Blog di notizie varie (a cura redazione Chiesa S. Stefano – Reggio Emilia)
Per la prima parte della Bibbia – l’Antico Testamento –, il testo ebraico (e aramaico) si fonda sull’insieme dei codici altomedioevali che costituiscono il Testo masoretico: così chiamato perché, tra il VI e l’XI secolo, un gruppo di scribi detti masoreti – a cominciare da quelli della famiglia ben Asher, attiva a Tiberiade dalla seconda metà dell’VIII fino alla prima metà del X secolo – aveva raccolto la tradizione manoscritta precedente e proseguito con grande scrupolo e meticolosità nell’opera di conservazione e trasmissione del testo, corredandolo di un prezioso apparato di informazioni e note (“masora”) e avendo inoltre cura di aggiungere ai soli caratteri consonantici fissati fin dai primi secoli dell’era cristiana una serie di punti e linee indispensabili per la vocalizzazione, ossia per stabilire la pronuncia del testo.
Per la seconda parte della Bibbia – il Nuovo Testamento –, il testo greco stabilito è anch’esso frutto di un lungo lavoro di ricerca, ricostruzione e collazione di “testimoni” antichi e affidabili: papiri greci (tra cui quelli delle importanti collezioni Chester Beatty e Bodmer), manoscritti greci in maiuscola (a cominciare dai codici Sinaitico, Alessandrino e Vaticano) e una nutrita famiglia di manoscritti neotestamentari in minuscola, completi o parziali, estesi sull’arco di vari secoli […].
Le lingue originali degli scritti biblici sono, per l’Antico Testamento, l’ebraico e l’aramaico; per il Nuovo Testamento, il greco. I primi israeliti cominciano a parlare in ebraico – o «in giudaico», come più volte ci si esprime (2Re 18,26.28; 2Cr 32,18; Ne 13,24;
Is 36,11.13) – dopo il loro ingresso in Canaan, e per questo la lingua ebraica viene anche chiamata «lingua di Canaan» (Is 19,18), una delle diverse forme del semitico nord-occidentale. Dopo l’epoca dell’esilio babilonese (VI secolo a.C.), l’aramaico inizia ad affermarsi e, nella Palestina del I secolo, è ormai la lingua corrente, parlata anche da Gesù. Per quanto riguarda la lingua greca, si utilizza il greco comune dell’ellenismo, la koinè, largamente diffusa in quasi tutta l’area del Mediterraneo.
Il greco usato dagli scrittori neotestamentari presenta tuttavia una sua fisionomia composita, sia per il livello culturale dei singoli autori e le peculiarità stilistiche di ciascuno di essi, sia per l’evoluzione stessa della lingua nell’arco di tempo in cui si estende la redazione degli scritti del Nuovo Testamento. Inoltre, la presenza di numerosi semitismi, a volte anche la traduzione di alcuni luoghi o termini greci “in ebraico” (hebraisti), ma soprattutto il sostrato stesso di locuzioni e costruzioni grammaticali e sintattiche attestano il marcato influsso dell’ebraico e dell’aramaico sul greco del Nuovo Testamento: influsso che si inserisce, del resto, nel più ampio quadro dell’influenza esercitata dalle lingue semitiche e degli stretti rapporti esistenti tra Antico e Nuovo Testamento.
Nel corso del tempo, i libri biblici sono stati raccolti in un elenco ufficiale e definitivo detto “canone”. Tali libri, proprio in virtù del loro status canonico, erano e sono infatti assunti come normativi dalle varie confessioni religiose. Prima però di arrivare al canone che ha configurato la struttura e la sequenza definitiva dei libri all’interno della Bibbia, si è avuto un processo di ricostruzione della loro genesi letteraria estremamente accidentato, fatto di numerosi passaggi, dalle tradizioni orali alle testimonianze scritte. Attraverso lo studio e il confronto delle molteplici tradizioni testuali – alle quali ha dato uno straordinario apporto in tempi recenti la scoperta dei rotoli del Mar Morto rinvenuti a Qumran –, si è cercato (e si continua a cercare) di risalire alla forma più corretta, stabile e completa dei testi, individuarne l’iter di formazione e composizione, assieme alle motivazioni e all’epoca del loro inserimento nel canone.
Quanto questi passaggi siano stati complessi lo si deduce con evidenza dal tempo trascorso. Infatti, nonostante i pronunciamenti dei concili d’Ippona (393) e di Cartagine (397) – confermati da papa Innocenzo I nel 405 – e soprattutto, in età moderna, del Concilio di Firenze (4 febbraio 1442), si dovrà aspettare il Concilio di Trento per l’approvazione definitiva del canone (8 aprile 1546). Nella valutazione della canonicità dei singoli libri del Nuovo Testamento i criteri-guida erano stati, in linea di massima, i seguenti: la loro origine apostolica (dovevano cioè risalire all’autorità di un apostolo o ai primissimi tempi della Chiesa); la loro cattolicità (anche se indirizzati in origine alle Chiese locali, dovevano essere accessibili e validi per la Chiesa universale) e la loro ortodossia (conformità ai principi e agli insegnamenti stabiliti dal «deposito della fede»).
Non sempre, tuttavia, questi criteri ispiratori erano intervenuti insieme e soprattutto in modo definitivo, inserendosi come ulteriori e spesso determinanti elementi di giudizio nel processo di formazione del canone il consolidato uso liturgico di un testo e la sua frequente utilizzazione nell’insegnamento; la tradizione ecclesiastica da cui aveva avuto origine e che aveva prodotto, non meno che l’opinione di vescovi e teologi influenti.
La Libreria editrice vaticana ha appena pubblicato, per la prima volta, un’edizione bilingue italiano-latino de ‘La Sacra Bibbia’, Antico e Nuovo testamento, con testo a fronte su due colonne allineate per ogni facciata. La grande opera (anche da un punto di vista quantitativo, con le sue ben 4.480 pagine) è stata curata da monsignor Fortunato Frezza canonico vaticano e dottore in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, già sottosegretario del Sinodo dei vescovi.
Avvenire lo ha intervistato.
Monsignore, come è nata l’idea di affrontare questa opera?
Nella storia della trasmissione delle Sacre Scritture c’è una lunga tradizione di Bibbie poliglotte. Da parte mia ho voluto comporre insieme la Nova Vulgata latina del 1998 e riedita nel 2005, e la versione italiana della Cei del 2008. Due testi che sono dei veri e propri ‘monumenti’ di grandissimo valore storico, letterario, spirituale ed ecclesiale, essendo il frutto di un lavoro voluto dal Concilio Vaticano II.
In che senso?
Furono le esigenze di rinnovamento liturgico indicate dal Concilio che condussero Paolo VI a istituire una Commissione per la compilazione di una nuova edizione della Vulgata che risaliva al 1592. Così se quella vulgata, detta clementina, fu il frutto del Concilio di Trento, quella emanata nel 1979 da Giovanni Paolo II – papa Montini purtroppo non fece in tempo a vedere i frutti della Commissione da lui istituita – è stata il frutto del Vaticano II.
E di «obbedienza conciliare», come da lei scritto nella nota introduttiva all’opera, è anche il testo italiano della Cei…
Infatti, secondo le indicazioni del Vaticano II, risponde all’urgenza pastorale di nutrire la fede della Chiesa attraverso il messaggio biblico tradotto dalle lingue originali nelle lingue nazionali. La Cei già nell’immediato postconcilio, curò per la liturgia, nel 1971, una prima versione italiana della Sacra Scrittura, procedendo a una sua revisione già nel 1974. Nel 2008, dopo lunga e qualificata elaborazione, è arrivata una terza edizione che è quella affiancata alla Nova Vulgata in questa Bibbia bilingue della Libreria editrice vaticana.
A chi si rivolge questo testo?
È rivolto agli specialisti ma non solo. Anche chi conosce poco le lingue classiche potrà più facilmente apprezzare la versione latina che continua ad essere quella normativa per tutta la Chiesa per quanto riguarda l’uso liturgico. A questo proposito mi piace associare questa pubblicazione a quella curata dalla Università pontificia Salesiana, di un messalino latino-italiano, in tre volumi, feriale e festivo, destinato all’assemblea dei fedeli.
Ha avuto modo di presentare la sua fatica a Papa Francesco?
Sì, è successo venerdì scorso dopo la Messa mattutina a Santa Marta. Al Papa è stata offerta in un cofanetto e finemente rilegata in pelle bianca, come è uso fare con i pontefici. A questo breve incontro erano presenti anche il direttore della Libreria Editrice Vaticana, don Giuseppe Costa, insieme al coordinatore editoriale padre Edmondo Caruana. È stato un momento particolarmente commovente anche perché il Papa ha mostrato di apprezzare questo atto d’amore verso la Sacra Scrittura.
avvenire
La Sacra Scrittura non è un libro che si possa leggere da soli, è fatto invece per la lettura ad alta voce in mezzo alla comunità dei credenti. Anche lo studio e la meditazione personali, infatti, trovano la loro origine e la loro destinazione nella lettura ecclesiale e liturgica. Questo nuovo percorso è indirizzato sia a chi ha già partecipato al precedente, sia a chi vuole iniziare adesso.
Nei primi due incontri don Matteo Mioni farà vedere come disporci a leggere la Bibbia ed indicherà alcune modalità basilari di lettura. Nei tre incontri successivi, ogni partecipante, in piccoli gruppi, sarà invitato alla lettura di un testo biblico, di volta in volta di diverso tipo: un testo narrativo dell’Antico Testamento, un testo profetico, un testo evangelico. Questi primi cinque incontri si svolgeranno al sabato pomeriggio nel Seminario di Reggio. L’ultimo incontro sarà di un’intera giornata, una domenica, a Marola. Lì saranno proposte diverse prospettive di lettura della Parola di Dio: ad esempio, la lettura ebraica o quella dei padri della Chiesa o quella delle comunità di base dell’America latina o quella drammatizzata dei gesuiti, eccetera. Ognuno potrà scegliere tra le varie proposte e svolgere in quell’ottica la giornata seminariale.
Su La Libertà del 29 novembre il calendario dettagliato degli incontri.
Iscrizioni e informazioni
acquaprofonda@apostolatobiblicore.it
oppure inviare un sms al numero 388.8371318
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