Commento al Vangelo Domenica 13 Ottobre 2019 Dio ci offre non solo guarigione, ma salvezza

di Ermes Ronchi

Avvenire

XXVIII Domenica
Tempo ordinario – Anno C

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. […]

Dieci lebbrosi che la sofferenza ha riunito insieme, che si appoggiano l’uno all’altro. Appena Gesù li vide… Notiamo il dettaglio: appena li vide, subito, spinto dalla fretta di chi vuole bene, disse loro: andate dai sacerdoti e mostrate loro che siete guariti! I dieci si mettono in cammino e sono ancora malati; la pelle ancora germoglia piaghe, eppure partono dietro a un atto di fede, per un anticipo di fiducia concesso a Dio e al proprio domani, senza prove: «La Provvidenza conosce solo uomini in cammino» (san Giovanni Calabria), navi che alzano le vele per nuovi mari. I dieci lebbrosi credono nella salute prima di vederla, hanno la fede dei profeti che amano la parola di Dio più ancora della sua attuazione, che credono nella parola di Dio prima e più che alla sua realizzazione. E mentre andavano furono guariti. Lungo il cammino, un passo dopo l’altro la salute si fa strada in loro. Accade sempre così: il futuro entra in noi con il primo passo, inizia molto prima che accada, come un seme, come una profezia, come una notte con la prima stella, come un fiume con la prima goccia d’acqua. E furono guariti. Il Vangelo è pieno di guariti, sono il corteo gioioso che accompagna l’annuncio di Gesù: Dio è qui, è con noi, coinvolto nelle piaghe dei dieci lebbrosi e nello stupore dell’unico che ritorna cantando. E al quale Gesù dice: la tua fede ti ha salvato!. Anche gli altri nove che non tornano hanno avuto fede nelle parole di Gesù. Dove sta la differenza? Il samaritano salvato ha qualcosa in più dei nove guariti. Non si accontenta del dono, lui cerca il Donatore, ha intuito che il segreto della vita non sta nella guarigione, ma nel Guaritore, nell’incontro con lo stupore di un Dio che ha i piedi nel fango delle nostre strade, e gli occhi sulle nostre piaghe. Nessuno si è trovato che tornasse a rendere gloria a Dio? Ebbene «gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo). E chi è più vivente di questo piccolo uomo di Samaria? Lui, il doppiamente escluso, che torna guarito, gridando di gioia, danzando nella polvere della strada, libero come il vento? Non gli basta tornare dai suoi, alla sua famiglia, travolto da questa inattesa piena di vita, vuole tornare alla fonte da cui è sgorgata. Altro è essere guariti, altro essere salvati. Nella guarigione si chiudono le piaghe, ma nella salvezza si apre la sorgente, entri in Dio e Dio entra in te, come pienezza. I nove guariti trovano la salute; l’unico salvato trova il Dio che dona pelle di primavera ai lebbrosi, che fa fiorire la vita in tutte le sue forme, e la cui gloria è l’uomo vivente, «l’uomo finalmente promosso a uomo» (P. Mazzolari).
(Letture: 2 Re 5,14-17; Salmo 97; 2 Timoteo 2,8-13; Luca 17,11-19)

Christus vivit, giovani e Vangelo, annuncio e maniche rimboccate

Crescere nella fede. Sì, ma come? Se lo chiede il Papa al settimo capitolo della “Christus vivit”, in cui dice: i giovani maturano se si usa con loro “il linguaggio della vicinanza” e si offrono “luoghi appropriati” per fare esperienza. Tamandani Kamuyanja, 25.enne ragazza del Malawi, conferma. L’impegno in un Movimento ecclesiale, assicura, le ha insegnato ad amare il Vangelo

“Christus vivit”

(par. 209-220)

209. Vorrei solo sottolineare brevemente che la pastorale giovanile comporta due grandi linee d’azione. Una è la ricerca, l’invito, la chiamata che attiri nuovi giovani verso l’esperienza del Signore. L’altra è la crescita, lo sviluppo di un percorso di maturazione di chi ha già vissuto quell’esperienza.

210. Per quanto riguarda il primo punto, la ricerca, confido nella capacità dei giovani stessi, che sanno trovare le vie attraenti per invitare. Sanno organizzare festival, competizioni sportive, e sanno anche evangelizzare nelle reti sociali con messaggi, canzoni, video e altri interventi. Dobbiamo soltanto stimolare i giovani e dare loro libertà di azione perché si entusiasmino alla missione negli ambienti giovanili. Il primo annuncio può risvegliare una profonda esperienza di fede durante un “ritiro di impatto”, in una conversazione al bar, in un momento di pausa nella facoltà, o attraverso una delle insondabili vie di Dio. Ma la cosa più importante è che ogni giovane trovi il coraggio di seminare il primo annuncio in quella terra fertile che è il cuore di un altro giovane.

211. In questa ricerca va privilegiato il linguaggio della vicinanza, il linguaggio dell’amore disinteressato, relazionale ed esistenziale che tocca il cuore, raggiunge la vita, risveglia speranza e desideri. Bisogna avvicinarsi ai giovani con la grammatica dell’amore, non con il proselitismo. Il linguaggio che i giovani comprendono è quello di coloro che danno la vita, che sono lì a causa loro e per loro, e di coloro che, nonostante i propri limiti e le proprie debolezze, si sforzano di vivere la fede in modo coerente. Allo stesso tempo, dobbiamo ancora ricercare con maggiore sensibilità come incarnare il kerygma nel linguaggio dei giovani d’oggi.

“ Qualsiasi percorso di crescita per i giovani è importante che sia centrato su due assi principali: uno è l’approfondimento del kerygma, l’esperienza fondante dell’incontro con Dio attraverso Cristo morto e risorto. L’altro è la crescita nell’amore fraterno, nella vita comunitaria, nel servizio. ”

212. Per quanto riguarda la crescita, vorrei dare un avvertimento importante. In alcuni luoghi accade che, dopo aver provocato nei giovani un’intensa esperienza di Dio, un incontro con Gesù che ha toccato il loro cuore, vengono loro proposti incontri di “formazione” nei quali si affrontano solo questioni dottrinali e morali: sui mali del mondo di oggi, sulla Chiesa, sulla dottrina sociale, sulla castità, sul matrimonio, sul controllo delle nascite e su altri temi. Il risultato è che molti giovani si annoiano, perdono il fuoco dell’incontro con Cristo e la gioia di seguirlo, molti abbandonano il cammino e altri diventano tristi e negativi. Plachiamo l’ansia di trasmettere una gran quantità di contenuti dottrinali e, soprattutto, cerchiamo di suscitare e radicare le grandi esperienze che sostengono la vita cristiana. Come diceva Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore […] tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».[112]

213. Qualsiasi progetto formativo, qualsiasi percorso di crescita per i giovani, deve certamente includere una formazione dottrinale e morale. È altrettanto importante che sia centrato su due assi principali: uno è l’approfondimento del kerygma, l’esperienza fondante dell’incontro con Dio attraverso Cristo morto e risorto. L’altro è la crescita nell’amore fraterno, nella vita comunitaria, nel servizio.

214. Ho insistito molto su questo in Evangelii gaudium e penso che sia opportuno ricordarlo. Da un lato, sarebbe un grave errore pensare che nella pastorale giovanile «il kerygma venga abbandonato a favore di una formazione che si presupporrebbe essere più “solida”. Non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio. Tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio».[113] Pertanto, la pastorale giovanile dovrebbe sempre includere momenti che aiutino a rinnovare e ad approfondire l’esperienza personale dell’amore di Dio e di Gesù Cristo vivo. Lo farà attingendo a varie risorse: testimonianze, canti, momenti di adorazione, spazi di riflessione spirituale con la Sacra Scrittura, e anche con vari stimoli attraverso le reti sociali. Ma questa gioiosa esperienza di incontro con il Signore non deve mai essere sostituita da una sorta di “indottrinamento”.

Tamandani Kamuyanja

Tamandani Kamuyanja

215. D’altra parte, qualunque piano di pastorale giovanile deve chiaramente incorporare vari mezzi e risorse per aiutare i giovani a crescere nella fraternità, a vivere come fratelli, ad aiutarsi a vicenda, a fare comunità, a servire gli altri, ad essere vicini ai poveri. Se l’amore fraterno è il «comandamento nuovo» (Gv 13,34), se è la «pienezza della Legge» (Rm 13,10), se è ciò che meglio manifesta il nostro amore per Dio, allora deve occupare un posto rilevante in ogni piano di formazione e di crescita dei giovani.

Ambienti adeguati

216. In tutte le nostre istituzioni dobbiamo sviluppare e potenziare molto di più la nostra capacità di accoglienza cordiale, perché molti giovani che arrivano si trovano in una profonda situazione di orfanezza. E non mi riferisco a determinati conflitti familiari, ma ad un’esperienza che riguarda allo stesso modo bambini, giovani e adulti, madri, padri e figli. Per tanti orfani e orfane nostri contemporanei – forse per noi stessi – le comunità come la parrocchia e la scuola dovrebbero offrire percorsi di amore gratuito e promozione, di affermazione e crescita. Molti giovani oggi si sentono figli del fallimento, perché i sogni dei loro genitori e dei loro nonni sono bruciati sul rogo dell’ingiustizia, della violenza sociale, del “si salvi chi può”. Quanto sradicamento! Se i giovani sono cresciuti in un mondo di ceneri, non è facile per loro sostenere il fuoco di grandi desideri e progetti. Se sono cresciuti in un deserto vuoto di significato, come potranno aver voglia di sacrificarsi per seminare? L’esperienza di discontinuità, di sradicamento e la caduta delle certezze di base, favorita dall’odierna cultura mediatica, provocano quella sensazione di profonda orfanezza alla quale dobbiamo rispondere creando spazi fraterni e attraenti dove si viva con un senso.

217. Fare “casa” in definitiva «è fare famiglia; è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere. Una casa, lo sappiamo tutti molto bene, ha bisogno della collaborazione di tutti. Nessuno può essere indifferente o estraneo, perché ognuno è una pietra necessaria alla sua costruzione. Questo implica il chiedere al Signore che ci dia la grazia di imparare ad aver pazienza, di imparare a perdonarci; imparare ogni giorno a ricominciare. E quante volte perdonare e ricominciare? Settanta volte sette, tutte quelle che sono necessarie. Creare relazioni forti esige la fiducia che si alimenta ogni giorno di pazienza e di perdono. E così si attua il miracolo di sperimentare che qui si nasce di nuovo; qui tutti nasciamo di nuovo perché sentiamo efficace la carezza di Dio che ci rende possibile sognare il mondo più umano e, perciò, più divino».[114]

218. In questo quadro, nelle nostre istituzioni dobbiamo offrire ai giovani luoghi appropriati, che essi possano gestire a loro piacimento e dove possano entrare e uscire liberamente, luoghi che li accolgano e dove possano recarsi spontaneamente e con fiducia per incontrare altri giovani sia nei momenti di sofferenza o di noia, sia quando desiderano festeggiare le loro gioie. Qualcosa del genere hanno realizzato alcuni oratori e altri centri giovanili, che in molti casi sono l’ambiente in cui i giovani vivono esperienze di amicizia e di innamoramento, dove si ritrovano, possono condividere musica, attività ricreative, sport, e anche la riflessione e la preghiera, con piccoli sussidi e diverse proposte. In questo modo si fa strada quell’indispensabile annuncio da persona a persona, che non può essere sostituito da nessuna risorsa o strategia pastorale.

219. «L’amicizia e il confronto, spesso anche in gruppi più o meno strutturati, offre l’opportunità di rafforzare competenze sociali e relazionali in un contesto in cui non si è valutati e giudicati. L’esperienza di gruppo costituisce anche una grande risorsa per la condivisione della fede e per l’aiuto reciproco nella testimonianza. I giovani sono capaci di guidare altri giovani e di vivere un vero apostolato in mezzo ai propri amici».[115]

220. Questo non significa che si isolino e perdano ogni contatto con le comunità parrocchiali, i movimenti e le altre istituzioni ecclesiali. Essi però si inseriranno meglio in comunità aperte, vive nella fede, desiderose di irradiare Gesù Cristo, gioiose, libere, fraterne e impegnate. Queste comunità possono essere i canali in cui loro sentono che è possibile coltivare relazioni preziose.

vaticannews

Quante cose le donne avrebbero da dire al maschilista mondo cattolico, se le lasciassero parlare! Il nuovo libro di Ilaria Beretta (Ancora editrice) tenta di dar voce non alle “solite esperte”, ma a 15 donne impegnate a vario titolo nella Chiesa

vinonuovo.it

«Dobbiamo parlare». Se la Chiesa fosse una persona, probabilmente le donne la farebbero
accomodare in salotto e, bloccando per precauzione ogni via di fuga fisica e dialettica, affronterebbero a uno a uno con la diretta interessata i nodi di una relazione che non funziona.
Che siano religiose impegnate in parrocchia, laiche attive negli oratori oppure professioniste negli istituti teologici, le donne conoscono infatti sin troppo bene lo sguardo sostenuto, condiscendente, a volte addirittura sprezzante, rivolto loro dagli uomini di Chiesa che ancora oggi, in Italia, nell’era delle pari opportunità, sembrano non avere alcuna intenzione di condividere con la cosiddetta «altra metà del cielo» il prestigio del sapere e l’autorità della decisione.
Perciò con un «dobbiamo parlare» (frase che nessun maschio, sposato e celibe che sia, spera di sentire mai nella vita) si metterebbe subito in chiaro che la questione «donne e Chiesa» è seria e non si può rimandare.
D’altronde che la strana coppia abbia un problema è sotto gli occhi di tutti: dei cristiani e pure di chi ha poco a che fare con la religione; anzi, siamo giunti a un livello di non ritorno, a meno che le parti non si decidano finalmente a un discorso – appunto – schietto. Il complicato rapporto tra Chiesa e genere femminile è infatti tutt’altro che risolto e resta tuttora un cruccio per milioni di cristiane «qualunque» che nella pratica delle realtà ecclesiali si scontrano quotidianamente con difficoltà, incomprensioni, ostacoli, rifiuti, disparità di trattamento.
Senza ombra di dubbio sono dunque le donne a «tenere in piedi» concretamente la Chiesa attraverso le più varie forme di partecipazione e in molti contesti – dalle parrocchie ai conventi, fino alle associazioni – in cui tra l’altro si sono ormai conquistate la superiorità numerica sugli uomini. Pensiamo al rapporto di genere rispetto alla disponibilità al lavoro nelle comunità ecclesiali: non c’è partita. Oppure ai catechisti: in Italia l’80 per cento è donna. Tuttavia proprio le donne che lavorano nelle parrocchie o sono impegnate a un livello territoriale «intermedio» nelle diocesi si possono
meglio di chiunque rendere conto nella prassi delle disparità esistenti tra i sessi e accorgersi dello strano paradosso che le vede da un lato risorse indispensabili per il buon funzionamento della macchina-Chiesa e dall’altro potenziali minacce alle quali è meglio continuare a chiudere le strade.
Tra l’altro negli ultimi decenni le donne sono cresciute e ai primi banchi davanti all’altare si affollano ormai signore che, avendo accumulato una competenza teorica certificata da lauree in scienze religiose e dottorati in teologia (oltre naturalmente a equivalenti titoli nelle più disparate discipline laiche), non sono affatto sprovvedute nei confronti di chi spadroneggia dal pulpito. Eppure l’impressione è che in seminari e parrocchie queste competenze non solo non siano valorizzate, al contrario diventino ulteriori elementi di allontanamento ed emarginazione, soprattutto per le più giovani, certamente abituate a un trattamento più maturo in altri settori della società.
La partita però non si gioca più con proclami in piazza, bensì a livello ecclesiale di base, dove le donne ricercano un’inversione di rotta sostanziale di mentalità e cultura. In quest’ottica a guidare il cambiamento non sono più poche militanti ma una maggioranza «silenziosa» diventata talmente consapevole di sé da non accontentarsi più di vincere la battaglia unicamente scrivendo il proprio nome su una targhetta. Occupare le stesse cariche e svolgere i medesimi ruoli degli uomini non sembra la strada più efficace (né più evangelica) da seguire per ottenere riconoscimento. Sono le donne «ordinarie» che oggi invece appaiono più pronte ad assumersi le responsabilità di un cambiamento, graduale ma inarrestabile.

Catecumeni, Credo e preghiera dei fedeli

Don Ubaldo è molto preoccupato: è arrivato un signore dall’Albania che chiede di diventare cristiano. È una cosa meravigliosa, dice fra sé e sé, ma è tutto così nuovo per lui, abituato ai suoi bambini, al catechismo, al limite ai genitori che sono sempre più difficili da gestire… Ma questa novità lo destabilizza. Si farà aiutare dalla signora Caterina, devota e attenta, pronta a seguire questo signore per la catechesi.

Ma con un catecumeno le cose si fanno complicate, pensa don Ubaldo: ha saputo che lo deve congedare dopo l’omelia. Ma che stranezza! Pensa tra sé: lo abbiamo accolto, ammesso al catecumenato e ora lo mandiamo via durante la messa, davanti a tutti. Cosa penserà la gente? E come la prenderà Bledar, il signore in questione?

Celebrare questo rito ha una funzione soprattutto pedagogica. Quando un bambino inizia a scrivere, lo lasciamo scarabocchiare, ma poi gli chiediamo di mettere in ordine le lettere e le vocali per formare le frasi.

Così è con le persone che si avvicinano alla fede. È logico che esse all’inizio partecipino a tutta la liturgia. La prima fase di questo approccio è a tutta la messa. Ad un certo punto, però, non si è più spettatori, ma discepoli in cammino verso Gesù e bisogna mettere “le cose a posto”, cioè sistemare la relazione con la liturgia, che non è più di semplice spettatore, ma di credente. È un approccio per gradi: il catecumeno può sopportare solo il peso della parte che riguarda l’ascolto, l’insegnamento, la Parola.

Il secondo aspetto di questo Rito del congedo è più strettamente misterico e sacramentale, viene chiamata la «disciplina dell’arcano». La seconda parte della messa, infatti, chiede una relazione sacramentale con Gesù. È la parte in cui i credenti si mettono in relazione filiale con Dio chiamandolo Padre. Ma Paolo precisa che questo non è possibile se non nello Spirito Santo e i catecumeni non hanno ancora ricevuto lo Spirito Santo. Quindi, come non possono dire il Padre nostro, così non possono nemmeno accostarsi ai divini misteri. Non possono dire Padre nostronella fede, vivendo l’abbandono filiale a Dio, perché appunto non hanno ancora ricevuto lo Spirito Santo. Vivere il Rito del congedo vuol dire vivere questo senso del mistero.

Pensiamo al fatto che, se ho un oggetto prezioso e antico, se ho un vaso di cristallo pregiato, non lo regalerò ad un bimbo di cinque anni, ma aspetterò che egli cresca, perché possa capire e proteggere questo dono. Così è dei sacramenti.

Il congedo non manda via i catecumeni, ma li rispetta, li accomiata accompagnandoli nella fede. Le parole sono di amore e rispetto: «Caro Bledar, va’ in pace e il Signore sia sempre con te».

L’iniziazione ai misteri, infatti, chiede che si viva la dimensione del mistero. Prima di gustarlo bisogna saper aspettare. Don Ubaldo, non temere quindi di congedare il tuo catecumeno: è un gesto di rispetto per lui e per l’assemblea.

Dopo il congedo del catecumeno, l’assemblea proclama la sua fede con il Credo: un catecumeno non può proclamare una fede che sta ancora conoscendo; lo farà il sabato santo mattina, nei riti preparatori.

Noi recitiamo il Credo frettolosamente, senza ormai far più caso alle parole delle fede con le quali strutturiamo la nostra vita spirituale.

Io ho capito la grandezza di questo momento proprio nei riti preparatori con i catecumeni che singhiozzano commossi, mentre riescono a mala pena a sussurrare: «Credo in Dio, Credo in un solo Signore Gesù Cristo, Credo nello Spirito Santo, credo la Chiesa… Credo la risurrezione della carne».

Che passaggio forte e solenne: l’assemblea in piedi, dopo aver ricevuto la parola di Dio, canta, proclama, grida al mondo la sua fede! E lo fa insieme, pur dicendo ognuno singolarmente “Credo”. Non diciamo “Crediamo”: l’atto di fede è sempre personale e unico; eppure diciamo insieme la nostra fede, perché nella mia pochezza avrò sempre bisogno dei miei fratelli per vivere in pienezza la mia fede.

Chiude questa parte della liturgia la preghiera universale dei fedeli, cioè dei battezzati, che esprimono la loro adesione a Cristo innalzando al Padre preghiere e suppliche.

Don Ubaldo trema sempre un po’ quando le preghiere le preparano le catechiste o i ragazzi. A volte fanno delle mini omelie, oppure si rivolgono a Gesù Cristo o alla Madre di Dio o ai santi. Sa che dovrebbe spiegare loro come si fanno, ma non ha ancor trovato il tempo per approfondire con loro la liturgia e anche le preghiere dei fedeli. Così ogni tanto alza gli occhi al cielo e chiede perdono per quelle preghiere che nessuno ascolta più, che sono stucchevoli o sociologiche, che mescolano ringraziamenti a suppliche personali.

L’intenzione della preghiera dei fedeli è una proposta a cui dovrebbe seguire il silenzio dell’assemblea che poi risponde con un ritornello o con il silenzio stesso. Don Ubaldo potrebbe anche proporre di ascoltare in silenzio, senza dire nulla; oppure limitare la preghiera ad una antica litania che dice semplicemente: per il papa, Kyrie eleison; per il vescovo; per coloro che ci governano; per i tribolati… senza aver la pretesa di suggerire a Dio cosa debba fare, ma per invitare l’assemblea a farsi vicina con la preghiera ai fratelli.

La successione delle preghiere è teologica. Si prega per le necessità della Chiesa, per i governanti e la salvezza di tutto il mondo, per quelli che si trovano in particolari necessità, per la comunità locale. Nulla di privato, perché l’eucaristia è sempre e solo la Pasqua di Cristo sul mondo intero e sulla Chiesa tutta.

settimananews

Quattro lettere pastorali: due emergenze ecclesiali

Le recenti lettere pastorali dei vescovi di Crema (Daniele Gianotti), Latina (Mariano Crociata),Modena (Erio Castellucci) e Concordia-Pordenone (Giuseppe Pellegrini) affrontano problematiche acute nel vissuto ecclesiale: le unità pastorali (Gianotti) e l’iniziazione cristiana dei bambini (Crociata), dei ragazzi e dei giovani (Castellucci e Pellegrini). Se, a livello locale, l’attenzione a questi documenti è abbastanza diffusa, almeno fra il personale ecclesiale, nella comunicazione pubblica sono oggetti misteriosi. Mentre i testi, ben oltre i quattro presi in esame, sono molto istruttivi in ordine ai reali problemi della pastorale italiana.

Da arma polemica a strumento dialogico

Vi sono alcune caratteristiche comuni. Fra queste una prima nota è relativa alla presenza della Scrittura. Spesso è un brano dei Vangeli che guida l’intera riflessione e, in ogni caso, il riferimento alla Bibbia non è per nulla ornamentale.

Una forte insistenza è sulla dimensione «comune» e collettiva. Le lettere nascono dopo assemblee pastorali, con ripetuti riferimenti ai consigli presbiterali e pastorali e con una condivisione previa.

Trasversale è la percezione di un tempo di crisi e di fatiche. Il riferimento è molto esplicito in alcuni casi e sempre evocato. Nessuna pretesa egemonica, nessun garrire di vessilli, nessuna battaglia frontale. La scelta della CEI con il convegno di Verona di passare all’attenzione ai vissuti piuttosto che alle categorie ecclesiali (tria munera) e la convinzione di una presenza sociale di minoranza sembrano essere passati, almeno nei testi. Così il riferimento al magistero di Francesco.

Non manca la fiducia e la convinzione di essere nelle mani dello Spirito, alla sequela di Gesù e di avere uno straordinario deposito di grazia e di speranza da proporre. Talora con riferimenti ai santi locali. Nonostante forze numeriche più ridotte, in particolare nel clero. I preti raccolgono un’attenzione sistematica e sono ripetutamente incoraggiati, segnale di una diffusa “tentazione” di dimissioni.

È curioso pensare che uno strumento nato nel 1800 con la diffusione generalizzata della stampa come reazione dottrinale al moderno sia diventato oggi utensile di dialogo e di condivisione.

I vescovi si interrogano spesso sulla sua efficacia e avvertono una sproporzione fra autorevolezza del mezzo e capacità operativa pratica. Ma, nonostante l’espandersi dei mezzi comunicativi, il riferimento alla lettera è considerato necessario, esercizio di una responsabilità ministeriale non delegabile. E anche paradossale, dentro un sistema informativo sempre più giocato su testi brevi, su slogan tanto evidenti quanto banali, sulla prevalenza della seduzione dell’immagine e sulla rapidità del web. Un’apprezzabile custodia di ciò che suona anacronistico, espressione di un dialogo argomentato piuttosto di una imposizione gridata. Semmai l’interrogativo che resta, e questo vale per l’intero lavoro pastorale, è l’azione di verifica.

Daniele Gianotti. «Un tesoro in vasi di creta»: la sua prima lettera pastorale è finalizzata a sostenere la scelta delle unità pastorali nell’ottica di un rinnovamento missionario delle realtà cristiane e nel compito creativo di «immaginare» la Chiesa del domani. Una Chiesa che si libera di dipendenze gerarchiche improprie (clericalismo) e che sviluppa un «noi» sinodale. «Per questo l’articolazione delle unità pastorali non può consistere solo nel metter insieme diverse parrocchie; questo movimento deve essere integrato con l’altro, che è l’articolazione delle unità pastorali in piccole comunità» che permettano di vivere in concreto l’esperienza della fraternità cristiana.

Fra le attenzioni prioritarie, si ricorda la trasmissione della fede alle nuove generazioni, la cura pastorale delle famiglie, la formazione degli adulti e la testimonianza della carità. In merito si denunciano «derive che sono giunte fino a criminalizzare l’una o l’altra forma di aiuto al prossimo, che è semplicemente risposta alla parola chiara del Signore»: l’amore per i piccoli, gli ultimi, i nemici e lo straniero.

Fra gli strumenti pratici si suggeriscono il consiglio dell’unità pastorale, la formazione di équipescon i responsabili degli ambiti e l’attivazione di un servizio diocesano di accompagnamento.

E il prete? Uno fra i tanti? «Il rischio che vedo, attualmente, è piuttosto che il prete sia sovraccarico di impegni di ogni genere» e non più segno sacramentale della “precedenza di Cristo”, servo della comunione e dell’esortazione.

Mariano Crociata. All’interno di un progetto che copre l’intero arco da 0 a 18 anni il testo («“Lasciate che i bambini vengano a me”. Orientamenti per una pastorale dell’infanzia») si focalizza sui bambini da 0 a 7 anni.

Partendo dalla costatazione dell’esaurimento della prima socializzazione religiosa cristiana nel contesto civile e anche nelle famiglie, mons. Crociata ricorda la pertinenza attuale dell’invito di Gesù «lasciate che i bambini vengano a me» come figura di preziosa debolezza.

L’apprezzabile riconoscimento dell’identità e della dignità dell’infanzia operata negli ultimi secoli rimanda al compito degli adulti. «Uno dei contributi più rilevanti che possiamo dare noi adulti è quello di smettere di essere e di apparire ridicoli, e di cominciare invece ad essere seri, imparando a rispondere delle nostre parole e delle nostro azioni, e a farci carico di ciò che ci compete».

Lo sguardo credente sull’infanzia «si può condensare in tre punti: il riconoscimento del bambino in quanto persona e soggetto dotato di una propria identità e dignità; l’affermazione di una sua specifica relazione con Dio; l’enucleazione di alcune caratteristiche tipiche della sua figura spirituale».

Senza scivolare in uno sguardo «bucolicamente ingenuo» sull’infanzia, è facile riconoscere nei bambini l’atteggiamento fiducioso, la spontaneità e la gratitudine che sono portali di entrata nella spiritualità dell’infanzia. La mediazione spirituale all’altezza delle loro richieste rimanda all’infanzia spirituale come caratteristica dell’autentico credente. «L’infanzia spirituale è compito per adulti che sanno abbandonarsi come figli», capaci di stupore, gratitudine e audacia.

Accompagnare i bambini nella crescita spirituale è compito anzitutto della famiglia naturale («qualunque forma e composizione essa abbia assunto»), ma anche della comunità cristiana che viva un clima di famiglia accogliente. Qui si innesta il servizio di chi sa comprendere la decisione di dare al mondo un bambino e di preparare le famiglie al battesimo.

Sintonizzarsi sul modo proprio di essere e di esprimersi dell’infanzia, avvertire l’evoluzione dei primi anni, coinvolgere attivamente i bambini: sono tre indicazioni che riguardano sia l’attività catechistica che la liturgia e la carità.

Sostenere le coppie incaricate della formazione al battesimo, formare un gruppo in grado di accompagnare le famiglie giovani, coinvolgere i genitori dei bambini e la creatività dei loro giochi ai fini di un percorso formativo suppone anche le competenze proprie di un servizio diocesano all’altezza.

Erio Castellucci. Anche il vescovo di Modena riprende il tema dell’iniziazione cristiana: «“Se tu conoscessi il dono di Dio”. L’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi». Sviluppa i sette capitoli aderendo e alimentandosi della narrazione della samaritana al pozzo del vangelo di Giovanni (Gv 4,1-42).

La scansione dei passaggi, con tratti di grande intensità narrativa, parte da Gesù come donatore di acqua e di cibo, alla sua identità di viandante affaticato, di giudeo (non samaritano) assetato, di “signore” in possesso di acqua zampillante, di profeta messianico, di rabbino sognatore e di salvatore del mondo.

Dei molti riferimenti teologici e culturali e delle numerose indicazioni pratiche mi limito a sottolineare due elementi, probabilmente non centrali: il passaggio alla catechesi esperienziale e la scelta di non privilegiare un unico metodo. «Verifichiamo tutti la difficoltà di proseguire semplicemente sulla “sponda sicura” della cosiddetta catechesi dottrinale, ma, nello stesso tempo, l’incertezza di affidarci ad un’altra sponda ancora incerta che, come accennavo, possiamo definire iniziazione cristiana esperienziale». «È ormai evidente, dopo decenni di esperienze e riflessioni, che non esiste un metodo infallibile nell’iniziazione cristiana; … non è disponibile una ricetta uguale per tutti».

La responsabilità va alla Chiesa locale «all’interno degli orientamenti universali e nazionali», e a ciascuna comunità parrocchiale «nel ventaglio delle indicazioni offerte dalla diocesi». «Abbandonata quindi l’illusione del metodo infallibile e adottata invece l’ottica di una pluralità di risposte, l’accento va sempre messo sull’efficacia evangelica della missione, secondo la logica del sognatore e non secondo quella del calcolatore».

Giuseppe Pellegrini. Ampia, appassionata e a tratti autobiografica la lettera del vescovo di Concordia-Pordenone dal titolo «“…e camminava con loro” (Lc 24.15). Con i giovani per riconoscere, interpretare, scegliere».

Il fulcro di interesse è sugli adolescenti e i giovani, chiaramente distinti nelle esigenze e nelle sfide. Dopo un’indicazione generale sull’essere giovani oggi (preferenza alle immagini, importanza delle emozioni, rapporti coi pari, influenza dei social), si entra nella proposta cristiana sulla base della narrazione lucana dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). L’invito è al cammino, nonostante le fatiche che esso comporta, al confronto reciproco alla presenza del Signore, alla pazienza del ricordo, alla letizia dei cuori.

Le prime generazioni incredule sono refrattarie alla trasmissione della fede nella maniera classica, ma anche consapevoli che «non rende felici togliere Dio dalla vita delle persone», ancora disponili alla ricerca e alla domanda vocazionale su di sé e sul proprio futuro. «La vocazione non consiste esclusivamente nel ricercare cosa fare per gli altri; è molto di più, perché è un processo che mi aiuta a scoprire per chi e per cosa sono fatto, all’interno del progetto che Dio ha su di me».

Il discernimento ha i suoi protagonisti e le sue scansioni. Esse sono: lo stupore di riconoscere i propri limiti e possibilità, di interpretare nel silenzio e nel confronto i propri moti interiori, di scegliere con prudenza, prima che qualche altro lo faccia al posto nostro.

Una comunità cristiana accogliente saprà riconoscere le otto buone terre attraversate dai giovani: la scuola, la politica, lo sport, la musica e l’arte, le sagre e le feste, l’ambiente, il digitale. La pastorale è chiamata a spalmarsi sulle antiche e nuove terre nell’ambito della formazione alla vita di fede, alla maturità spirituale, al servizio, alla missione e alla pastorale vocazionale.

In questa, come nelle altre lettere pastorali, la narrazione viene interrotta con sintesi mirate al pratico, quasi a formare un duplice racconto: uno più organico e uno più immediatamente spendibile.

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