Santo del Giorno 25 Gennaio

CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO

Grado della Celebrazione: FESTA
Colore liturgico: Bianco

Oggi vediamo la potenza di Dio in san Paolo, divenuto da persecutore Apostolo che ha accolto la fede in Cristo e l’ha diffusa, con una fecondità apostolica straordinaria, che non è ancora cessata.
Ma poiché siamo ancora nella settimana dell’unità, riflettiamo su alcuni aspetti della conversione di Paolo che si possono mettere in relazione con l’unità.
San Paolo si preoccupava al massimo dell’unità del popolo di Dio. Fu proprio questo il motivo che lo spingeva a perseguitare i cristiani: egli non tollerava neppure il pensiero che degli uomini del suo popolo si staccassero dalla tradizione antica, lui che era stato educato, come egli stesso dice, alla esatta osservanza della Legge dei Padri ed era pieno di zelo per Dio. Ai Giudei che lo ascoltano dopo il suo arresto egli paragona appunto il suo zelo al loro: “… pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”.
E dunque possibile essere pieni di zelo per Dio, ma in modo sbagliato. San Paolo stesso lo dice nella lettera ai Romani: “Essi hanno molto zelo, ma non è uno zelo secondo Dio”, è uno zelo per Dio, ma concepito secondo gli uomini (cfr. Rm 10,2).
Ora, mentre Paolo, pieno di zelo per Dio, usava tutti i mezzi e in particolare quelli violenti per mantenere l’unità del popolo di Dio, Dio lo ha completamente “convertito”, rivolgendogli quelle parole che rivelano chiaramente quale sia la vera unità. “Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti”. Nelle tre narrazioni della conversione di Paolo molti dettagli cambiano: alcuni vengono aggiunti, altri scompaiono, ma queste parole si trovano sempre, perché sono veramente centrali. Paolo evidentemente non aveva coscienza di perseguitare Gesù, caricando di catene i cristiani, ma il Signore in questo momento gli rivela l’unità profonda esistente fra lui e i suoi discepoli: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti”. Forse proprio allora Paolo ebbe la prima rivelazione del corpo di Cristo, del quale ha parlato poi nelle sue lettere. Tutti siamo membra di Cristo per la fede in lui: in questo consiste la nostra unità.
Gesù stesso fonda la sua Chiesa visibile. “Che devo fare, Signore” chiede Paolo, e il Signore non gli risponde direttamente: “Prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia”. Lo manda dunque alla Chiesa, non vuole per il suo Apostolo una conversione individualistica, senza alcun rapporto con gli altri discepoli. Egli deve inserirsi nella Chiesa, Corpo di Cristo, al quale deve aderire per vivere nella vera fede.
Dopo la sua conversione Paolo ha conservato in cuore il desiderio di essere unito al popolo di Israele. Lo scrive nella lettera ai Romani con parole che non si possono leggere senza profonda commozione: “Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli”.
Ogni cristiano dovrebbe avere questa tristezza continua, che non impedisce di essere gioiosi in Cristo, perché è una tristezza secondo Dio, che ci unisce al cuore di Cristo. E la sofferenza per il popolo di Israele che non riconosce Cristo, per i cristiani che sono divisi e non giungono all’unità che il Signore vuole.

La conversione di Paolo che siamo chiamati a celebrare e a vivere, esprime la potenza della grazia che sovrabbonda dove abbonda il peccato. La svolta decisiva della sua vita si compie sulla via di Damasco, dive egli scopre il mistero della passione di Cristo che si rinnova nelle sue membra. Egli stesso perseguitato per Cristo dirà: ‘Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa’. Questa celebrazione, già presente in Italia nel sec. VIII, entrò nel calendario Romano sul finire del sec. X. Conclude in modo significativo la settimana dell’unità dei cristiani, ricordando che non c’è vero ecumenismo senza conversione (cfr Conc. Vat. II, Decreto sull’ecumenismo ‘Unitatis redintegratio’, 7). (Mess. Rom.)

Martirologio Romano: Festa della Conversione di san Paolo Apostolo, al quale, mentre percorreva la via di Damasco spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, Gesù in persona si manifestò glorioso lungo la strada affinché, colmo di Spirito Santo, annunciasse il Vangelo della salvezza alle genti, patendo molto per il nome di Cristo.

La festa liturgica della “conversiti sancti Pauli”, che appare già nel VI secolo, è propria della Chiesa latina. Poiché il martirio dell’apostolo delle Genti viene commemorato a giugno, la celebrazione odierna offre l’opportunità di considerare da vicino la poliedrica figura dell’Apostolo per eccellenza, che scrisse di se stesso: “Io ho lavorato più di tutti gli altri apostoli”, ma anche: “io sono il minimo fra gli apostoli, un aborto, indegno anche d’essere chiamato apostolo”.
Adduce egli stesso le credenziali che gli garantiscono il buon diritto di essere considerato apostolo: egli ha visto il Signore, Cristo Risorto, ed è, perciò, testimone della risurrezione; egli pure è stato inviato direttamente da Cristo, come i Dodici: visione, vocazione, missione, tre requisiti che egli possiede, per i quali quel miracolo della grazia avvenuto sulla via di Damasco, dove Cristo lo costringe a una incondizionata capitolazione, sicché egli grida: “Signore, che vuoi che io faccia?”. Nelle parole di Cristo è rivelato il segreto della sua anima: “Ti è duro ricalcitrare contro il pungolo”. E’ vero che Saulo cercava “in tutte le sinagoghe di costringere i cristiani con minacce a bestemmiare”, ma egli lo faceva in buona fede e quando si agisce per amore di Dio, il malinteso non può durare a lungo. Affiora l’inquietudine, cioè “il pungolo” della grazia, il guizzo della luce di verità: “Chi sei tu, Signore?”; “Io sono Gesù che tu perseguiti”. Questa mistica irruzione di Cristo nella vita di Paolo è il crisma del suo apostolato e la scintilla che gli svelerà la mirabile verità della inscindibile unità di Cristo con i credenti.
Questa esperienza di Cristo alle porte di Damasco, che egli paragona con l’esperienza pasquale dei Dodici e con il fulgore della prima luce della creazione, sarà il “leit motiv” della sua predicazione orale e scritta. Le quattordici lettere che ci sono pervenute, ognuna delle quali mette a nudo la sua anima con rapide accensioni, ci fanno intravedere il miracolo della grazia operato sulla via di Damasco, incomprensibile per chi voglia cercarne una spiegazione puramente psicologica, ricorrendo magari all’estasi religiosa o, peggio, all’allucinazione.S. Paolo trarrà dalla sua esperienza questa consolante conclusione: “Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali io sono il primo. Appunto per questo ho trovato misericordia. In me specialmente ha voluto Gesù Cristo mostrare tutta la sua longanimità, affinché io sia di esempio per coloro che nella fede in Lui otterranno d’ora innanzi la vita eterna”.
Autore:
Piero Bargellini – santiebeati.it

Santo del Giorno 24 Gennaio

San Francesco di Sales Vescovo e dottore della Chiesa 24 gennaio

Thorens, Savoia, 21 agosto 1567 – Lione, Francia, 28 dicembre 1622

Vescovo di Ginevra, fu uno dei grandi maestri di spiritualità degli ultimi secoli. Scrisse l’Introduzione alla vita devota (Filotea) e altre opere ascetico-mistiche, dove propone una via di santità accessibile a tutte le condizioni sociali, fondata interamente sull’amore di Dio, compendio di ogni perfezione (Teotimo). Fondò con santa Giovanna Fremyot de Chantal l’Ordine della Visitazione. Con la sua saggezza pastorale e la sua dolcezza seppe attirare all’unità della Chiesa molti calvinisti. (Mess. Rom.)

Patronato: Giornalisti, Autori, Scrittori, Sordomuti

Etimologia: Francesco = libero, dall’antico tedesco

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Memoria di san Francesco di Sales, vescovo di Ginevra e dottore della Chiesa: vero pastore di anime, ricondusse alla comunione cattolica moltissimi fratelli da essa separati, insegnò ai cristiani con i suoi scritti la devozione e l’amore di Dio e istituì, insieme a santa Giovanna di Chantal, l’Ordine della Visitazione; vivendo poi a Lione in umiltà, rese l’anima a Dio il 28 dicembre e fu sepolto in questo giorno ad Annecy.
(28 dicembre: A Lione in Francia, anniversario della morte di san Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, la cui memoria si celebra il 24 gennaio nel giorno della sua deposizione ad Annecy).

Il 4 maggio 1959 Giovanni XXIII disse, rivolgendosi ai giornalisti convenuti a Roma: «Vi è (…) una certa stampa che pecca gravemente contro la verità e contro la carità, mentendo per ispirare l’odio; stampa che sembra avere quest’unico programma: avviare a perdizione le anime semplici; ogni giorno travisare il vero (…)».
Oggi la maggior parte della stampa, della Tv e del Web ispira all’odio. Il laicismo sfrenato ha permesso di dire tutto, anche le cose più indegne ed indecenti, a tutti, senza rispetto per nessuno, neppure per la religione, per l’età, lo stato di salute. L’ideologia dell’uguaglianza, inoltre, porta al cinismo abitudinario e alla maleducazione generalizzata: ci si grida in faccia e ci insulta. Verità e carità? Queste sconosciute: il servizio pluralistico dei media è a vantaggio spesso della menzogna e dell’odio.
L’operare di molti giornalisti è sensazionalistico e tutto deve fare spettacolo, anche e soprattutto il dolore. San Francesco di Sales (1567-1622), Patrono degli scrittori e dei giornalisti, ha molto da insegnare al mondo editoriale e pubblicistico di oggi, anche a quello cattolico. Egli fu un predicatore instancabile e scrisse moltissimo, fu autore di libri eccezionali e sue sono più di 30 mila lettere; celebri sono poi i suoi fogli volanti, che faceva stampare per metterli sotto gli usci di casa e affiggerli ai muri di città e paesi. Sfruttò il suo talento di scrittore per diffondere il più possibile gli insegnamenti del Vangelo e spiegare le meraviglie della dottrina e della spiritualità cattolica.
Si fece scrittore per portare la verità e l’ortodossia della fede: fu ponte fra Cristo e la gente, fra Cristo e gli eretici, convertì migliaia e migliaia di calvinisti. Dagli scritti di questo dottore della Chiesa, fra le figure più nobili della Controriforma, esce un oceano di saggezza travasata con dolcezza e serenità. Usa dire: «Meno aceto e più miele», anche nella polemica. È un longanime (con l’animo grande): «è necessario sopportare gli altri, ma in primo luogo è necessario sopportare se stessi e rassegnarsi ad essere imperfetti». Suggerisce di vedere la realtà con oggettività e non soggettivamente: «quel che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, quel che per noi fanno gli altri ci pare nulla».
Il Trattato dell’amore di Dio è una vera e propria summa spirituale, dove l’autore spiega come Dio trae a sé l’uomo con vincoli di amore, cioè di vera libertà: «poiché l’amore non ha forzati né schiavi, ma riduce ogni cosa sotto la propria obbedienza con una forza così deliziosa che, se nulla è forte come l’amore, nulla è amabile come la sua forza» (libro I, cap. VI). I contenuti della fede che comunicherà attraverso i canali comunicativi del suo tempo hanno come fonte originaria la crisi di fede che subisce nel 1587: per sei settimane non mangia, non dorme, piange e si ammala.
Esce dalla notte oscura affidandosi e fidandosi unicamente di Dio: «Io vi amerò, Signore». Lo dice e lo realizza e tutto il mondo conoscerà, proprio con i suoi scritti, la potenza di quell’amore. Dall’incontro con la signora di Charmoisy trarrà spunto per scrivere uno dei libri più letti nell’età moderna, Filotea. Introduzione alla vita devota. E dalla sua profonda comunione spirituale con una personalità d’eccezione, santa Giovanna Francesca di Chantal, nascerà una nuova famiglia religiosa, l’Ordine della Visitazione, caratterizzato, come volle il Santo, da una consacrazione totale a Dio vissuta nell’umiltà, nel fare straordinariamente bene le cose ordinarie. L’Ordine della Visitazione diffuse la spiritualità del Sacro Cuore di Gesù, soprattutto attraverso le Rivelazioni di Cristo alla visitandina santa Margherita Maria Alacocque, con il conseguente movimento spirituale che trovò terreno fertile in molti oratori filippini.
Lo stesso san Francesco fondò a Thonon un Oratorio, eretto da papa Clemente VIII con la Bolla Redemptoris et Salvatoris nostri (1598). L’anno del suo dies natalis, 1622, corrisponde all’anno della canonizzazione di san Filippo Neri che il Vescovo di Ginevra aveva conosciuto grazie alla biografia dell’oratoriano Gallonio che gli fu donata dall’amico, Vescovo oratoriano e beato, Giovanni Giovenale Ancina. Formatosi dai Gesuiti, fu intrepido difensore della fede e della Chiesa e aveva una dote eccezionale: conosceva il cuore umano. Tale sensibilità fu determinante per essere recepito al meglio.
Le persone, quando lo ascoltavano o lo leggevano, si chinavano ai suoi insegnamenti, perché egli “leggeva dentro”. A santa Giovanna di Chantal, scrisse: «(…) Ecco la regola della nostra obbedienza che vi scrivo a caratteri grandi: fare tutto per amore, niente per forza. (…) Vi lascio lo spirito di libertà, non già quello che esclude l’obbedienza, ché questa è la libertà del mondo; ma quello che esclude la violenza, l’ansia e lo scrupolo» (Lettera del 14 ottobre 1604). Il Vescovo di Ginevra è anche, ricordiamolo, Patrono dei sordomuti.
Nella nostra età, dominata dall’apostasia, possa egli rendere meno sordi alla verità i cattolici e far tacere i bugiardi e gli ingannatori. Disse di lui san Vincenzo de’ Paoli: «coloro che l’ascoltavano pendevano dalle sue labbra. Sapeva adattarsi alle qualità di ognuno e si considerava in debito con tutti. Consultato a proposito di affari importanti, questioni di coscienza o qualsiasi altro argomento, non lasciava andare il suo ospite prima che questi fosse rimasto soddisfatto e consolato». È proprio vero: anche quando si legge qualcosa dello scrittore e giornalista savoiardo si rimane soddisfatti e consolati e si trova nuova energia per essere davvero cristiani in ogni stato in cui ci si trova e in ogni luogo, conformandosi alla volontà di Dio.

Autore: Cristina Siccardi – santiebeati.it

Santo del Giorno 23 Gennaio

Sant’ Ildefonso (Idelfonso) da Toledo Vescovo 23 gennaio

Toledo (Spagna), 607 – Toledo, 23 gennaio 667

Molto devoto a Maria, su cui scrisse un celebre trattato, e significativo esponente della Spagna del suo tempo, Ildefonso era discendente di una potente famiglia romana. Anche sotto i Visigoti avrebbe potuto far carriera, ma si fece monaco e divenne diacono. Fu eletto abate del monastero dei Santi Cosma e Damiano, nei pressi di Toledo. Quando il vescovo morì, nel 657, l’uomo di lettere e preghiera, cinquantenne, divenne anche uomo di governo ecclesiale nella diocesi della capitale del regno visigoto. Si districò tra difficili questioni interne e tenne testa alle pretese del re Recesvinto, che si era mosso personalmente per convincerlo a lasciare il cenobio e accettare l’elezione. Ha lasciato libri di liturgia e l’opera «De viris illustribus», una sorta di continuazione dell’enciclopedia di sant’Isidoro di Siviglia (di cui secondo la tradizione sarebbe stato allievo). Il 15 agosto del 660 la vergine gli apparve nel presbiterio della cattedrale, lodandolo e consegnandogli una preziosa veste. Morì a Toledo, di cui è patrono, nel 667. (Avvenire)

Etimologia: Ildefonso = pronto alla battaglia, dal tedesco

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Toledo in Spagna, sant’Ildefonso, vescovo, che, monaco e priore di un cenobio, fu eletto all’episcopato, scrisse numerosi libri con stile assai raffinato, compose celebri preghiere liturgiche e venerò con mirabile zelo e devozione la beata e sempre Vergine Maria Madre di Dio.

La sua famiglia, già potente sotto i Romani, lo rimane anche sotto i Visigoti, e gli prepara una carriera adeguata. Ma Ildefonso scappa di casa, rifugiandosi nel monastero dei santi Cosma e Damiano, vicino a Toledo. Non ha in mente la carriera. Si fa monaco, arriva al diaconato e qui si ferma. Gli va bene così. Ma i confratelli lo eleggono ugualmente abate nella loro comunità, perché ha tutto: pietà, cultura, energia, un parlare attraente. Ed è anche uno scrittore di grande efficacia.
Ma sui cinquant’anni deve lasciare il monastero: è morto Eugenio II, il vescovo di Toledo, e al suo posto si vuole lui, Ildefonso. Per convincerlo si muove il re visigoto in persona, Recesvinto. Così, nel 657, eccolo vescovo di quella che al tempo è la capitale del regno. Ora non ha più molto tempo da dedicare ai libri, impegnato com’è a scrivere tante lettere, e non proprio allegre. Abbiamo di lui pagine angosciate sugli scandali ad opera di certi cristiani influenti e falsi, sui conflitti duri con il re, che pure lo stima; e su tanti ecclesiastici che troppo s’immischiano negli affari di Stato.
Era davvero meglio il monastero: pregare con gli altri, studiare, scrivere… Ildefonso ci ha lasciato opere di dottrina e di morale, trattati sulla Madre di Gesù, inni liturgici. E anche l’opera divulgativa De viris illustribus (“Degli uomini illustri”) che è una continuazione dell’opera omonima di Isidoro di Siviglia (ca. 570-636). Ildefonso non può vivere senza insegnare, convinto anche lui (come san Braulio, vescovo di Saragozza) che il sapere “è un dono comune, non privato”, e che perciò deve essere distribuito a tutti.
Colpisce i fedeli la sua devozione mariana, suscitando anche racconti di fatti prodigiosi. Come quando, al momento di una celebrazione solenne, apparve in chiesa la Madonna, porgendo a Ildefonso l’abito liturgico (la pianeta) per il rito.
Dopo la morte, il suo corpo fu sepolto a Toledo; poi, con l’invasione araba, venne trasferito a Zamora, in Castiglia. I fedeli lo hanno “gridato santo” da subito, collegando sempre il suo nome a quello della Beata Vergine Maria. E dieci secoli dopo la sua morte sarà ancora così, nei dipinti dei maestri del siglo de oro (il “secolo d’oro” dell’arte spagnola): El Greco, Velázquez, Murillo, Zurbarán (suo il particolare del dipinto riprodotto qui accanto), con molti altri in tutta Europa, continueranno a raffigurare il vescovo di Toledo accanto alla Madre di Gesù. Come anche Guido Reni nello stesso periodo, con l’affresco conservato nella basilica di Santa Maria Maggiore in Roma. La grande arte rifletteva così gli stati d’animo popolari, espressi nel culto spontaneamente tributato a Ildefonso, dai fedeli e dal suo successore Giuliano, che ne scrisse la vita.


Autore:
Domenico Agasso

Famiglia Cristiana

Santo del Giorno 19 Gennaio

Bassiano – «Rapito» da Cristo, divenne prete e pastore
 santo.di.oggi
Il percorso esistenziale di san Bassiano è l’immagine di quello che stava succedendo all’intera società romana nel IV: la fede cristiana ormai poteva essere vissuta alla luce e in molti trovavano in Cristo le risposte che cercavano da tempo. Questo percorso portò Bassiano a diventare un autentico “padre” impegnato a dare una struttura più organica alle questioni pastorali e dottrinali. Nato a Siracusa attorno al 320, pagano, venne mandato dal padre a Roma per la formazione. Lì Bassiano si convertì al cristianesimo e, per sfuggire al padre che lo voleva apostata, andò a Ravenna dove divenne sacerdote. Nel 373 fu scelto come pastore di Lodi e da vescovo partecipò ai più importanti eventi ecclesiali dell’epoca, come il Concilio del 381 ad Aquileia. Con sant’Ambrogio, suo amico, condivise la lotta contro l’arianesimo. Morì nel 409.
Altri santi. San Macario il Grande, abate (300-390); beato Marcello Spinola y Maestre, vescovo (1835-1906).
Letture. 1 Sam 16,1-13; Sal 88; Mc 2,23-28.
Ambrosiano. Sir 44,1;46,11-12; Sal 105; Mc 3,31-35.

Santo del giorno: Sant’Antonio Abate 17 gennaio

Sant’Antonio Abate 17 gennaio

Coma, Egitto, 250 ca. – Tebaide (Alto Egitto), 17 gennaio 356

Antonio abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell’iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore. (Avvenire)

Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai

Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco

Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T
Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci.

Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.


Autore:
Antonio Borrelli

santiebeati.it

Santo del Giorno 14 Gennaio

Felice  di Nola – Nella Chiesa «liberata» testimone di povertà
San Felice da Nola è venerato come martire, eppure non venne ucciso: questa anomalia si spiega gettando uno sguardo al periodo particolare nel quale si trovò a vivere, cioè nel cuore della transizione dall’epoca delle persecuzioni a quella della libertà di culto con l’edito di Costantino del 313. Lui era di origine siriana, ma era nato a Nola, dove fu collaboratore del vescovo Massimo, il quale si ritirò in un luogo isolato per fuggire dalla persecuzione. Felice, invece, fu catturato e solo miracolosamente sopravvisse alle torture: secondo la tradizione fu salvato da un angelo. Con il cessare delle persecuzioni la comunità lo avrebbe voluto successore di Massimo, ma lui rifiutò, preferendo vivere in totale povertà e ritirato fino alla morte: aveva capito che la Chiesa libera aveva bisogno ancora di testimoni in grado di scelte radicali.
Altri santi. Beato Oddone di Novara, monaco (1100-1198); beato Odorico da Pordenone, sacerdote (1265-1331).
Letture. 1 Sam 4,1-11; Sal 43; Mc 1,40-45.
Ambrosiano. Sir 44,1.15-18; Sal 111; Mc 1,35-45.

Santo del Giorno 13 Gennaio

Ilario di Poitiers – Da pagano a vescovo e apostolo della verità
Dopo la persecuzione è l’eresia la più grave minaccia alla vita della Chiesa: l’errore, infatti, divide, crea correnti e fazioni, distorce la realtà di Dio, allontanandola dall’uomo. Ecco perché i pastori e i pensatori dei primi secoli rappresentano ancora oggi non solo dei preziosi “dottori” della teologia, ma continuano a garantire l’unità e quindi la credibilità dei credenti. Tra le più note di queste antiche colonne della Chiesa vi è sant’Ilario di Poitiers, nato attorno al 315, da pagano era prima approdato al neoplatonismo per poi trovare la propria casa nella fede cristiana. Poco dopo il Battesimo venne acclamato vescovo di Poitiers. Tra gli errori più diffusi s’impegnò contro l’eresia ariana attraverso le sue opere, la più famosa delle quali è il “De Trinitate”. Morì nel 367; Pio IX lo ha proclamato dottore della Chiesa.
Altri santi. Beata Veronica da Binasco, vergine (1445-1497); beato Emilio Szramek, sacerdote e martire (1887-1942).
Letture. 1 Sam 3,1-10.19-20; Sal 39; Mc 1,29-39.
Ambrosiano. Sir 43, 9-18; Sal 103; Mc 1,21-34.
santo.di.oggi