FESTA DELL’ASSUNTA IN CATTEDRALE: riflessioni di Mons. Caprioli

MARIA CONTEMPORANEA A TUTTI

Il racconto evangelico della visitazione di Maria alla cugina Elisabetta – proclamato il giorno di Ferragosto, festa di Maria Assunta, nella solenne concelebrazione presieduta in Cattedrale dal vescovo emerito Adriano – contiene tre importanti spunti di riflessione. Innanzitutto, mons. Caprioli ha fatto nell’omelia un parallelo tra il “sì” pronunciato dalla Vergine all’annuncio dell’angelo e il “sì” del parroco che accoglie la destinazione stabilita dal suo vescovo in una parrocchia, comunità di persone e di famiglie. Altra caratteristica del comportamento della Madonna è stata la “fretta” con cui da Nazareth si è diretta a Aim Karim dalla cugina per arrivare  in tempo ad assisterla: padre Turoldo definì Maria, proprio per questo, “la frettolosa”. Infine il lungo tempo che la Vergine ha riservato ad Elisabetta fermandosi tre mesi nella sua casa. Mons. Caprioli al riguardo ha ricordato come durante la visita pastorale alle parrocchie della montagna abbia visto tante donne, provenienti da vari Paesi, assistere – nelle loro case piene di ricordi – persone anziane soprattutto donne – anch’esse emigrate in giovinezza a Milano e a Genova per trovare lavoro. Altro tema affrontato dal vescovo Adriano è stato quello degli educatori dei giovani, negli oratori: impegno di una Chiesa, popolo di Dio in cammino. E ha concluso l’omelia richiamando un testo del vescovo Tonino Bello che definisce Maria  “contemporanea a tutti”.

Mercoledì 14 agosto in Santa Teresa mons. Caprioli aveva ricordato nella concelebrazione eucaristica vespertina il dodicesimo della scomparsa di Giovanna Gabbi, insegnante, dirigente di Azione Cattolica, prima consacrata nell’Ordo Virginum, sottolineandone la profonda fede, l’intensa spiritualità, la lettura e la meditazione orante della parola di Dio, la preghiera silenziosa davanti al tabernacolo.

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Europa Per una patria europea. Un intenso saggio dell’arcivescovo Bruno Forte

L’Osservatore Romano

(Michele Giulio Masciarelli) Sempre più ricco e vivace si va facendo il dibattito sull’Europa che comprende anche il problema di come chiamarla. Va da sé che non si tratta di un problema nominalistico, ma dello sforzo di trovare, oltre l’attuale nome di Unione, il nome più giusto, più promettente e più adatto per indicare quello che essa può, vuole e potrebbe saggiamente diventare.
Perché non proporsi una patria europea?
Interviene da ultimo, nell’interessante dibattito sull’Europa, l’arcivescovo Bruno Forte, adottando un titolo per un suo aureo libretto: la definizione che Alcide De Gaspari, sessantacinque anni fa, diede per l’Europa come sua auspicabile forma politica. Nella Conferenza parlamentare europea del 21 aprile 1954, egli chiamò il suo intervento: «La nostra patria europea». Sostanzialmente questo titolo è stato scelto da Forte per il suo recente scritto La patria europea (Brescia, Morcelliana, 2019, pagine 41, euro 7).
L’autore si pone sulla scia di Papa Francesco nel sottolineare la dignità dell’uomo su cui la patria europea deve costruirsi. Come il Papa insiste sul fatto che l’Europa non possa ridursi a un insieme di regole da osservare o a un prontuario di procedure da seguire, mentre «ha sottolineato come lo spirito di servizio e la passione politica dei Padri fondatori dell’Europa unita nascessero da una precisa e condivisa consapevolezza». Forte sottolinea soprattutto come dai discorsi di Papa Francesco venga, di fatto, l’indicazione e l’invito a percorrere le strade miti della cultura, dell’educazione delle migliori tradizioni religiose per continuare quello che più serve: offrire forti motivazioni al desiderio da suscitare di costruire la patria europea.
“Patria europea” non in senso populista

Forte sviluppa sua riflessione partendo, in sostanza, da due domande sottintese: se esista, almeno a livello tendenziale, una comunità di europei (politica, culturale), oltre quella economico-finanziaria che ne è la figura almeno predominante; se la prospettiva di una patria europea sia realisticamente proponibile. Il suo argomentare, in favore di questa prospettiva si misura, poi, con le obiezioni contrarie o con l’indifferenza a tale prospettiva.
L’onda populista, che poco ha a che vedere con il corredo di sensi implicato nell’espressione “Europa dei popoli”, è connotata da correnti gelide pericolose: anzitutto, muta la giusta atmosfera che serve all’attuale discorso sulla casa “comune europea”, come pure spesso ci si esprime; inoltre, nasce un grave problema circa l’alterazione della forma democratica di società, che finora è stata la saggia scelta ed era il felice destino dell’Europa, a motivo di un etnicismo mitizzato e ideologizzato (paurosa eco di terribili ideologie del Novecento di mezzo), che opta per la cosiddetta «democrazia organica» poggiata su un fondamento etnico rigidamente omogeneo (cfr. Alain de Benoist, Democrazia, il problema, Roma, Editrice Pagine, 2017).
Il mondo cristiano non può non turbarsi dinanzi a un simile scenario che vede un’opposizione all’idea umanistica di democrazia cristianamente ispirata che, come è noto, si basa invece su diritti umani pre-statali, germinati dalla realtà della persona umana e ancorata alla sua singolarità, all’apertura all’altro e alla comunità di uomini liberi (cfR. J. Maritain, Cristianesimo e democrazia, Vita e Pensiero, 1977). Questa idea di società civile e politica basata sulla persona era matrice ispirativa nell’Ottocento europeo, quando s’è presa a elaborare l’idea di patria. In quei decenni il cattolico Antonio Rosmini Serbati offriva l’idea più personologica all’idea di società, affermando che la persona non ha diritti, ma è «lo stesso diritto sussistente» (“ipsum ius subsistens”).
Le insidie del “tempo liquido” per la “patria europea”
Il libro di Forte mira a riportare alla saggia soglia delle intenzioni dei padri dell’Europa. La volontà è quella di risvegliarle e di ritornare alle pacate e profetiche parole di De Gasperi che, nella ricordata Conferenza parlamentare europea, indicavano nell’unità-diversità dell’Europa la condizione necessaria per il suo futuro: pace, progresso e giustizia sociale. La ripresa di quegli ideali è passata già attraverso il nome di “Unione europea”, ma oggi, sotto la pressione paradossale di un contesto liquido (e dunque debole), si sente il bisogno di legarli a un nome più impegnativo ed esigente: la Patria europea.
Più di una generica crisi dell’Europa, è urgente affrontare i problemi che pone il contesto specifico della “liquidità” in cui l’Occidente vive. È quello che fa Bruno Forte ponendosi il problema di come pensare la possibilità della patria europea «nell’era delle appartenenze fluide». Egli ricorda che nella “modernità liquida” i modelli sociali sono mutevoli e volubili; in più, paiono essere troppi, in contrasto stridente fra loro e con le matrici ispiratrici. La “liquidità”, come è noto, è la metafora e forse il simbolo scelto dal sociologo-filosofo polacco Zygmut Bauman per rappresentare e interpretare le attuali forme dell’antropologia, delle visioni della vita, delle grandi intraprese umane (cultura, politica) e perfino dei fondamentali sentimenti umani, come l’amore).
La metafora-simbolo di Bauman pervade l’intera esistenza, che è pertanto segnata da condizioni di continua incertezza, come mostra nei suoi libri (cfr. Modernità liquida, 2002; Paura liquida, 2008; Vita liquida, 2008; Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, 2009). Tutto questo qualifica anche le configurazioni sociali e politiche, come pure, almeno sulle prime, crea problemi sulla ricerca della ricerca identitaria dell’Europa e del suo poter diventare una patria.
Tuttavia, la «liquidità», per Forte, dissolve concezioni anchilosate di patria, ma lascia aperta la possibilità di una patria diversamente pensata: «Se si va diluendo il concetto ristretto di patria, caro alle forze in gioco nel secolo scorso, è allora legittimo chiedersi in che misura possa esserci ancora una valenza dell’idea di patria e in particolare se e in che misura quest’idea possa essere applicata alla “casa comune europea”».
Una risposta resiliente al “tempo liquido”
I dubbi restano, tante domande incalzano. Come può essere possibile pensare, progettare, costruire una “patria europea” nel mezzo di processi sociali cangianti, deboli, contradittori, come quelli che caratterizzano la Babele post-moderna così frastornante e frivola, così gassosa, sfuggente e “liquida”? Come ci si può impegnare in una intrapresa politico-culturale-giuridica così complessa e faticosa, quando si è in un “tempo liquido” nel quale tutto nasce facilmente e tutto facilmente si rompe e finisce? Come non considerare come “impedimenti dirimenti” (direbbe un canonista cattolico) le conseguenze che un simile tempo comporta: la labilità dei propositi, dei rapporti, delle decisioni di chi dovrebbe compiere tale impresa colossale?
Insomma, la possibilità di una nuova patria è davvero nella condizione di realizzarsi o è destinata a spegnersi dentro il perimetro del desiderio? Anche la risposta a questa domanda per Forte non è solo positiva, ma caratterizzata da vincente resilienza: «La risposta mi sembra non possa essere che positiva, a condizione di riconoscere la forza dei cambiamenti avvenuti e di rimodulare il concetto stesso di patria su nuovi orizzonti e più vasti confini. Due livelli vanno messi in evidenza: il primo è quello universale del “villaggio globale”, cui tutti apparteniamo». Forte completa la sua risposta in una prospettiva esplicitamente cristiana e teologica. «Si tratta di sviluppare e alimentare — scrive — in ognuno un respiro universale, “cattolico” nel senso originario di questo termine (dal greco kath’ólou: «secondo il tutto», «conforme alla totalità»), e dunque una coscienza alta e profonda di appartenere tutti a un destino comune, in cui nessuno potrà essere indifferente agli altri o irrilevante per loro».
Una conclusione triadica
Dinanzi alla domanda che tormenterà, ancora a lungo e molti, circa la possibilità di fare dell’Europa una patria, non dovrà mai essere chiuso lo spazio della speranza. In concreto questa si articola in pochi tracciati comportamentali.
1. Curare le “radici cristiane”. Forte avverte che parlare di “radici cristiane” dell’Europa potrebbe diventare «un richiamo generico e perfino meramente ideologico, se non si spinge lo sguardo fino alla più originaria novità cristiana, che è quella dell’inaudito avvento di Dio nella storia degli uomini, come inizio e fondamento di una speranza capace di cambiare il mondo e la vita». Evidentemente questo è un richiamo valevole prevalentemente per i cristiani, la cui testimonianza, però, potrà avere influenze anche fuori della comunità credente.
2. Non perdere il centro. Il centro del discorso societario, politico, giuridico e di quello sulla Patria europea è la persona. «L’idea di “persona”, che è alla base di ogni affermazione del valore assoluto dell’essere umano unico e singolare, la concezione della storia come aperta verso un progresso possibile e orientata verso una meta sperata, la fondazione dell’etica in una rete di relazioni di reciprocità, che partono da quella col Dio personale, sono senza dubbio frutto dell’ingresso del Vangelo nel tessuto vitale dei popoli europei, valori che hanno così permeato l’ethos dell’Occidente da caratterizzarlo inconfondibilmente».
Come Forte, anche un altro teologo conchiude il suo discorso sull’Europa con un approdo al Vangelo, anzi col riferirsi a una delle sue pagine più alte: «Se (…) dovessimo scegliere una delle Beatitudini, quella più adatta al lavoro per un’Europa riconciliata e dinamica, sceglierei volentieri la beatitudine della mitezza: “Beati i miti perché erediteranno la terra”. La mitezza, in effetti, viene da una lotta determinata e tranquilla contro tutte le violenze. (…) Il Vangelo ci annuncia che questa determinazione dolce ci garantirà il possesso per eredità della terra: non un possesso sul quale mettere le mani ma una signoria che mette tutto a disposizione di tutti. Una Europa vera sarebbe, dunque, una Europa della mitezza» (Ghislain Lafont, Il futuro è nelle nostre radici. La novità del Vangelo nell’Europa del terzo millennio, 2005).
3. Aprirsi alla “Tenda planetaria”. L’Europa è una patria, ma non l’unica né la più grande. Dall’Europa si va alla Tenda planetaria: «Ritrovare l’amore alla “casa comune” europea e avvertirne il fascino e il conseguente compito non solo verso i cittadini europei, ma anche verso l’umanità intera, cui l’Europa ha offerto concetti e valori fondamentali come quelli di “persona” o di “progresso”, è urgenza che deve vederci impegnati tutti, nessuno escluso. La “patria” europea ci chiama a un rinnovato impegno al servizio della pace e della giustizia per l’intero pianeta».
Il breve e intenso testo di Bruno Forte (i libri non si valutano a peso di carta), come è ben’apparso, ha suscitato la spinta per un’articolata riflessione, per così dire ha portato lontano, facendo riflettere anche su una lontananza amara: è apparso chiaro che negli ultimi decenni ci si è allontanati dalle matrici umanistiche e cristiane (storicamente innegabili), perdendo, così, una fonte sapienziale importantissima nel pensare, nel decidere, nell’operare di un’Europa che avrebbe avuto più fortuna e dignità se avesse cercato d’impegnarsi in qualcosa di più alto e promettente che non fosse soltanto un set minimo di valori universali (cfr. Joseph H. Weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, 2003).
Ma non c’è da scorarsi. Quello che non è stato, può accadere ancora, magari in forme diverse e in quelle possibili per il tempo presente. Questo l’insegna la storia e l’intuisce la speranza.
L’Osservatore Romano, 14-15 agosto 2019

Per la festa dell’Assunzione di Maria

L’Osservatore Romano
(Carolina Blázquez Casado) Il mistero della Glorificazione di Maria in anima e corpo in cielo è stato l’ultimo dogma mariano proclamato solennemente — nella data relativamente recente del primo novembre 1950, per opera di Pio XII — ma la certezza che il corpo di Maria, la Madre di Gesù, non sperimentò la corruzione e perciò gode in pienezza, come prima creatura e anticipo del nostro destino, dei frutti della Risurrezione di suo Figlio nella totalità della sua umanità, è antichissima e risale agli inizi del cristianesimo.
Il primo scritto cristiano che affronta questo tema è datato tra IV e V secolo, ma contiene esso stesso materiale più antico, elaborato, secondo alcuni studiosi, già nel II secolo. Stiamo parlando dell’apocrifo intitolato il Transito di Maria e attribuito per secoli a Melitone di Sardi per la sua forte impronta teologica della tradizione antiochena. Questa scuola patristica era caratterizzata da un pensiero profondamente semitico, lontano dai paradigmi filosofici greci, e in aperta polemica con le tesi gnostiche, al punto tale da elaborare un’interessantissima teologia della carne, ovvero quella che oggi chiameremmo un’antropologia “a partire dal corpo”, sottolineando come, in virtù del Mistero della creazione in Cristo e dell’Incarnazione del Verbo, la materia — e in concreto la carne dell’uomo — sia stata scelta da Dio come spazio teologico per eccellenza, in cui depositare e irradiare la grazia della salvezza.
Un altro dato da osservare in relazione all’importanza di questa festa è la sua celebrazione liturgica nella data del 15 agosto. Nelle Chiese Orientali abbiamo notizia di questa celebrazione già a partire dal IV secolo, col nome di “Memoriale di Maria”; in Occidente, dal Medioevo in poi essa è citata con formulari specifici. Nel settimo secolo essa viene istituita nella liturgia romana e in seguito anche negli altri riti occidentali: per esempio nella liturgia ispano-mozarabica nel nono secolo essa si celebra ufficialmente, ma già dal settimo secolo si allude al tema dell’Assunzione di Maria nella liturgia dell’apostolo Giovanni, in cui verginità e incorruzione della carne appaiono connessi in modo interessante.
Questa festa pertanto è stata sempre celebrata dopo la chiusura del ciclo pasquale che introduce il cristiano nella pienezza della rivelazione grazie all’effusione dello Spirito Santo nella Pentecoste. Dio ha riversato il Mistero della sua Vita su questo mondo fino all’estremo, in un lungo e paziente gesto di “svuotamento” — lungo quanto la storia della salvezza — il cui frutto è quello che i Padri della Chiesa chiamano lo “scambio felice”: poiché Dio ha assunto la carne dell’uomo fino alle ultime conseguenze, questa carne si apre ad accogliere lo Spirito; poiché Dio ha “rotto” la sua trascendenza per avvicinarsi all’uomo, si è aperta la via attraverso la quale l’uomo può entrare nella vita divina. Questo disegno di salvezza si è realizzato in Maria, superando la costante tentazione gnostica o razionalista, e si è compiuto nella fragilità della sua carne, perché è proprio nel corpo di Maria che si è consumata definitivamente l’unione tra Dio e l’uomo.
Non esiste un’altra festa cattolica in cui la natura della Tradizione, vero canale della rivelazione divina, e il senso della fede proprio del popolo di Dio, salvaguardia della verità rivelata, si manifesta con maggiore chiarezza; in cui la stima e il rispetto della fede cristiana per la carne, il corpo e il creato siano più esaltati e vi si esprima con più limpida bellezza la relazione intima tra il principio apostolico e il principio mariano su cui si costruisce la Chiesa.
In un paese della Spagna orientale già sono cominciati i preparativi per l’imminente rappresentazione dell’unico auto sacramental — una forma di dramma religioso tipica del teatro spagnolo a partire dal Seicento — che per un privilegio speciale di Urbano VIII si continua a rappresentare all’interno di una chiesa, la basilica minore di Santa Maria di Elche. Quest’opera s’intitola il Mistero di Elche: in valenciano, la lingua in cui è scritta la quasi totalità dei versi, I Misteri d’Elx. Di origine medievale, riprende la tradizione teologica, liturgica e spirituale sull’Assunzione di Maria comune a tutto il bacino del Mediterraneo. Se i versi sono straordinari per profondità teologica e bellezza poetica, il canto che li accompagna è meraviglioso e commovente. Le melodie di ispirazione orientale, con una grande influenza corsa, introducono in profondità nel mistero.
L’opera — che viene messa in scena ogni 15 agosto e, negli anni pari, anche nella data di proclamazione del dogma dell’Assunta — si sviluppa in due atti. Nel primo, Maria riceve, come in una nuova Annunciazione, la notizia della sua prossima morte e per questo motivo, mossi da una spinta o da una forza interiore che non sanno spiegarsi, tutti gli apostoli si mettono in cammino dai confini della terra in cui si erano dispersi per annunciare la buona notizia del Vangelo. Si tornano a incontrare con stupore e sorpresa quando si accorgono di essere stati tutti misteriosamente chiamati a Gerusalemme, convocati intorno al letto di Maria per accompagnare il suo transito ed essere testimoni della sua glorificazione in Cielo. È un punto di straordinaria tenerezza e bellezza perché Maria per loro è l’ultimo segno, la memoria viva della presenza di Gesù sulla terra. La rappresentazione è una vera espressione credente della relazione intima che esiste tra Maria e la Chiesa, tra il principio mariano e il principio petrino: e della primazia del primo sul secondo. Maria infatti ci precede, perché grazie all’accoglienza fedele della Parola nella buona terra della sua umanità, il seme del Verbo ha portato frutto in tutto il suo essere Donna, fino a fare di Lei la «Terra del Cielo».
L’Osservatore Romano, 14-15 agosto 2019

Il sacramento della penitenza e il compito di una comprensione sistematica

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cittadellaeditrice.com

Nel dibattito intorno alla penitenza al quale ho partecipato rispondendo a L. Orsy e a A. Marchetto (cfr. post precedenti), è emersa la questione della “comprensione sistematica” del sacramento. A tal proposito propongo parte della Introduzione al libro “Fare penitenza”, (Cittadella 2019) scritto insieme a Daniela Conti, nel quale viene messo a fuoco il punto sistematico e pastorale della posizione del sacramento della confessione in rapporto alla iniziazione cristiana. Si tratta di un punto decisivo per comprenderlo e per celebrarlo correttamente.

Introduzione

«è opera di Cristo liberare gli uomini dalla corruzione del peccato, ma impedire di ricadere nel precedente stato di miseria spetta alla sollecitudine e agli sforzi degli apostoli»

                                                                         S. Giovanni Crisostomo

Uno dei compiti più urgenti della Chiesa cattolica, nell’ambito del rinnovamento impostato dal Concilio Vaticano II, consiste nel recuperare un’equilibrata esperienza del “fare penitenza”. Questa esigenza, però, si manifesta in modo tutt’altro che evidente. Tale difficoltà, ossia la inevidenza di questa istanza, dipende da un fenomeno assai complesso e molto delicato da trattare: ossia dalgraduale assorbimento di tutta la esperienza penitenziale da parte del “sacramento della penitenza”. Ciò che è accaduto, in una storia che si estende per almeno 8 secoli, può essere brevemente descritto in questo modo: lo strutturarsi ecclesiale, sempre più definito, di un “sacramento del perdono”, almeno a partire dal Concilio Lateranense IV (1215), ha progressivamente esteso la propria autorità, fino a coprire l’intera area del “fare penitenza” ecclesiale, per arrivare ad identificare, almeno negli ultimi tre secoli, la “penitenza della Chiesa” con la “assoluzione sacramentale”. Al punto che oggi la parola “penitenza” rischia di identificarsi, sic et simpliciter, con il sacramento. E per di più con un sacramento che non ha più la penitenza!

Tale questione, tuttavia, ha potuto emergere in tutta la sua urgenza soltanto come “effetto indiretto” di una grande riscoperta, che non riguarda direttamente la penitenza, ma il più vasto ambito della “iniziazione cristiana”. Con ciò intendiamo dire che il recupero della iniziazione cristiana – ossia della sequenza battesimo-cresima-eucaristia nella loro unità – come fondamentale sacramento della riconciliazione, ha condotto la riflessione ecclesiale a interrogarsi in modo nuovo sul “quarto sacramento”, recuperandone, nello stesso tempo, la “esteriorità” rispetto alla iniziazione e la funzione di “servizio” rispetto ad essa. In altri termini, solo quando si è potuto adeguatamente riscoprire che il IV sacramento non fa parte della iniziazione cristiana, si è potuto mettere a tema, come suo centro, la sua funzione di “servizio” ad altro da sé.

Ciò impone in modo nuovo una elaborazione della “ragione sistematica del sacramento” che difficilmente potrebbe essere svolta senza questo rinnovato contesto pastorale ed ecclesiale di riferimento.

Il disegno di questo testo è, dunque, in primo luogo, il recupero della ragione sistematica del IV sacramento.

Con essa si intende una giustificazione della funzione e della struttura di un sacramento “diverso dalla iniziazione cristiana”, ma la cui funzione è non “per sé”, ma “per altro”, ossia in vista di un recupero e di una guarigione della relazione di comunione che la iniziazione cristiana inaugura con le soglie battesimali e crismali ed elabora nella continuità di preghiera e di rito della celebrazione eucaristica. Con una espressione assai acuta Tommaso d’Aquino dice che la penitenza interviene “non per se, sed quasi per accidens, scilicet in remedium supervenientis defectus” (S. Th, III, 65, 3, c).

La riscoperta di questa “ragione sistematica” risulta tanto urgente quanto difficile1. Ciò è dovuto una sorta di “oblio” che ha progressivamente cancellato i due “cardini” di questa espressione di Tommaso, e cioè:

– da un lato il primato della iniziazione cristiana, di cui fa parte il “fare penitenza”, ma non il “sacramento della penitenza”.

– dall’altro la distinzione classica, secondo cui il “rimedio al peccato grave” è la ragione sistematica del IV sacramento.

Per questo, come vedremo, da un lato occorre rielaborare la seconda distinzione, ossia quella tra peccati mortali e peccati veniali; ma dall’altro è necessario riscoprire una distinzione classica, che oggi non fa parte del glossario ecclesiale e che deve essere riscoperta, anche se con un necessario processo di traduzione: vogliamo qui alludere alla distinzione scolastica tra “penitenza come virtù” e “penitenza come sacramento”. La perdita di questa distinzione, che salvaguarda una esperienza battesimale ed eucaristica di penitenza che rimane originaria, costituisce il presupposto di quel fenomeno che abbiamo definito “assorbimento” di tutta la penitenza nel sacramento. Ciò a detrimento non tanto della “virtù”, quanto della centralità della iniziazione cristiana.

Ma, come abbiamo detto, l’emergere della “questione sistematica” è dovuto al nuovo ruolo acquisito dalla “iniziazione cristiana” lungo il corso dell’ultimo secolo. Per questo è necessario occuparsi di una analisi più dettagliata di questo sviluppo, soprattutto in relazione alla iniziazione dei bambini e dei preadolescenti. A ciò sarà dedicata una seconda parte del volume, nella quale proponiamo un riscontro di questa “ragione sistematica” con la pratica pastorale, in particolar modo in relazione all’impatto che la “prima confessione” ha avuto, nell’ultimo secolo, sulla azione pastorale di iniziazione cristiana.

Prenderemo spunto dall’osservazione delle difficoltà pastorali legate alle pratiche di iniziazione cristiana, in particolare alla prassi di collocare la “prima confessione” prima della “prima comunione”, con tutta una serie di rilevanti implicazioni, tre in particolare: la confessione compresa come condizione previa per fare la comunione; il dibattito teologico che ha accompagnato la pastorale; la fatica dei preadolescenti nel vivere il sacramento della confessione. Le fatiche dei preadolescenti sono il punto prospettico di osservazione che orienta questa seconda parte.

Per riflettere su questa problematica e proporre dei percorsi di iniziazione che cerchino di affrontarla, riteniamo fondamentale studiare la questione della corretta collocazione del sacramento della confessione e del suo delicato rapporto con l’iniziazione cristiana. È necessario infatti maturare la coscienza che, se da un lato il sacramento della confessione non fa parte dei sacramenti dell’iniziazione, dall’altro il “fare penitenza” svolge un ruolo importante nell’iniziare il soggetto all’identità cristiana.

Tale distinzione è particolarmente urgente nel caso dei fanciulli e preadolescenti, a causa delle peculiarità della loro età e condizione ecclesiale; in quanto soggetti in crescita, infatti, debbono essere considerati nelle loro caratteristiche personali, psicologiche e relazionali; e, in quanto soggetti dentro un percorso di iniziazione, richiedono di essere educati a “fare penitenza”, in modo articolato, per essere in grado di accedere in maniera autentica e piena al “sacramento della confessione”.

Il volume si divide pertanto in due parti: nella prima parte vorremmo cercare di recuperare questa esperienza complessa del “fare penitenza” nella Chiesa e procederemo nel modo seguente: inizialmente vorremmo presentare il quadro complessivo dei termini e delle questioni che riguardano il IV sacramento: da un lato esaminando i termini fondamentali che descrivono il IV sacramento (§.1), dall’altro mettendo in luce le questioni sistematiche fondamentali che ne definiscono la necessità e la struttura in rapporto alla iniziazione cristiana (§.2) per poi soffermarci su singole questioni rilevanti riguardo al rapporto tra virtù e sacramento (§.3) e del dialogo con la cultura e con le tradizioni non cattoliche (§.4). Nella seconda parte, ad un primo capitolo (§ 5) di carattere storico, in cui prenderemo in esame alcuni documenti ecclesiali dell’ultimo secolo, principalmente del Magistero, faremo seguire un secondo capitolo (§.6), di carattere teologico, in cui interrogheremo alcuni autori sul rapporto tra sacramento della penitenza e sacramenti di iniziazione cristiana, cercando di evidenziare come tale rapporto venga compreso e motivato in modi differenti a seconda delle esigenze pastorali e delle priorità teologiche. Infine, il terzo capitolo (§.7), di carattere pastorale, sarà finalizzato ad abbozzare alcune piste di sviluppo per la prassi: si inquadreranno poi i tratti caratteristici della preadolescenza, con una particolare attenzione all’aspetto religioso, si presenteranno i risultati di un questionario somministrato ad un campione di preadolescenti, interpellati sul loro rapporto con la confessione; seguirà un tentativo di interpretazione dei risultati, che sia atto di ascolto autentico dei vissuti preadolescenziali.

Infine, nel cercare di offrire alcuni spunti e suggerimenti per la pratica, si riconoscerà appieno che un ascolto del vissuto dei preadolescenti può offrire indicazioni importanti per il rinnovamento della prassi e della teologia della confessione ad ogni età, così come una teologia e una pastorale rinnovate possono liberarsi da modalità formalistiche e standardizzate del sacramento, di cui i preadolescenti si sono mostrati osservatori acuti e anche vittime silenziose. In appendice si darà conto nel dettaglio dei risultati del questionario.

 

1 Essa non riguarda soltanto il IV, ma anche il V sacramento. Infatti l’introduzione della categoria di “iniziazione cristiana” per la comprensione dei sacramenti del battesimo/cresima/eucaristia era destinata, fin dal principio, a modificare profondamente l’intero quadro della teologia sacramentale cristiana, nonché le consuetudini secolari della stessa prassi celebrativa ecclesiale. Nella categoria di “guarigione” troviamo quel concetto che – riconducendo il IV e V sacramento all’orizzonte della iniziazione cristiana – può recuperarne la profondità storica, liturgica e sistematica, e rileggerne tutta la ricchezza di teologia e di prassi pastorale. In questa ottica di fondo, al compito di chiarificare la vocazione “terapeutica” del sacramento della penitenza, potrebbe seguire il compito di restituire al sacramento della unctio infirmorum tutta la sua differenza rispetto al IV sacramento, identificando meglio il suo “luogo teologico” all’interno della “crisi” della identità cristiana, dovuta qui a malattia prima che a colpa. L’ambizione verso una ricomprensione della “guarigione cristiana” nella sua articolazione più autentica passa necessariamente per la riacquisizione del valore della dimensione simbolico-rituale: mediante essa si accede al superamento della crisi di identità cristiana, distinguendo accuratamente la crisi dovuta a colpa – cui corrisponde la penitenza – da quella “senza colpa” – alla quale si riferisce l’unzione dei malati. Per lo svolgimento di questo ulteriore capitolo, che qui non posso sviluppare, mi limito a rimandare a A. Grillo – E. Sapori (edd.), CELEBRARE IL SACRAMENTO DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI, Atti della XXXI Settimana di Studio, Valdragone (San Marino), 24 – 29 agosto 2003, Roma, CLV-Ed. Liturgiche, 2005.

Quale incentivo alle vocazioni? E a quali?

seminaristi

settimananews

La crisi delle vocazioni al ministero ordinato dipende maggiormente dalla crisi di fede delle ultime generazioni o dalla struttura ministeriale/gerarchica stessa che svilisce l’umanità del presbitero, come diceva quell’anonimo giovane teologo nell’articolo “Un ministero ordinato dal volto umano” ospitato su Settimana News il 7 luglio 2018?

Oppure piuttosto deriva dall’incertezza sociale che disincentiva scelte definitive e di lungo periodo (contratti anche di governo, matrimoni, costruzione della casetta dei sogni, stabilitas loci, l’agognato posto fisso seppur noioso, ideale tradizionale dell’ostrica anziché inseguire i propri desideri) imponendo precarietà, liquidità e flessibilità?

È vero, i preti sarebbero più incarnati nella vita umana se lavorassero senza godere di quello che l’anonimo definisce il «privilegio sociale» del sostentamento del clero; ma ciò dovrebbe essere forse un incentivo o non sarebbe piuttosto l’ennesimo disincentivo al servizio presbiterale?

Vocazione: la gioia del Vangelo

Realisticamente, sarebbe pensabile invece una forma di “flexsecurity” – innanzitutto di fiducia, di incoraggiamento e di accompagnamento spirituale adulto – estesa a tutti gli operatori pastorali, laici inclusi, che non li costringa in un unico contesto per sempre, ma che permetta di vivere un ventaglio di opzioni meno stereotipato rispetto a quello parrocchiale totalizzante del Curato d’Ars. Penso allo studio, a esperienze in altre diocesi del mondo, alla vita in famiglia, a periodi di silenzio e ricerca spirituale, alla predicazione itinerante/digitale, e ovviamente anche a quel «lavoro per la sussistenza, per il bene altrui e per la vita pastorale» che l’anonimo invoca. Ciò che importa è ricucire la scollatura con la vita delle persone ordinarie, sempre più ampia: non tanto quella tra clero e laicato, quanto quella tra la minoranza cristiana e la maggioranza post-secolare della popolazione europea.

Forse anche per tale motivo soffrono relativamente meno la crisi movimenti e congregazioni religiose che si isolano dall’esposizione sociale con un’idilliaca promessa di sicurezza da tutti e da tutto, ma pure quelli che offrono una maggiore varietà e dinamicità, favorendo la fioritura dei molteplici carismi di ciascuno nel mondo contemporaneo. Cioè la vera vocazione (che non è una dis-grazia che può capitare a chi soffre di qualche allucinazione o visione soprannaturale, ma di certo non a noi): gioia piena per quello che si è, per quello che si ha, per come si vive, perché si è consapevoli di amare al massimo delle nostre capacità, messe tutte pienamente a frutto.

Ma la pastorale vocazionale quando c’è, soprattutto quella nelle strutture (spesso) manicomiali superstiti dette “seminari diocesani”, favorisce davvero le vocazioni? Oppure attrae, conferma e sforna (pochi e sempre meno, grazie a Dio!?): repressi impiegati di curia; disoccupati decennali improvvisamente conversi a Medjugorje; bizzarri nostalgici di fasti monsignorili barocchi, sognati e inscenati, ma mai vissuti; ingenui esaltati dalle idee strabilianti, subito frustrate nell’unica certezza di funerali incessanti, che intervallano una vita forzatamente solitaria in canonica senza neppure più perpetue con cui parlare, per poi cercare un diversivo negli escort o, nei migliori dei casi, in un affezionato partner fisso?

ordinazione

Va da sé che occorre ripensare sia lo stile pastorale non sempre in grado di presentare la gioia del Vangelo (di sovente confusa per un infantile entusiasmo verso il baby sitting o l’animazione di centri estivi per chi non si può permettere una vera vacanza), sia il ruolo del presbitero (sempre più incomprensibile anche per gli eterogenei preti, diaconi e seminaristi), sia il contesto economico, sociale e spirituale, che muterà ancora, forse anche con la testimonianza vissuta di chi sa dimostrare che è assai più conveniente un bene condiviso duraturo rispetto a un egoismo transitorio.

La vita riserva comunque incertezze e possiamo con papa Francesco considerare benedetta l’inquietudine; sempre però se possiamo fidarci di qualche volto che si fida davvero di noi, che ci incoraggia, che non ci svilisce approfittando della nostra disponibilità, della nostra fede sincera e della nostra Vocazione.

Otto consigli agli amici presbiteri (e non solo)

Pensati nel giorno di San Giovanni Maria Vianney con la sfacciataggine laicale di San Paolo.

1) Ascolta il Popolo: innanzitutto sei un laico, un battezzato. Per poter essere pastore, devi prima riconoscerti ontologicamente come tutti pecora del gregge nel quale sei incardinato. Scegli pure come vestirti, basta che nel contesto in cui sei il modo in cui ti presenti riesca ad avvicinare le persone lontane, anziché allontanarle ulteriormente. Prendi il Popolo così com’è, lasciati migliorare da esso e lo lascerai migliore.

2) Vivi l’intimità con Gesù: la Messa è solo una parte della tua vita spirituale, che rischia di diventare routine. Il breviario ti aiuta a ravvivare la giornata, a pregare con i salmi che sanno esprimere ogni affetto e a ricordarti sempre della presenza viva di Dio in ogni tempo e in ogni luogo. Non vergognarti di pregarlo davanti ai fedeli, e coinvolgili nella preghiera della Chiesa. Cura con decorosità la liturgia, evitando sia la teatralità, sia la sciatteria.

3) Vivi la fraternità del presbiterio e l’unità con il vescovo: non sei uno stilita, e anche se non appartenessi a una comunità religiosa sei comunque un membro del collegio presbiterale. Crea ponti di unità tra i tuoi confratelli a partire da quelli più antipatici, non sparlare di loro e non usarli come tappabuchi per le messe, ma gareggia nello stimare gli esempi più virtuosi. Domanda con insistenza di convivere con altri preti, con i quali condividere affetti, gioie e difficoltà della vita pastorale. Consultati con il vescovo quando hai una preoccupazione o una proposta: non tenertela per te e non fare di testa tua.

4) Continua a studiare: la tua formazione non si è esaurita negli anni del seminario. Riprendi in mano quei libri di teologia che hai sfogliato solo per superare l’esame, ma partecipa a convegni; leggi riviste, saggi, testi spirituali, e anche narrativa e poesia. È tuo dovere offrire a te e a chi ti incontra una formazione di qualità, perché Dio ci ha fatto dono di ragione, sapienza e intelletto.

5) Rafforza il laicato: nutrilo con la Parola con omelie preparate e accorate, formalo nella maturità con lectio e con incontri di studio, offri ruoli di responsabilità ma soprattutto coinvolgilo attivamente nelle decisioni. Non renderlo dipendente dalla tua persona ma solo da Dio; non sei il padrone di nessuno, sei solo un ministro. Comunicagli quella forza per raggiungere le periferie che tu non riesci a raggiungere, nell’ordinarietà della vita sociale, civile e professionale.

6) Non nascondere la tua tenerezza, la tua debolezza e la tua fragilità: non aver paura di una ferita, di una lacrima, di un battito di cuore. Mostrati come uomo, abbi il coraggio dei tuoi sentimenti e offri il frutto delle tue battaglie deponendo la corazza che ti sei costruito. Chiedi scusa, spiega i tuoi ripensamenti, riprendi il tuo cammino. Bacia, abbraccia, accarezza i corpi con il tuo corpo e soprattutto con quello di Cristo, che non ha avuto paura di contaminarsi con le donne e gli uomini.

7) Offri al mondo quel che il mondo non può offrire: innanzitutto la Parola, la preghiera e la comunione, a partire da quella che testimoni con la tua vita. Non scimmiottare il mondo con brutte copie patetiche di quel che già si trova altrove in modo molto più attraente, perché la concorrenza ti batterà sempre. Sii coraggioso e profetico: osa gesti che nessuno aveva ancora osato, fatti guidare dalla forza dello Spirito che soffia quando sei unito al Popolo di Dio, scardina ogni resistenza alla carità.

8) Rallegrati con Maria: accogli tutto nel tuo cuore come dono inaspettato, ripensa ai momenti in cui il tuo cuore si è incendiato d’amore e, nella gratitudine, pronuncia convintamente il tuo “fiat” alla bellezza che contribuirai a partorire, fiducioso nel farsi della sua libertà, che è la tua di amare.

Futuro cercasi per la “baita” dei Papi in Val d’Aosta

da Avvenire

Lo chalet di Les Combes aveva accolto Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI nei loro soggiorni di riposo estivi. I salesiani, proprietari della casa, lanciano un concorso di idee
Giovanni Paolo II nello chalet di Les Combes in Val d'Aosta nel 1999

Giovanni Paolo II nello chalet di Les Combes in Val d’Aosta nel 1999

Una nuova vita per quella che è stata la “casa dei Papi” in Valle d’Aosta. È l’obiettivo di un vero e proprio bando di concorso che la Famiglia salesiana, proprietaria dell’intero immobile e del terreno circostante, ha deciso di lanciare in queste settimane. Lo fa rivolgendosi a una agenzia specializzata, il Cpa Service, ma l’intenzione è quella di salvaguardare un pezzo di storia di questa valle e anche della Chiesa. Bisogna risalire a un decennio fa per ritrovare le immagini di Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi, che scelgono per il loro riposo estivo questo piccolo chalet a Les Combes in Valle d’Aosta.

Lo chalet di Les Combes che ha accolto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nei loro soggiorni estivi

Lo chalet di Les Combes che ha accolto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nei loro soggiorni estivi

Per dieci anni, a partire dal 1989, papa Wojtyla decide di passare un periodo di riposo non a Castel Gandolfo, ma nel verde della montagna. E così quella casetta diventa uno scenario conosciuto in tutto il mondo, perché qui si trasferiscono anche gli inviati e i vaticanisti di molte testate per cogliere i momenti di queste vacanze papali – in particolare le lunghe passeggiate negli oltre 13mila metri quadrati attorno all’edificio –, ma anche luogo nel quale viene pubblicamente recitato nel giorno di domenica la preghiera mariana dell’Angelus. Anche Benedetto XVI alcuni anni dopo per due volte tornerà in questa valle. Nel frattempo accanto alla baita “papale” sorge una vera e propria struttura ricettiva per ospitare il seguito pontificio e le forze della sicurezza chiamate a vegliare sulle vacanze del Vescovo di Roma: duemila metri quadrati di edificio che arriva a ospitare fino a 120 persone.

Benedetto XVI al pianoforte nello chalet di Les Combes in Val d'Aosta nel 2006

Benedetto XVI al pianoforte nello chalet di Les Combes in Val d’Aosta nel 2006

La baita che ospita il Papa permetteva a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI di poter ammirare dalla finestra della camera da letto il Monte Bianco. Una vista mozzafiato. Ora la casa che fungeva da base estiva per il Pontefice è diventata una sorta di museo, mantenendo intatto l’arredamento e la disposizione dei mobili di quei periodi. Ma se per la baita il futuro appare piuttosto delineato, così non è per l’altra struttura, quella che ospitava il seguito. Con il tempo è forse venuto meno la curiosità di salire fino a quella località, per “vedere” e “passeggiare” sui luoghi in cui il Papa veniva a riposare. E mantenere questa struttura appare complesso e costoso. A dispiacere è proprio il mancato utilizzo della struttura, che al contrario potrebbe offrire diverse possibilità di utilizzo.

Giovanni Paolo II nello chalet di Les Combes in Val d'Aosta nel 1999

Giovanni Paolo II nello chalet di Les Combes in Val d’Aosta nel 1999

Proprio da questa considerazione nasce il bando promosso dalla proprietà salesiana e gestita dalla Cpa Service: un concorso per dare idee sul futuro di questa casa. Ovviamente esistono alcuni vincoli ambientali, storici e della Soprintendenza, ma «cerchiamo di raccogliere idee tra giovani architetti, fondazioni, associazioni, startup, persone fisiche, per ripensare un futuro». Si tratta di una «sfida», riconoscono i promotori del bando (o come lo definiscono loro un “open innovation”), che si dicono fiduciosi di poter ricevere quell’idea vincente (si possono mandare proposte presentate in duemila battute entro il 30 ottobre all’indirizzo mail info@cpaservicesrl.com), che magari eviti la messa in vendita della struttura e ne promuova un utilizzo nuovo e innovativo. Anche per ricordare la figura di san Giovanni Paolo II. E l’idea più innovativa sarà quella vincente, che comunque non vincolerà né l’attuale né la futura proprietà. Gli attuali gestori, però, non nascondono la speranza di trovare un progetto che faccia tornare all’antico splendore questo angolo di paradiso in Valle d’Aosta.

Note celestiali. La Madre di Dio, «stella» della musica

da Avvenire
Dal Gregoriano a Verdi, Maria ispira da secoli composizioni d’autore. E i canti popolari. Palestrina e Charpentier firmano due “Messe” per l’Assunta. Il fascino sul protestante Bach
La cappella di San Bruno nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma

La cappella di San Bruno nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma

Avvenire

La musica ha lodato, esaltato e celebrato nei secoli la «divina fanciulla, cattedrale del silenzio», si direbbe prendendo a prestito i versi di padre David Maria Turoldo. È la Madre di Dio contemplata anche attraverso il linguaggio universale delle note. Che ha raccontato persino la sua assunzione al cielo. Le parole dell’antifona dei Vespri della solennità di oggi, Assumpta est Maria in coelum, gaudent angeli, hanno ispirato composizioni per lo più da riscoprire. A cominciare da quelle di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594). Il “princeps musicae” scrive il mottetto che accoglie l’antifona mariana e che rappresenta un «vertice assoluto per fervore e capacità di commozione», spiega monsignor Vincenzo De Gregorio, preside del Pontificio Istituto di musica sacra. Un mottetto da cui poi prenderà spunto per ricavare alla fine del Cinquecento la Missa Assumpta est Maria, una delle ventidue Messe a sei voci scritte dal maestro. Con le sue sonorità brillanti, è una perla che ha fatto breccia anche nelle chiese della Riforma.

La musica ha lodato, esaltato e celebrato nei secoli la «divina fanciulla, cattedrale del silenzio», si direbbe prendendo a prestito i versi di padre David Maria Turoldo. È la Madre di Dio contemplata anche attraverso il linguaggio universale delle note. Che ha raccontato persino la sua assunzione al cielo. Le parole dell’antifona dei Vespri della solennità di oggi, Assumpta est Maria in coelum, gaudent angeli, hanno ispirato composizioni per lo più da riscoprire. A cominciare da quelle di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594). Il “princeps musicae” scrive il mottetto che accoglie l’antifona mariana e che rappresenta un «vertice assoluto per fervore e capacità di commozione», spiega monsignor Vincenzo De Gregorio, preside del Pontificio Istituto di musica sacra. Un mottetto da cui poi prenderà spunto per ricavare alla fine del Cinquecento la Missa Assumpta est Maria, una delle ventidue Messe a sei voci scritte dal maestro. Con le sue sonorità brillanti, è una perla che ha fatto breccia anche nelle chiese della Riforma.

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Risale a un secolo dopo la morte di Palestrina un altro capolavoro in onore della Vergine “d’agosto”. È la Missa Assumpta est Maria del francese Marc-Antoine Charpentier (1634-1704), interessante compositore mariano conosciuto ai più per il preludio del Te Deum che è la “sigla dell’Eurovisione”. La sua Messa è pervasa di una dolcezza densa, malinconica eppure ricca di calore. È una partitura di paradossi, come summa paradossale è la Vergine che ha suscitato musica “alta” e musica popolare: dal Gregoriano ai nostri giorni. «Intorno alla Madonna – afferma De Gregorio – è stata ricamata una straordinaria storia artistica che ha incluso anche la musica. Se vogliamo indicare un riferimento dobbiamo risalire al 431 quando nel Concilio di Efeso viene sancito il dogma della maternità divina di Maria che così può essere chiamata Madre di Dio». Si dovrà attendere invece il 1950 per arrivare al dogma dell’Assunta proclamato da Pio XII. «Tuttavia – fa sapere lo studioso – già dal Cinquecento l’assunzione della Vergine irrompe nell’iconografia e quindi nella musica».

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Testo mariano per eccellenza è l’Ave Maria, «compendio della nostra fede che porta a Cristo e che insiste sul mistero dell’Incarnazione, del Dio fatto uomo», chiarisce il preside. Da Palestrina all’austriaco Anton Bruckner(1824-1896), la nota preghiera è entrata negli spartiti. Con casi anche curiosi. «Pensiamo alle celebri melodie di Franz Schubert (1797-1828) e diCharles Gounod (1818-1893). Entrambe non sono nate come musica sacra. Sono composizioni a se stanti su cui sono state applicate le parole dell’Ave Maria. Ciò dimostra come l’intuito popolare trascenda parruccamenti o accademismi. Va aggiunto che l’Ave Maria, non essendo un testo prettamente liturgico, è stata tradotta presto nella lingua corrente. E ciò l’ha resa particolarmente attrattiva».

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Fra le versioni dell’Ave Maria da tornare ad ascoltare (e magari a cantare) ci sono quelle di Saverio Mercadante (1795-1870) o di Lorenzo Perosi(1872-1956). «Particolarmente amata nel Mezzogiorno è l’Ave Maria del napoletano Raffaele Cimmaruta, anche in questo caso frutto dell’innesto del testo religioso su una melodia preesistente».

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Lo stesso è accaduto con l’altrettanto rinomata Ave Maria di Pietro Mascagni (1863-1945), la cui partitura è quella dell’intermezzo diCavalleria rusticana. E l’invocazione che inizia con il saluto dell’Angelo ha varcato anche i confini dell’opera lirica. Giacomo Puccini (1858-1924) l’ha inserita in Suor Angelica; Giuseppe Verdi (1813-1901) in Otello.

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«E del genio di Busseto possiamo ricordare anche la preghiera corale dellaVergine degli Angeli nella Forza del destino – sottolinea De Gregorio –. Questo testimonia la forza attrattiva della Madonna: anche i grandi autori, magari scettici o non segnati da una particolare sensibilità religiosa, sono rimasti colpiti da Maria, icona suprema della donna che racchiude in sé le dimensioni della femminilità e della maternità».

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Altra sorgente di musica sulla Vergine è rappresentata dalle antifone mariane. Definizione non precisa che racchiude il Salve Regina, il Regina Caeli, l’Alma Redemptoris Mater o l’Ave Regina Caelorum. «Esse si collocano all’interno della Liturgia delle Ore, a conclusione dei Vespri o della Compieta. E sono state messe in musica da grandi autori». Hanno firmato il Salve Regina ad esempio Alessandro Scarlatti (1660-1725),Antonio Vivaldi (1678-1741), Georg Friedrich Haendel (1685-1759) oGiovanni Battista Pergolesi (1710-1736).

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A Palestrina si deve una struggente Alma Redemptoris Mater, mentre ilRegina Coeli annovera numerose varianti polifoniche. È di Johann Michael Haydn (1737-1806) una toccante Ave Regina Coelorum; ed è stata scritta daCarlo Gesualdo (1566-1613) una versione per l’Assunzione.

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Cantico mariano che segna la Liturgia delle Ore – proprio dei Vespri – è ilMagnificat. Eccolo sulle note di Palestrina o di Claudio Monteverdi(1567-1643), di Francesco Durante (1684-1755) o di Vivaldi. Ma anche del protestante Johann Sebastian Bach (1685-1750). «Con la Riforma luterana – chiarisce l’esperto –, anche se viene meno l’intensità del rito eucaristico, non si intacca l’assetto della preghiera quotidiana. I Vespri restano. E il Magnificat, essendo testo biblico, riscuote grande attenzione».

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Così una sua traduzione tedesca del Magnificat (Mein Herz erhebet Gott den Herrn) è messa in musica dal riformato Felix Mendelssohn (1809-1847).

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C’è poi lo Stabat Mater che la tradizione vuole sia attribuito a Jacopone da Todi. «Al centro si colloca la tragicità della morte di un figlio che si rispecchia nella sofferenza di Cristo vista con gli occhi del credente che guarda a Maria», riferisce lo studioso. Sono oltre quattrocento i musicisti che si sono accostati a questa sequenza. «Lo Stabat Mater di Gioachino Rossini (1792-1868) è un capolavoro, non assolutamente secondo al giustamente insigne Stabat Mater di Pergolesi», dice il preside.

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Fra i contemporanei c’è l’estone Arvo Pärt, autore di uno Stabat Materpremiato nel 2008 e anche di un Magnificat in stile tintinnabuli, a metà fra monodia e polifonia.

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La musica mariana è segnata anche dalle Litanie lauretane. Oltre a Monteverdi e a Palestrina, si devono a Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) le “celestiali” Litaniae de Beata Maria Virgine Lauretanae.

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Ma le composizioni in onore della Regina del cielo non sono solo quelle d’autore. Hanno anche un’impronta legata alla devozione popolare. «E hanno come apripista il Laudario di Cortona, ossia quel codice musicale manoscritto del XIII secolo che rilegge la vita di Gesù alla luce di Maria e da cui è fiorita una ricchissima epopea di canti mariani che ancora oggi arricchiscono il tessuto ecclesiale». L’attuale repertorio che esprime la venerazione per la Madonna include brani come Mira il tuo popolo oNome dolcissimo che «sono autentiche gemme, a partire dal testo», avverte De Gregorio.

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E aggiunge lo studioso: «Fra i tanti autori rimasti nell’ombra mi piace citare un modestissimo prete dell’attuale arcidiocesi di Sorrento-Castellammare di Stabia, don Luigi Guida, che ha creato un canto divenuto famoso nel mondo: Dell’aurora tu sorgi più bella. Aveva studiato al Conservatorio di Napoli e ha dedicato la vita alla musica. Così è giusto che sia sepolto nella ex Cattedrale di Vico Equense affacciata sul golfo di Napoli. E la luce mattutina che si riflette nel mare ha probabilmente ispirato a don Guida le parole del brano».

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Festa dell’Assunta. L’orizzonte da ritrovare. Gli auguri del presidente della Cei

Nadia Toffa, nella prova, ha convinto perché ha saputo dar voce all’anelito profondo e irriducibile, che abita il cuore. Anche l’Italia è chiamata a questa sfida. Il senso di questo giorno
Il cardinale Gualtiero Bassetti

Il cardinale Gualtiero Bassetti

da Avvenire

Cosa esprime il cordoglio corale suscitato dalla morte di Nadia Toffa? Oltre alla sua giovane età, vi ha contribuito certo la sua notorietà di giornalista «vivace, impegnata e coraggiosa»; ma ciò che ha colpito tutti sono state la dignità, la forza e la speranza con cui ha affrontato la malattia, fino a fargliela definire «un dono, un’occasione, un’opportunità»; ha colpito il suo sorriso – autentico fiore d’inverno –, la sua passione per la vita – così fragile e così straordinaria –, l’affetto dei famigliari, degli amici e dei colleghi. Questa donna ha convinto perché ha saputo dar voce all’anelito profondo e irriducibile, che abita il cuore: è desiderio di incontro e pienezza, urgenza di verità e giustizia, che disegna il volto, il nome e l’impegno di ciascuno nella realtà, per dirla con il tema del Meeting che si apre domenica a Rimini.

Per il Paese ritrovare questo orizzonte è forse la necessità più impellente. Lo scrivo mentre, come tutti, seguo gli esiti del dibattito politico in corso. La crisi che stiamo ancora una volta attraversando, prima che di partiti, è crisi di sistema e di visione. Mette in luce la prevaricazione di alcuni, ma anche la debolezza di molti altri, che affrontano la responsabilità politica quasi fosse un gioco.

Il Parlamento è cosa seria, vitale. È la Chiesa delle democrazie. Nei settant’anni di storia repubblicana gli eletti che l’hanno composto sono stati specchio del Paese: in molti casi, persone da cui prendere esempio per la passione civile con cui hanno servito le Istituzioni. Anche oggi fra i parlamentari vi sono tante persone libere e rigorose, che hanno il dovere di prendere la parola per richiamare tutti a responsabilità. Credo che, più che il loro numero, conti la possibilità che fra loro ci siano non solo i fedelissimi dei capi di turno, ma tante persone oneste, competenti, attente a parlare a tutti. La politica, prima che di numeri, è fatta di persone.

Ancora una volta tocca al Parlamento trovare una soluzione per aiutarci a rimanere un grande Paese, democratico ed europeo. Governare è una necessità; governare bene è un dovere. Il Parlamento non diventi, perciò, la trincea di una lunga guerra di posizione. Come nei legami familiari, tutte le forze politiche tornino a guardarsi negli occhi con la disponibilità a individuare le strade per convivere senza inganno o inutili astuzie.

È con questi pensieri nel cuore che auguro a tutti i lettori di “Avvenire” una buona festa dell’Assunta. Fin dalla sua definizione, nel 1950, il dogma non contiene soltanto l’affermazione che ciò che la Chiesa ritiene per Maria è anticipo e promessa di quella che sarà la salvezza integrale di ogni persona. Come disse allora Pio XII in Piazza San Pietro – presenti Alcide De Gasperi e Robert Schuman – l’Assunta ha a che vedere con il bene comune: «Voi, poveri, malati, profughi, prigionieri, perseguitati, braccia senza lavoro e membra senza tetto, sofferenti di ogni genere e di ogni Paese; voi, a cui il soggiorno terreno sembra dar solo lacrime e privazioni, per quanti sforzi si facciano e si debbano fare alfine di venirvi in aiuto, innalzate lo sguardo verso Colei che, prima di voi, percorse le vie della povertà, del disprezzo, dell’esilio, del dolore…». Sì, in Maria assunta in Cielo ci possiamo riconoscere tutti, a partire dai poveri di ogni tempo, quelli del difficile periodo successivo al secondo conflitto mondiale e quelli di ogni generazione, compresa la nostra.
Sotto la sua materna intercessione poniamo con fiducia le sorti del nostro amato Paese.

Gualtiero Bassetti, cardinale, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei