che la posizione era diversa, perché la luce proveniente dalla stelle, passando vicino al bordo del sole, veniva deviata. Scoprirono così che lo spazio si curva vicino alle grandi masse.

Una volta verificato questo fatto – incredibile all’epoca –, Einstein pensò che, se fosse stata spostata la massa, la perturbazione provocata si sarebbe propagata nello spazio, dando origine alle cosiddette onde gravitazionali. In sostanza, lo spazio vibra per effetto dello spostamento delle masse (che devono essere però masse molto concentrate).

– Una volta ammessa l’esistenza delle onde gravitazionali, si trattava di misurarle. Come?

Il problema era effettivamente rilevarle. Siccome queste onde sono delle vibrazioni, bisogna isolare il rilevatore da qualsiasi altra vibrazione. C’è stato un lavoro di quasi 70 anni di raffinamento della tecnologia per poter sentire queste onde e due anni fa è successo.

Per essere sicuri che si trattasse di onde gravitazionali e non di altre vibrazioni, i rilevatori sono stati collocati a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro: uno a Cascina (Pisa) e due negli Stati Uniti. Se il segnale viene visto esattamente nello stesso istante con le stesse caratteristiche dai tre rivelatori, c’è da aspettarsi che sia un segnale che viene dal cielo.

La grande novità di due mesi fa è che questa rilevazione è stata fatta non solo da strumenti che rivelano le onde gravitazionali, ma anche da strumenti spaziali che vedono i lampi gamma (i raggi gamma si emettono nelle esplosioni delle bombe atomiche, che sprigionano energie enormi, ndr): si son visti contemporaneamente un lampo gamma e un’onda gravitazionale. Così si è avuta la conferma di ciò che sta all’origine di questi fenomeni. In questo caso si tratta di due stelle compatte – stelle di neutroni – che diventano una sola: ruotando una attorno all’altra, alla fine “coalescono” cioè diventano una sola stella (probabilmente un buco nero). Da questo evento catastrofico c’è una grande emissione di energia e anche di onde gravitazionali.

– L’importanza è limitata all’interesse degli scienziati oppure anche i non esperti dovrebbero esserne interessati?

Sono cose difficili da comprendere. Cosa voglia dire che lo spazio si curva, si stenta a capirlo concretamente, ma questa è la natura del mondo reale. C’è una grande emozione nel mondo scientifico per queste scoperte, perché ci stiamo avvicinando sempre più ad un modello credibile e ricco di elementi in grado di descrivere la nostra realtà.

– Il modo di vedere il cosmo, secondo lei, ha un influsso nella cultura?

Con la rivoluzione copernicana, l’uomo ha scoperto di non essere al centro dell’universo ma in periferia e si è persa una visione unitaria del cosmo. Una vera cosmologia è riemersa solo negli ultimi 50 anni. Adesso sappiamo quali siano le caratteristiche del cosmo e tutto questo ha un’influenza sul nostro essere e sul nostro destino.

Una delle caratteristiche di questo nuovo modello è, prima di tutto, che il cosmo ha una storia: una storia che siamo stati capaci di ripercorrere per 14 miliardi di anni.

Noi uomini siamo all’estremità di questa storia ed emergiamo solo alla fine. Tutto questo fa pensare che non possiamo immaginarci come gli unici esseri pensanti dell’universo, ma diventa sempre più plausibile ipotizzare che la vita si sia sviluppata anche su altri pianeti. Sappiamo per certo che, attorno a tutte le stelle, ci sono dei sistemi planetari. Nei prossimi 20 anni potremo analizzare l’atmosfera dei pianeti delle stelle più vicine e quindi capire se ci sono delle tracce di vita biologica.

Credo che dovremo essere preparati a pensare che non siamo soli nell’universo. Anche se va detto subito che non ci sarà la possibilità di comunicare con questi esseri viventi perché le distanze e la velocità di propagazione delle informazioni, che è fissa ed è la velocità della luce, non ci darà la possibilità di un’interazione vera e propria. In ogni caso, pensare di non essere soli modifica e modificherà, ad esempio, il nostro modo di fare filosofia e teologia.

scoperte astronomiche

– Questi progressi scientifici quali sfide pongono alla teologia e alla scienza?

Dal punto di vista della teologia, credo che tutto questo richieda rapidamente un ripensamento e una reinterpetazione dei dogmi della fede, non per cancellarli ma per renderli più compatibili con quello che abbiamo appreso. Dal punto di vista della scienza, il pericolo costante è quello di una sorta di “divisionismo”, cioè vedere i fenomeni solo nel dettaglio e non nella globalità. Tutto questo rende il cosmo una sorta di “grande robot meccanico” dove tutto avviene per leggi necessarie. La teologia invece potrebbe offrire una visione globale.

– Torniamo alle meridiane. Si tratta di temi specialistici che rischiano di interessare una ristretta cerchia di studiosi oppure possono insegnare qualcosa a tutti?

Negli ultimi cento anni è avvenuta una trasformazione nel rapporto tra uomo e astronomia: la perdita della possibilità di osservare il cielo. Perdita nel senso che, se qualcuno ha avuto la possibilità di guardare il cielo da un deserto, sa che quella visione noi qui l’abbiamo persa. Da noi non c’è alcuna zona buia che ci permette di vedere quello spettacolo. Ci sono possibilità di recuperare qualcosa della visibilità del cielo stellato ma non avremo più quella visione.

Credo sia importante per i bambini crescere con una cognizione del cielo e dei fenomeni celesti. Il moto del sole si può seguire con attenzione e facilità. Mi piacerebbe che in tutte le scuole elementari si piantasse uno gnomone per terra e si portasse i bambini a vedere, giorno per giorno, che cosa succede: segnare dove passa l’ombra, a mezzogiorno, giorno dopo giorno…

Bisogna sfruttare queste conoscenze per educare ad osservare i fenomeni celesti, altrimenti guarderemo solo l’orologio o lo smartphone. Mi pare una grande opportunità da valorizzare: c’è davvero bisogno di chi conosce bene le meridiane. E auguro agli appassionati di collaborare soprattutto con le scuole.

– Hanno molto da insegnare anche i motti delle meridiane. Che ne pensa?

Sì, hanno un profondo significato che si radica nella nostra cultura. A questo proposito, come Unione Astronomica Internazionale, abbiamo il compito di dare il nome agli oggetti celesti. Ci siamo dati come criterio quello di dare dei nomi che affondino le radici nella cultura. Alcuni scienziati propongono dei nomi per certi versi banali. Noi insistiamo a non volerli, perché desideriamo che il cielo rifletta la nostra cultura. Recentemente 86 stelle, ben note, sono state nominate: abbiamo voluto dare dei nomi che provengono dalle tradizioni astronomiche cinesi, indiane e africane, per dare il senso del legame tra cielo e cultura dell’intera umanità.

Verità e Fake News: dal contenuto alla relazione

Francesco non sta invitandoci a promuovere solo messaggi buonisti, rassicuranti, consolatori. Ma anche nel nostre dire la verità ci chiede di amare

Il nucleo centrale, terribilmente spiazzante, del Messaggio di Papa Francesco dedicato alle Fake News è che un enunciato è vero solo in quanto non fomenta divisioni ma, al contrario, favorisce un dialogo costruttivo. Tirando il Pontefice per la veste, si potrebbe giungere a fargli affermare che un concetto non è vero in quanto tale, ma in quanto crea una relazione positiva al momento in cui è comunicato.

È un ragionamento paradossale che sposta volutamente l’attenzione dal contenuto dell’atto comunicativo alla relazione che s’instaura fra chi lancia il messaggio e chi lo riceve. Francesco lo spiega chiaramente nello stesso testo, quando afferma che affinché le nostre parole e i nostri gesti siano autentici, occorre ovviamente liberarli dalla falsità (e qui siamo quasi alla tautologia), ma soprattutto ricercare la relazione. Il Papa, ovviamente, sta parlando della verità cristiana, quella con la v maiuscola. Ma estende l’idea a ogni verità umana, così come deve avvenire nella vita incarnata di un credente in Cristo. La verità non si può raggiungere se non sulla base di un rapporto positivo (mi verrebbe da dire ‘d’amore’) con il mio interlocutore. Anche un fatto innegabile – specifica Papa Bergoglio – se è utilizzato per ferire qualcuno o screditarlo non è abitato dalla verità.

Quest’ultima deduzione suona già da sé quasi una contraddizione e sembra scardinare qualsiasi possibilità di un giornalismo d’inchiesta, guardiano appunto della verità, per scoperchiare le nefandezze dei potenti. Ma nella sua lettura cattolica della comunicazione il Papa ci sta dicendo in realtà come un messaggio che non persegua il buono e il bello, oltre che il vero – cioè non serva per fare del bene a qualcuno – non possa mai essere chiamato ‘Verità’. Così anche il giornalismo di denuncia sarà autentico solo se non mira semplicemente a seppellire il singolo nel fango, ma a favorire il bene comune.

Francesco sostiene in definitiva che la verità non può essere brandita come un’arma, ma deve avere un obbiettivo di salvezza. Non può trasformarsi in pietre da lanciare all’adultera. E qui appare chiaro come questa sua riflessione sul piano dei mass-media rimandi al suo magistero in campo pastorale e a un testo come l’Amoris Laetitia. Qualsiasi presunta verità o dottrina, ci dice il Papa, se non è utilizzata allo scopo di salvare un’anima, si svuota immediatamente della sua forza cogente e della sua autorità. Entra in contraddizione con sé stessa. La verità cristiana non può disseminare zizzania, contrasti, separazioni. Se ciò accade, è perché non è comunicata in modo autentico: è ‘veritas‘ priva di ‘caritas‘, verità senza misericordia.

Eppure, il Vangelo parla anche di una verità che divide, provoca, brucia. Una verità che produce persecuzioni e attacchi, nei confronti di chi l’annuncia. Ma Francesco non sta invitandoci a promuovere solo messaggi buonisti, rassicuranti, consolatori. Ci dice che in realtà l’obbiettivo del comunicatore cristiano, come del cristiano ‘tu cur‘, è sempre un bene altro, più alto. E ciò che, a prima vista, sembra provocare odio e contrasti è destinato invece a favorire la comunione. L’unica condizione è che sia una verità che vuole entrare davvero in relazione per salvare. Una verità di fede basata su un incontro con Dio fattosi uomo e non su un’idea morale da imporre a chiunque, pena la dannazione eterna, come vorrebbe qualcuno. Per questo costa fatica e scardina le nostre certezze razionali su che cosa sia vero o no. Perché ci chiede di amare, non solo di capire.

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