Inail. Assicurazione casalinghe, saldo da pagare entro il 15 ottobre

Avvenire

La scadenza riguarda la cosiddetta polizza, che tutela gli infortuni avvenuti nell’ambito domestico

Assicurazione casalinghe, saldo da pagare entro il 15 ottobre

C’è tempo fino al prossimo 15 ottobre per versare il saldo all’Inail del premio assicurativo per gli infortuni domestici del corrente anno 2019. Entro tale termine, in particolare, va pagata l’integrazione di 11,09 euro che, sommati ai 12,91 euro già versati a gennaio, saldano il conto di 24 euro fissati dalla legge Bilancio 2019, quale importo della polizza obbligatoria del 2019 per le persone (tra 18 e 67 anni) che svolgono attività di cura della famiglia e dell’abitazione. Attenzione; chi non ha versato l’acconto, ha l’occasione per mettersi in regola pagando l’intero premio entro lo stesso termine (15 ottobre).

La scadenza riguarda la tutela assicurativa Inail, la cosiddetta polizza casalinghe. Un’assicurazione che tutela gli infortuni avvenuti nell’ambito domestico a causa di attività prestate senza vincolo di subordinazione, a titolo gratuito, finalizzate alla cura delle persone (familiari) e dell’ambiente domestico di dimora del nucleo familiare dell’assicurato/a (soggetti tra 18 e 67 anni e non più 65 anni, come è stato fino all’anno scorso). In via ordinaria, il premio va versato entro il 31 gennaio dell’anno di riferimento; la mini riforma della legge bilancio 2019 ha determinato il raddoppio delle scadenze: acconto e saldo.

La mini riforma, infatti, in relazione a un ampliamento delle prestazioni, ha elevato il premio a 24 euro. Per l’anno in corso, al fine di garantire la copertura assicurativa, l’Inail ha fissato un primo versamento in misura invariata, cioè 12,91 euro entro il 31 gennaio, riservandosi di fissare successivamente termini e modalità per il saldo (cioè la differenza fino all’importo di 24 euro), cosa che l’Inail ha stabilito adesso. Al fine di rendere più agevole il pagamento, l’Inail sta inviando agli interessati una lettera con il bollettino PA pre-compilato di 11,09 euro da utilizzare per il versamento in via telematica o presso uffici postali, sportelli bancari, istituti di pagamento e tabaccai che aderiscono a pagoPA.

Chi non ha versato l’acconto, osservando gli stessi termini e modalità può mettersi in regola. A tal riguardo, l’Inail sta inviando bollettini pre-compilati anche agli assicurati presenti nelle proprie banche dati che risultano non in regola, che possono utilizzarlo per pagare i 24 euro in unica soluzione. In tal caso il versamento deve essere effettuato nel più breve tempo possibile, perché la copertura assicurativa parte dal giorno successivo al pagamento. L’Inail fa sapere, inoltre, che sugli avvisi di pagamento, sezione “Banche ed altri canali”, è riportato il codice CBILL “BE7KK”, anziché il codice CBILL “BE77K”. Ciò non ostacola il pagamento attraverso Poste italiane, mentre per i canali in cui è richiesta l’imputazione manuale del codice CBILL va barrato il codice errato e scritto o comunicato all’operatore quello corretto. I codici a barre per i lettori ottici (datamatrix, QR code) sono corretti. Nei casi in cui, pur avendo già versato la quota di 12,91 euro, sia stata ricevuta la richiesta di pagamento del premio annuale di 24 euro, è necessario consegnare o inviare quanto prima la copia della ricevuta di pagamento alla sede Inail territoriale competente in relazione al proprio domicilio. L’istituto provvederà poi a recapitare la richiesta di integrazione del premio pari a 11,09 euro, che andrà versata entro il 15 ottobre.

Si ricorda che sono esonerati dal versamento del premio (che resta a carico dello Stato) chi è in possesso di entrambi i seguenti requisiti:
• reddito complessivo lordo ai fini Irpef non superiori a 4.648,11 euro; 
• appartenenza a un nucleo familiare con reddito fino a 9.296,22 euro.

L’uomo e l’eterna sfida del rapporto con l’altro

Lo straniero è la figura paradigmatica dell’altro e l’amore chiede all’ego di farsi indietro per fare spazio al tu. Moni Ovadia ai Dialoghi di Trani sulla “Responsabilità”

Moni Ovadia (Ansa/Angelo Carconi)

Moni Ovadia (Ansa/Angelo Carconi)

da Avvenire

Nel testo che proponiamo in queste colonne Moni Ovadia, scrittore e uomo di teatro celebre per il suo lavoro sulla tradizione ebraica, sintetizza i temi che saranno al centro del suo intervento al prossimo Festival dei Dialoghi di Trani, giunto quest’anno alla XVIII edizione e che affronterà il tema della “Responsabilità”. Dal 17 al 22 settembre scrittori, filosofi, religiosi, magistrati, scienziati e giornalisti si incontreranno a Trani per riflettere sul significato dell’“essere responsabili”. Verso l’attesa conferenza di Assisi “The economy of Francesco”, anche la Pro Civitate Christiana propone ai Dialoghi un incontro sul valore della responsabilità in economia ed ecologia. Ai Dialoghi, a confrontarsi sul tema “Responsabilità”, ci saranno, tra gli altri, anche Salvatore Veca, Vito Mancuso, Stefano Zamagni, Sabino Cassese, Gustavo Zagrebelsky, Massimo Bray, Marta Cartabia, Giovanni Grasso, Aldo Schiavone, Valeriu Nicolae, Ramin Bahrami, Serena Dandini, e molti altri; tra i media partner anche Tv2000 e Radio inBlu.

Il salvataggio di un piccolissimo migrante nel Mar Mediterraneo, sulla nave “Ocean Viking” (Ansa'Ap'Renata Brito)

Il salvataggio di un piccolissimo migrante nel Mar Mediterraneo, sulla nave “Ocean Viking” (Ansa/Ap/Renata Brito)

Il mancato riconoscimento dell’alterità nel suo valore fondativo della relazione umana è la madre delle questioni che si frappongono all’edificazione di una società di giustizia. Il dramma del mancato accoglimento dell’altro ci viene presentato nel Genesi all’inizio dell’avventura dell’uomo sulla terra. Caino, primogenito di Eva e Adamo, è il primo essere umano nato da grembo materno come tutti noi. Abele suo fratello, il secondogenito, è l’altro, pone il problema della relazione a Caino il quale non capisce il senso dell’evento, si ritiene usurpato, percepisce la presenza di Abele come insidia intollerabile, come minaccia e reagisce con violenza finendo con uccidere il fratello. Il Santo benedetto non accusa Caino, non punta il dito contro di lui ma lo insegue con una domanda: «Dove è tuo fratello Abele?». Sollecita il suo senso di responsabilità nei confronti dell’altro, suo fratello. Caino, dopo avere tentato invano di sottrarsi alla chiamata celandosi, risponde ponendo a sua volta una domanda: «Sono forse il custode di mio fratello?». Mirabile faccia di bronzo! Ma in questa provocazione è espressa, per il tramite di una narrazione anticipatrice, la grande tragedia umana con la quale ancora oggi ci confrontiamo senza riuscire ad uscirne.

Non è necessario essere credenti, né assumere la Torah come libro sacro per capire che il biblista con il suo racconto ci segnala che peggio di così l’avventura dell’uomo nel creato non poteva cominciare. Disconoscimento del simile, mancato accoglimento del suo valore, rifiuto della relazione, ebbrezza narcisistica di unicità tipica di colui che è arrivato prima. Possiamo assumere la parabola anche come metafora socio-politica dello scontro fra il contadino che vuole sua la terra e il pastore che la vuole aperta. La vulgata di questa parte della Scrittura ha cercato di risolvere l’angoscia suscitata dal fratricidio con la criminalizzazione di Caino fondando in lui la pseudo-categoria del cattivo per chiudere la questione. Quante volte da piccini abbiamo sentito questa banalità. Ma il prosieguo della storia ci racconta tutt’altro. Il Santo Benedetto non tratta certo Caino come un “cattivo” a cui comminare una punizione esemplare, forse nella sua provocazione ha riconosciuto che non è attrezzato per edificare relazioni e quindi società, forse non voleva neppure uccidere Abele, gli è scappata la mano, dunque lo manda libero, ammonisce chi lo incontrerà a non alzare la mano su di lui, perché possa entrare nella Storia sperando che impari, perché le cose, di generazione in generazione vadano se non meglio, almeno un po’ meno peggio.

Sono passati millenni dal tempo di questa “leggenda”, a quanto pare l’auspicio non si è compiuto. Non che non esistano uomini giusti che hanno interiorizzato e fatto proprio il senso dell’alterità e della responsabilità capendo che i due concetti non possono essere disgiunti, ma la leadership di fatto dell’umanità, la sua brama di potere ha imposto un modello basato su un economia che uccide, per dirla con le parole di papa Francesco, un economia che ha reificato l’alterità per farne profitto a vantaggio del delirio di onnipotenza di un pugno di uomini. E questi potenti non hanno capito che l’altro è il senso primo della relazione, che l’etica è la filosofia prima come mirabilmente propone il filosofo Emmanuel Lévinas nella sua lettura esplosiva del comandamento dell’amore (Levitico 18,19). Ve ahavtà leereakha kamokha, amerai per il prossimo tuo come te stesso. Il filosofo di Kaunas osserva che nelleshon hakodesh, la lingua santa della Torah, il verbo essere al presente indicativo non compare, è sottinteso. Lévinas legge dunque il comandamento dell’amore con questa esposizione: «Amerai per il prossimo tuo è come te stesso».

In questa breve ma rivoluzionaria espressione possiamo trovare indicazioni decisive per una sua lettura dirompente. La prima parte della proposizione è: «Amerai per il prossimo tuo». La Torah non lascia nulla al caso, se dichiara una priorità essa riveste un preciso significato, ovvero la scelta di amare il prossimo è la condizione per accedere alla seconda parte: «È come te stesso» ovvero la tua identità di persona, in una società di giustizia, la conquisti amando il prossimo. Il prossimo peraltro è presentato senza alcuna connotazione, non è il prossimo buono o cattivo, ebreo o goy, uomo o donna, eterosessuale o omosessuale, bianco o nero o giallo o rosso. Non è collocato in una nazione o in un territorio, non è autoctono o migrante, non è vicino né lontano. È solo denotato. È semplicemente l’altro. Del resto dopo questo versetto pochi versi oltre il Levitico dichiara: «Lo straniero che abita presso di te è come il tuo compaesano. Amerai lo straniero è come te stesso, ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto, Io sono il Signore». Anche l’Eterno si dichiara straniero, è lo Straniero assoluto. Lo straniero è la figura paradigmatica del-l’altro, e l’amore non è quella insopportabile melassa dei romanzi d’appendice o dei Baci Perugina, non è neppure il travolgente sentimento romantico e passionale di Giulietta e Romeo.

L’amore è sentimento/ comportamento impegnativo che chiede all’ego di farsi indietro per fare spazio al tu e il tu è il simile, l’animale, la pianta, la zolla, l’acqua l’aria, la terra, il sottosuolo e persino le viscere della terra. Il Tu incarna l’intimità della condizione esistenziale tanto più se umile e spossessato perché porta in se la fragilità che è specificità ontologica dell’animale umano ma anche degli ecosistemi. Ecco perché la Laudato si’ è un punto di partenza per affrontare il cammino verso l’altro, cammino breve per un aspetto ma anche impervio perché tracciato come ponte precario sopra uno iato abissale e vertiginoso. Per compiere la traversata è irrinunciabile essere preparati. Bisogna assumere la piena responsabilità del volto altrui, bisogna farsi stranieri a se stessi, bisogna considerare anche il più piccolo dei privilegi illegittimo.

Esercizi spirituali per sacerdoti a Marola

La proposta degli esercizi spirituali per i presbiteri arriva quest’anno congiuntamente dalle Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla e di Modena-Nonantola. Gli esercizi spirituali si terranno dal pranzo di lunedì 4 novembre al pranzo (compreso) di venerdì 8 novembre al Centro diocesano di spiritualità e Cultura di Marola.
Saranno predicati da don Claudio Doglio, presbitero della Chiesa di Savona-Noli, noto biblista (attivo anche in internet: https://dondoglio.wordpress.com/), docente di Sacra Scrittura alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e parroco di Sant’Ambrogio a Varazze (Savona), dove è anche moderatore dell’unità pastorale Sant’Ambrogio e Santi Nazario e Celso.

I presibiteri reggiano-guastallesi interessati sono pregati di iscriversi quanto prima contattando il Centro di Marola (tel. 0522.813127, e-mail cdmarola@libero.it).

Don Claudio Doglio

laliberta.info

L’iniziativa. La Giornata della cultura ebraica guarda ai sogni

A livello nazionale parteciperanno 88 città, con visite guidate a sinagoghe e musei, concerti, spettacoli teatrali, degustazioni e proposte per i bambini Per il 2019, il centro capofila sarà Parma

La sinagoga di Casale Monferrato

La sinagoga di Casale Monferrato
Una lunga scala, altissima, che arriva fino al cielo, sulla quale gli angeli salgono e scendono. Il sogno di Giaccobbe, una delle immagini più enigmatiche e suggestive del libro della Genesi, rappresenta il tema della ventesima Giornata della cultura ebraica, intitolata “I sogni, una scala verso il cielo”. Sogni, intesi come sostanza onirica ma anche come speranza e costruzione del domani: «I sogni – spiega Noemi Di Segni, presidente Unione comunità ebraiche italiane – sono una presenza costante nella storia e nei testi sacri ebraici, a partire dalla Torah, per continuare con il Talmud, con la tradizione mistica e fino ad arrivare a Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, che sull’interpretazione dei sogni fondò le sue innovative terapie per le nevrosi. Ma i sogni sono anche intesi come speranze per il futuro».
La manifestazione italiana si inserisce nella più ampia Giornata europea della cultura ebraica, coordinata dall’Aepj ( European association for the preservation and promotion of Jewish culture and heritage), cui partecipano 34 Paesi per approfondire storia, cultura e tradizioni dell’ebraismo, tra visite guidate a sinagoghe, musei e quartieri ebraici, concerti, incontri d’autore, spettacoli teatrali, degustazioni kasher e anche iniziative per i più piccoli. All’edizione italiana, promossa a livello nazionale dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, parteciperanno ottantotto località, distribuite in quindici regioni, da nord, a sud, alle isole. Per il 2019, la città capofila, nella quale si inaugurerà ufficialmente la manifestazione, sarà Parma, dove risiede una comunità ebraica le cui origini risalgono al XIV secolo.
L’apertura ufficiale sarà domenica alle ore 10.00 alla Biblioteca Palatina, dove verranno esposti al pubblico i pezzi più importanti di una delle più importanti collezioni a livello mondiale di antichi manoscritti e libri a stampa ebraici, il fondo De Rossi, tra Bibbie miniate, testi e commentari rabbinici, trattati di filosofia e di medicina. Nelle iniziative parmensi sarà coinvolta anche la vicina Soragna, dove è presente il Museo ebraico “Fausto Levi”, un piccolo, suggestivo gioiello tra gli itinerari ebraici di questa parte d’Italia, fino ad arrivare alla conclusione, alla sera, al Teatro Farnese, con il recital L’albero dei sogni, con musiche originali composte da Riccardo Joshua Moretti.
Ma sono centinaia le iniziative in tutta Italia. Un ampio programma, ad esempio, è previsto nella Capitale, nell’antico quartiere ebraico (Portico d’Ottavia), con visite guidate alle sinagoghe e al museo ebraico, degustazioni di vini kasher e l’esplorazione degli scavi di Ostia Antica, alla scoperta della sinagoga di epoca romana, mentre a Milano, oltre alle conferenze e alle visite guidate, ci sarà una conferenza-spettacolo di Gioele Dix dal titolo Sogno di una notte di mezza estate.
Anche a Bologna, visite guidate alle sinagoghe, al museo ebraico e alla mostra ‘La casa della vita’, sul recente ritrovamento archeologico di un antico cimitero ebraico in città, mentre a Ferrara, al Meis, il concertoShemà dalle poesie di Primo Levi. Visite guidate anche a Venezia, a Torino (con la passeggiata “dal ghetto alla Mole Antonelliana”) e a Casale Monferrato, dove è prevista anche l’esposizione straordinaria dell’opera originale di Marc Chagall Re David suona la cetra. «L’edizione italiana – conclude Di Segni – è diventata negli anni una delle più importanti in Europa, con decine di migliaia di visitatori ogni anno e un modello organizzativo perfettamente rodato, che può contare sulla virtuosa collaborazione tra Comunità ebraiche, enti locali, pro loco e associazioni attive sul territorio. Questo successo è soprattutto è il frutto di oltre due millenni di storia ebraica nel nostro Paese».
Avvenire

La mamma è clinicamente morta, la bimba nasce sana dopo 117 giorni

I medici dell’ospedale universitario di Brno salvano la piccola mantendo le funzioni vitali della madre per tre mesi. Un lavoro d’equipe straordinario, la piccola pesava 2 chili

Fiocco rosa eccezionale (archivio Ansa)

Fiocco rosa eccezionale (archivio Ansa)

Una bambina sana è nata da una mamma morta a livello cerebrale da 117 giorni. I medici dell’Ospedale dell’Università di Brno (Repubblica Ceca) sono riusciti a salvare la piccola con un’impresa medica che probabilmente rappresenta una sorta di record mondiale, mantenendo per così tanto tempo le funzioni vitali della madre . Di certo è un caso rarissimo e difficile da trattare. Si contano circa 20 nascite del genere descritte nel mondo, ma stavolta si tratta del ricovero più lungo e del maggior peso mai ottenuto per il bebè (oltre 2 kg).

La donna di 27 anni era alla sedicesima settimana di gravidanza quando è stata ritrovata incosciente in casa ed è stata trasportata in elicottero all’Unità di emergenza di Brno, il 21 aprile 2019, con l’anamnesi di malformazioni artero-venose con manifestazioni di epilessia. I soccorritori hanno mantenuto la sua attività respiratoria e dalla Tac è poi emerso un ictus. Il respiro spontaneo è poi scomparso e un esame neurologico clinico ha confermato l’aflessia, cioè la morte cerebrale.

Da questo momento, i medici della clinica di Anestesia, rianimazione e medicina intensiva dell’ospedale
universitario di Brno e della Facoltà di Medicina dell’Università di Masaryk insieme ai ginecologi, hanno fatto del loro meglio per stabilizzare le funzioni vitali della paziente e proteggere così il feto nel corpo della madre.

È stata avviata una complessa cura di rianimazione a lungo termine, che ha incluso il monitoraggio approfondito dell’attività del cuore e delle funzioni polmonari e renali, l’abbassamento della temperatura corporea, così come la somministrazione di diversi farmaci. È stata prestata la massima cura – indicano ancora i medici cechi – per mantenere l’integrità della pelle e prevenire complicanze infettive, molto comuni in situazioni simili. Particolare attenzione è stata prestata anche all’alimentazione, in modo da garantire non solo il fabbisogno energetico della madre, ma anche la crescita e lo sviluppo ottimali del feto.

In estate è stato rilevato che il feto cresceva: a fine giugno pesava 980 grammi, mentre a luglio era già di 1,5 kg. Il 15 agosto scorso è stato deciso di procedere con il parto cesareo, alla settimana 34+3 di
gravidanza, e la neonata è venuta al mondo sana, con un peso di 2.130 grammi e una lunghezza di 42 centimetri. Ad aiutare nella riuscita dell’operazione, le buone condizioni di salute della donna prima dell’ictus e la pronta assistenza medica subito dopo l’evento. Ma soprattutto “è la prova dell’enorme forza della vita umana e del corpo materno, che ha gestito molto bene, con l’aiuto di dottori e infermieri, questa difficile situazione e ha dato la vita a un bambino nonostante la morte cerebrale”, commentano i dottori.

Avvenire

Tokyo. Giappone Paese della longevità, sono oltre 7mila gli ultracentenari

Il numero dei “grandi vecchi” continua a crescere. Nel 1963 erano solo 153, nel 2012 ben 50mila. L’88 per cento sono donne

Archivio Ap

Archivio Ap

da Avvenire

Che il Giappone sia la terra della longevità, è risaputo. Che il numero dei centenari cresca di anno in anno, accade da 49 anni consecutivi. Quest’annno si aggiunge un altro dato legato alla crescita numerica dei “grandi vecchi”: si è superata quota 70mila. Di questi, l’88% sono donne.

Quando iniziarono a essere raccolti i dati, nel 1963, i cittadini con più di 100 anni di età erano solo 153. Sono diventati mille nel 1981 e 50.000 nel 2012.

Le statistiche, pubblicate in occasione della festività per il Rispetto della Terza età che sarà celebrata il prossimo lunedì, anticipano altre 37mila persone pronte a spegnere le cento candeline al termine dell’anno fiscale, nel marzo 2020.

La donna più anziana in Giappone è Kane Tanaka, residente a Fukuoka che a 116 anni è stata riconosciuta dal Guinness dei Primati come la persona più vecchia al mondo. L’uomo più longevo nel Paese del Sol Levante invece, a 112 anni, è Chitestu Watanabe e vive nella prefettura di Niigata, a nord ovest di Tokyo.

Nel 2018 le aspettative di vita per le donne e gli uomini in Giappone erano rispettivamente di 87,3 e 81,2 anni. .

Il futuro dei mari. L’economia degli oceani che cambierà le nostre vite

(Ansa)

Di nessuno, ma aperte a tutti. Senza proprietari prestabiliti, ma spesso sfruttabili da chi vuole e può. È ancor oggi lo status di buona parte delle risorse economiche marine, nella scia della tradizione che le considera res nullius. Un vecchio scenario messo sempre più alla prova da tensioni geoeconomiche anche incandescenti. Sui sette mari, prosegue la gara fra potenze, come Cina, Russia e Francia, per tentare di ‘privatizzare’ nuove distese blu con ogni espediente, in particolare estendendo le zone economiche esclusive grazie a prospezioni più accurate dei fondali a ridosso della cosiddetta ‘piattaforma continentale’. Talora, persino mediante isole sabbiose artificiali o quasi, come nel Mar Cinese Orientale al centro di aspre dispute territoriali.

Laddove è invece impossibile rivendicare simili diritti disciplinati dalla Convenzione di Montego Bay, ovvero nell’alto mare, il futuro delle ricchezze oceaniche è al centro di giochi diplomatici ancor più sottili, sospesi fra interessi nazionali e vedute di più ampio respiro anche all’insegna della sostenibilità ecologica.

Nel caso delle risorse ittiche, le piste per preservare gli stock e alleviare i conflitti non sono più un mistero, ci assicura il naturalista Ferdinando Boero, alla guida a Napoli della Fondazione Dohrn per una cultura del mare, citando il caso del Mediterraneo: «Esiste nel mare una grande opportunità di benessere, se capiremo una volta per tutte che occorre cambiare strada rispetto al passato. Sappiamo ormai che nelle aree marine protette, gli stock di pesce si ricostituiscono in 5 anni. Occorrerebbe creare dunque nel Mediterraneo delle reti di queste aree marine e utilizzare queste risorse a rotazione, usando dunque il territorio marino in modo più saggio, senza pescare pesci di 5 cm, ma attendendo che crescano fino a mezzo metro ». Purtroppo, ancora uno scenario lontano: «Continuiamo a scontare il tragico paradosso dei beni comuni. Se non lo prendo io, lo prendi tu, allora cerco di prenderlo prima di te. Per questo, urgono regole per disegnare un nuovo modo d’impiegare lo spazio marino mediterraneo, pianificandolo anche con gli Stati non europei. Dobbiamo assolutamente imparare a pensare a ciò che accadrà fra venti, trenta e cinquant’anni».

Gli scenari restano incerti, sottolinea pure la biologa britannica Sheila Heymans, alla guida dell’European Marine Board: «Le flotte di pesca sono oggi meglio gestite, specialmente nell’Atlantico, dove siamo in grado di monitorare un volume maggiore di stock di pesce. Tuttavia, sappiamo che ogni elemento di un ecosistema marino ha la sua importanza per la sostenibilità dell’insieme. Comprendere il 10% di un ecosistema non basta di certo per ottenere previsioni sicure. In proposito, nello stesso Atlantico, tante specie significative non vengono monitorate. Nel Mediterraneo, la situazione è oggi ancor più difficile, già a livello politico, oltre che per aspetti fisici e biologici specifici, come le nuove specie invasive provenienti da altre aree». Gli Stati Uniti sono spesso citati per i progressi compiuti verso una pesca sostenibile, su uno sfondo in cui le pratiche più distruttrici permangono soprattutto nell’emisfero australe. Instilla speranza inoltre il salvataggio di certe specie commerciali emblematiche, come il tonno rosso, ci spiega il francese Patrick Lehodey, specialista degli ecosistemi marini per il gruppo parauniversitario Cls, che modellizza le risorse naturali grazie ai satelliti: «Nel Mediterraneo, è una delle rare specie per le quali abbiamo un monitoraggio di lungo corso. Dopo una grossa crisi di sovrasfruttamento, le Ong sono riuscite a far pressione sugli Stati membri della commissione tonniera, con conseguenti forti restrizioni delle quote consentite. Gli stock si stanno ricostituendo ed aumentano ormai pure le quote offerte ai pescatori. Ma per altre specie significative, come il pesce spada, i dati mancano, rendendo proibitiva una gestione responsabile».

DOSSIER IL FUTURO DEI MARI di Daniele Zappalà

Settore tradizionale per eccellenza, la pesca è sempre più affiancata da altre nuove frontiere dell’economia marina. Accanto al comparto energetico, crescono pure le mire sulle risorse genetiche e su quelle geologiche sottomarine, da qualche anno al centro di nuove tensioni geopolitiche. «Nel caso delle risorse biologiche, a differenza di quelle minerarie, esistono grandi lacune da un punto di vista legale. Si sta cercando di correggerle, ma intanto si nota un appetito economico crescente, non sempre in un’ottica sostenibile», ci spiega Salvatore Aricò, della Commissione oceanografica intergovernativa, presso l’Unesco, aggiungendo: «L’anno scorso, il Kenya ha ospitato un’importante conferenza internazionale sull’economia marina sostenibile. L’idea guida è di dotare di una base scientifica l’accesso a queste nuove risorse, in modo da evitare una corsa al nuovo oro blu. Ma per il momento, non è stato fugato il rischio che una sorta di coperta demagogica mascheri forme di sfruttamento non responsabili e di corto respiro».

In campo geologico, a costi decrescenti, certi gruppi internazionali sono ormai capaci d’estrarre risorse fino a 3mila o 4mila metri sotto fondali profondi già 6mila metri. Un’evoluzione tecnologica che, al di là dei tradizionali settori petrolifero e metanifero, rilancia pure la corsa a molti metalli divenuti col tempo più rari sulle terre emerse, come tallio, cobalto, manganese, oro, platino, rame, nichel, spesso impiegati nelle tecnologie di punta.

L’anno scorso, hanno suscitato clamore nuove stime sui giacimenti scoperti al largo dell’atollo giapponese di Minami Torishima, circa 2mila km a sud-est di Tokyo. Inoltre, secondo un rapporto del Cnrs francese, la sola zona di Clarion-Clipperton (fra il Messico e le Hawaii), equivalente a circa il 15% del Pacifico, conterrebbe 34 miliardi di tonnellate di noduli polimetallici, con depositi di tallio 6mila volte superiori a quelli stimati sulla terraferma. Alla luce del succedersi di scoperte, s’invoca da più parti la finalizzazione di uno specifico «codice minerario dei fondi marini», anche per evitare devastazioni ambientali irreparabili e conflitti crescenti.

VIDEO Il Papa: preghiamo per la tutela degli oceani

Ma quando tutte queste potenzialità economiche sono considerate dal punto di vista dei popoli oceanici che vivono da sempre all’unisono con le distese blu, ogni considerazione viene spesso ricoperta dai gridi d’allarme sugli effetti già devastanti del cambiamento climatico. «L’Oceano Pacifico è l’aia da cui ricaviamo il cibo e le risorse per tessere gli abiti e i nostri tappeti ornamentali», ci ricorda Uili Lousi, artista delle Tonga all’origine dell’ong Ohai incorporated, prima di testimoniare sull’odierna fragilità di questi equilibri ancestrali, anche a causa dell’intensificarsi senza precedenti di cicloni estremi con venti anche superiori ai 380 km orari: «Questi cicloni hanno spazzato le nostre isole, distruggendo tutto sul loro passaggio. Le nostre infrastrutture sono state investite e sbriciolate, i nostri campi devastati, le nostre falde acquifere contaminate, i nostri servizi sanitari riempiti di feriti, l’elettricità e le comunicazioni compromesse, la nostra gente sprofondata nella morte e distruzione».

Di fronte a testimonianze simili, lo sfruttamento degli oceani sembra giunto ancor più a un bivio. I polmoni potenti dell’economia marina potrebbero in teoria sospingere l’umanità verso un avvenire di crescente benessere condiviso. Ma lo stesso bacino d’opportunità serba pure insidie pronte a scatenarsi con effetti distruttivi difficilmente prevedibili. Di certo, un’ulteriore ragione pressante per non relegare mai più mari e oceani nel dimenticatoio delle politiche nazionali.

avvenire

Il viaggio. Nelle case per i malati di Aids (che l’Italia ha dimenticato)

Tra gli ultimi ad entrare a Casa Don Bepo c’è Stefania. Ha 30 anni e l’Aids è l’unico “ricordo” che ha di sua madre: gliel’ha trasmesso in grembo, poi l’ha abbandonata. E lei, d’essere malata, l’ha scoperto quand’era piccola e forse già si chiedeva perché passava di casa in casa, di affido in affido, senza fermarsi mai. Quando è stata abbastanza grande per poter decidere della sua vita, ha provato a stare da un’amica. Ma per curarsi, e sopravvivere all’Hiv, serviva di più: controlli, cure costanti, un sostegno psicologico. Così i medici l’hanno indirizzata alla casa alloggio di Bergamo.
È una caso rarissimo, quello di Stefania: di bimbi contagiati dalle madri, in Italia, per fortuna non se ne registrano più ormai da anni. Perché l’Aids è cambiato, almeno in questo: lo si conosce meglio. O almeno, abbastanza da non trasmetterlo a un figlio. Se diagnosticato presto, e curato bene, si può anzi “silenziarlo”: cioè non risultare più infettivi. Eppure tanto, troppo resta ancora da fare.
La rete di chi accoglie. Casa Don Bepo è fra le 50 case alloggio per persone con Aids presenti in Italia del Cica, il Coordinamento che le riunisce. Una rete di accoglienza che si prende cura, dal 1994, di circa 600 persone all’anno. Allora, di Hiv, si moriva. Oggi, con le nuove terapie farmacologiche e i tempi rapidissimi di diagnosi (il test risulta positivo già a 40 giorni dal contagio), col virus si può vivere e convivere senza problemi.
Tranne chi non può o non vuole accettarlo e non si cura o si cura male: 16mila persone circa, sulle 130mila che hanno contratto l’infezione (dati del Coa, il Centro operativo Aids). «Sono i più fragili tra loro che arrivano nelle nostre strutture – spiega il presidente del Cica, Paolo Meli, pilastro dell’Associazione Comunità Emmaus di Bergamo che gestisce altre due case in città –. Persone con storie di disagio e dipendenza alle spalle, in condizioni economiche (ma anche fisiche e psicologiche) a volte drammatiche, che hanno bisogno di tutto». Gli ultimi fra gli ultimi, insomma, cui la vita ha tolto tutto tranne l’Aids. Il male che non sopportano, e che li logora.
Alle case del Cica sono indirizzati direttamente dalle aziende sanitarie locali e per chi entra in strutture “ad alta intensità” – attrezzate cioè per seguirli anche dal punto di vista terapeutico oltre che da quello del reinserimento sociale – è la sanità pubblica a pagare le rette in toto: un aiuto importante, se non fosse che rette e convenzioni, almeno in Lombardia, sono ferme al 2006, «col risultato che il nostro sistema sopravvive soltanto grazie allo sforzo enorme delle associazioni e delle cooperative che lo gestiscono – continua Meli –. Senza contare che in altre Regioni, la situazione è ancora più difficile e, in alcune, non esistono strutture». In poche parole, di case alloggio nuove non ne nascono. E questo nonostante si contino ogni anno tra i 3.500 e i 4mila contagi, con un’impennata allarmante negli ultimi anni tra i giovani sotto i 25 anni (soprattutto tra le donne, solitamente le meno colpite).
Il male rimosso. La prevenzione dell’Hiv e la lotta allo stigma d’altronde sono tra i capitoli dimenticati dalle politiche sociali e socio-sanitarie nostrane: spesso citate, ma non sostenute da risorse adeguate e progettualità continuative e di lungo periodo. «L’ultimo progetto nazionale di prevenzione serio e capillare è stato quello promosso dalla Cei attraverso Caritas italiana, che si è svolto da settembre 2014 a giugno 2017» ricorda Meli. Sedici le diocesi coinvolte – da Bolzano a Reggio Calabria –, pari al 28% della popolazione italiana. Con oltre 2 milioni di persone intercettate tra scuole, parrocchie, oratori, in progetti, mostre, spettacoli, eventi in strada. Che poi è quello che manca davvero: parlare, dell’Aids, senza paura. E parlarne proprio ai ragazzi, considerando la prevenzione come il vaccino migliore contro la malattia.
La prevenzione che manca. «Purtroppo sono ancora i numeri a parlarci di quanto questo aspetto sia sottovalutato – spiega Meli –. Tornando alle 130mila persone con Hiv in Italia, se ne stimano oltre 14mila che ancora non sanno di avere contratto l’infezione. Un numero impressionante, che racconta non solo la scarsa consapevolezza dei comportamenti sessuali a rischio, ma anche di come il virus venga ancora considerato come qualcosa “che riguarda gli altri”». E che si appaia con il dato relativo alle diagnosi tardive: 6 su 10, «segno che si arriva a fare il test troppo tardi e che la malattia ancora in molti casi non viene trattata correttamente dall’inizio». Un particolare che, quando si parla di Aids, fa la differenza tra la vita e la morte: «Ogni anno contiamo ancora 800 decessi nel nostro Paese – continua Meli –, nelle nostre case mediamente un paio. L’ultimo, appena il mese scorso».
Stefania invece, che s’è curata, sta bene. Qualche giorno fa ha avuto la notizia bellissima d’essere stato assunta a tempo indeterminato in un’azienda. Ora progetta il suo futuro, magari fuori dalla casa, in un appartamento tutto suo. L’Aids – se aiutati – si sconfigge.
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