I CENTENARI IN ITALIA

In dieci anni (2009-2019) i centenari sono passati da 11 mila a oltre 14 mila, quelli di 105 anni e oltre sono più che raddoppiati, da 472 a 1.112, con un incremento del 136%. I supercentenari vivi al 1° gennaio 2019 sono 21, raddoppiati rispetto al 2009 quando se ne contavano 10. Lo si evince dal rapporto ‘Cent’anni e non sentirli’ pubblicato dall’Istat.

Al 1° gennaio 2019 sono 14.456 le persone residenti in Italia che hanno compiuto i 100 anni di età, donne nell’84% dei casi. Tra i centenari, 1.112 hanno raggiunto e superato i 105 anni di età al 1° gennaio 2019. L’87% è di sesso femminile. Dei 125 individui che tra il 2009 e il 2019 hanno raggiunto e superato i 110 anni di età, il 93% è costituito da donne, a conferma di una predominanza femminile nelle età estreme della popolazione.

Nel panorama europeo l’Italia, insieme alla Francia, detiene il record del numero di ultracentenari. Al 1° gennaio 2019 i centenari residenti in Italia sono 14.456 (84% donne) ma tra loro non c’è più nessuno nato nel XIX secolo. Negli ultimi 10 anni, dopo una costante crescita fino al 2015 (anno di massimo storico con oltre 19 mila individui), la popolazione super longeva ha avuto una riduzione dovuta in larga misura a un effetto strutturale: l’ingresso di coorti di popolazione – ovvero i nati in un determinato anno – poco numerose perché costituite dai nati in corrispondenza del primo conflitto mondiale. È verosimile ipotizzare che il calo si protrarrà fino a quando subentreranno i nati negli anni del primo dopoguerra, più numerosi della coorte precedente.

La maggior parte dei centenari risiede nel Nord Italia. Tra quelli di oltre 105 anni, 338 risiedono nel Nord-ovest, 225 nel Nord-est, 207 al Centro, 230 al Sud e 112 nelle Isole. La regione con il rapporto più alto tra semi-supercentenari e il totale della popolazione residente alla stessa data è la Liguria (3,3 per 100 mila), seguita da Friuli-Venezia Giulia (3,0 per 100 mila) e Molise (2,6 per 100 mila). La Lombardia, nonostante abbia il maggior numero di semi-supercentenari in valore assoluto (201), presenta un rapporto tra popolazione di 105 anni e oltre e quella totale residente pari a 2 per 100 mila, in linea con il dato nazionale (1,9 per 100 mila). La distribuzione regionale cambia analizzando il rapporto tra la popolazione semi-supercentenaria e la popolazione residente di 80 anni e più: con circa 36 persone di 105 anni e oltre ogni 100 mila residenti con più di 79 anni il Friuli-Venezia Giulia si posiziona al primo posto.

tratto da ansa


Una coppia di anziani si ripara dai raggi del sole con un ombrello.

La semina del profeta. Papa Francesco e la Chiesa del futuro


Settimana news
«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. […] Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo», disse il cardinale Carlo Maria Martini, pochi giorni prima di morire, a padre Georg Sporschill. Ed aggiunse: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?». Pessimismo, amarezza e delusione si intrecciavano – in quello che è stato definito il suo testamento spirituale – per le tante occasioni perse e le grandi questioni ancora aperte.

Ma poi, a riaccendere la speranza di una Chiesa viva, al passo con i tempi, è arrivato dalla fine del mondo Jorge Maria Bergoglio, anche lui gesuita come Martini. Bergoglio ha scelto il nome di Francesco, il santo poverello di Assisi, e sin dall’inizio del suo pontificato, anche tramite gesti, fatti e parole, ha cercato di svecchiare l’Istituzione, combattendo il clericalismo, la burocrazia, e chi diceva «si è sempre fatto così». Oltre a dismettere certi antiquati simboli esteriori del potere papale: dalla croce d’oro agli eccessivi paramenti sacri, l’atto più significativo è stato quello di tenere per sé solo il titolo di Vescovo di Roma, un segnale di umiltà ma anche di straordinaria apertura per la riconciliazione con le altre chiese cristiane.

Un cambiamento che non è stato accettato da tutti, specie tra i settori più retrivi della Chiesa, del mondo politico e finanziario. Il giornalista e vaticanista Marco Politi nel suo ultimo libro La solitudine di Francesco. Un papa profetico. Una chiesa in tempesta (Laterza, 2019), scrive: «Nel cattolicesimo è in corso una guerra sotterranea per mettere Francesco, il pontefice riformatore, con le spalle al muro. Preti, blogger e cardinali conducono un’opera sistematica di delegittimazione e, mese dopo mese, si va compattando un fronte conservatore con notevole forza organizzativa e mediatica. Debole, invece, è la mobilitazione dei sostenitori della linea riformatrice di Francesco: vescovi e cardinali si affacciano poco sulla scena per difendere il papa e appoggiare gli obiettivi di cambiamento». Si tratta di un’affermazione condivisibile, anche se guardando meglio tra gli scaffali delle librerie e biblioteche si possono trovare libri (preziosi) come La semina del profeta di fratel MichaelDavide e Andrés Torres Queiruga per comprendere che un’altra Chiesa è possibile.

Per Andrés Torres Queiruga, teologo e docente di Filosofia della religione all’Università di Santiago de Compostela, l’avvento di Papa Francesco ha rappresentato: «La conferma di un rinnovamento indispensabile e che si attendeva da alcuni secoli». L’obiettivo di Papa Francesco – continua Queiruga – non è quello di convocare il terzo Concilio Vaticano, ma attuare il secondo per «liberarne le potenzialità e rendere fecondi i semi che allora agitarono il cuore della Chiesa ed aprirono le porte all’attenzione verso il mondo».

Sulla stessa linea fratel MichaelDavide, monaco benedettino del monastero di Rhêmes Notre-Dame e dottore in Teologia spirituale alla Pontificia Università Gregoriana secondo cui: «Il tempo di Chiesa che stiamo vivendo è un tempo propizio per ritornare all’essenziale del Vangelo senza paura di perdere noi stessi». E prosegue: «In questi anni intensi, vissuti sotto la guida del vescovo di Roma, papa Francesco, la Chiesa sembra aver ritrovato la strada della nostalgia del Regno di Dio che viene, preferendolo a se stessa con le proprie abitudini mentali e di costume».

Entrambi i religiosi sono del parere che bisogna riprendere il cammino interrotto del Concilio Vaticano II e rimettere il Vangelo al centro della vita cristiana, al posto dell’Istituzione, del dogma e di una morale bigotta che vede Dio come un padre-padrone, sempre adirato e pronto a proibire o giudicare. Il Dio di papa Francesco è invece quello della misericordia, dell’amore e del perdono.

Papa Francesco non è un buonista, ma segue semplicemente il messaggio evangelico. In questi anni abbiamo visto all’opera un papa certamente umile ma anche determinato nel prendere decisioni solitarie e spesso in controtendenza con l’opinione pubblica, per esempio sul tema dell’accoglienza dei migranti. Papa Francesco ha dimostrato inoltre una notevole capacità diplomatica, ponendosi come abile mediatore nelle controversie internazionali, in particolare riguardo la Cina, ed ancora sensibilizzando sui temi ambientali e le critiche al neoliberismo e al capitalismo selvaggio.

Tutte queste mosse, ed in particolare la critica al clericalismo, hanno portato il Papa ad avere diversi nemici. Qualcuno si è addirittura spinto ad accusare il papa di «eresia», altri hanno chiesto le sue dimissioni. Per fratel MichaelDavide «siamo in presenza di tentativi che cercano di disinnescare in tutti i modi il processo di metabolizzazione del concilio Vaticano II».

Altrettanto duro è il giudizio di Andrés Torres Queiruga: «Si produce una reazione, capeggiata addirittura da cardinali, i quali in precedenza hanno esercitato il ‘dominio assoluto’ senza consentire il minimo dissenso, ma che ora gli si sono messi contro. Ciò che sorprende è che lo fanno con un ricorso al vangelo che – dal punto di vista teologicamente oggettivo e senza entrare nelle intenzioni soggettive – non posso che giudicare ‘blasfemo’ in quando strumentalizza o riduce al silenzio lo stile e le parole più centrali dello stesso Gesù, che richiamano alla fraternità e alla misericordia».

Oltre ai nemici dichiarati ed occulti, papa Francesco deve anche subire gli attacchi di chi lo giudica troppo timido nelle riforme. Purtroppo, anche se animati dalle migliori intenzioni, questi soggetti fanno solo il gioco dei conservatori. La semina del profeta affronta con lodevole coraggio alcuni temi scottanti, tra gli altri: «Il senso e la celebrazione dei sacramenti», da non vivere come un obbligo ma come un dono; «il tema del celibato e del sacerdozio», che non deve essere abolito – spiega Andrés Torres Queiruga – ma prevedere un carattere opzionale. Per fratel MichaelDavide: «Dichiarare guerra al clericalismo, esige un ripensamento coraggioso della teologia dei sacramenti, della spiritualità e della pastorale. Il primo passo consiste nel rinunciare all’idea dell’investitura, così cara a tanti sistemi di potere, primi fra tutti quelli religiosi. Questa rinuncia è la premessa necessaria per riappropriarsi dell’idea della chiamata a una discepolanza di servizio».

E poi «il sacerdozio delle donne». Andrés Torres Queiruga cita la lettera di Paolo ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Fratel MichaelDavide scrive che «non possiamo dimenticare che l’origine del maschilismo, che è un aspetto essenziale del clericalismo, si radica nella paura che, da sempre, la donna fa all’uomo. La capacità di generare e di accompagnare la vita in tutte le sue fasi ha creato nell’uomo – nel maschio! – un senso di inferiorità. […] Non temere le donne significa condividere con loro le decisioni». Il profeta ha seminato… e ricordando ancora le parole del cardinale Martini: «Il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto».

Fratel MichaelDavide e Andrés Torres Queiruga, La semina del profeta. Papa Francesco e la Chiesa del futuro, EDB, Bologna 2019. A cura di Francesco Strazzari con la postfazione di Ghislain Lafont. Recensione pubblicata in Il Popolo Veneto del 9 luglio 2019.

Brasile Amazzonia, la fuga degli indios muore nella miseria a Manaus


Avvenire

Gersem Baniwa: «I nativi sono considerati un ostacolo da rimuovere»
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(Stefania Falasca, Inviata a Manaus – Brasile) Silenzi, distese d’acqua argentata, lembi di terra coperti da una vegetazione fitta e scura. Dalla barca cullata dalle onde pigre del Rio Negro, Manaus in lontananza appare un enorme villaggio fluttuante in balia del sali-scendi delle acque. Voltato più in là lo sguardo, tre chilometri e mezzo di alta ingegneria costati più di un miliardo di reais sbucano dai grattacieli e si slanciano ad arco sul fiume per poi gettarsi nel mezzo della foresta pluviale. Guardi l’assurdo ponte e t’accorgi di trovarti proprio a lato del simbolo di quel potere economico che impone l’irruzione nei confronti degli ecosistemi naturali a danno del bene comune e che è alla base di tutte le contraddizioni dell’Amazzonia.

La pastorale dello sguardo

di: Michele Giulio Masciarelli
Settimananews

Non si contano più le volte nelle quali papa Francesco parla dello “sguardo” in contesto spirituale e pastorale: lo ha fatto, specie i primi anni del pontificato, nelle udienze del mercoledì e negli Angelus. È un tema che egli svolge in tanti modi. Forse la modulazione più articolata la troviamo nella lontana meditazione mattutina tenuta nella Cappella della Domus Sanctae Marthae il 21 settembre del 2013.

Lì papa Francesco ha sottolineato il potere degli sguardi di Gesù, capaci di cambiare per sempre la vita di coloro sui quali si posano. Commentando l’incontro di Gesù con Matteo, afferma: «Appena sentito nel suo cuore quello sguardo, egli si alzò e lo seguì». E fa notare che «lo sguardo di Gesù ci alza sempre; ci porta su», ci solleva; mai ci «lascia lì» dov’eravamo prima d’incontrarlo, né toglie qualcosa a colui sul quale si posa il suo sguardo: «Mai ti abbassa, mai ti umilia, ti invita ad alzarti». E conclude raccomandando di «… lasciarci guardare da lui».

Altra volta papa Francesco parla dello sguardo che occorre fissare su Gesù. Dunque, egli compone un andirivieni: dal passivo lasciarsi guardare da Gesù occorre passare all’attivo guardare Gesù.

Così, nella meditazione mattutina in Santa Marta del 3 febbraio 2015 raccomanda di leggere ogni giorno una pagina del Vangelo per «dieci, quindici minuti e non di più», tenendo «fisso lo sguardo su Gesù» per «immaginarmi nella scena e parlare con lui, come mi viene dal cuore» e conclude dicendo: queste sono le caratteristiche della «preghiera di contemplazione», vera sorgente di speranza per la nostra vita.

Evidentemente, non ogni sguardo è così significativo; lo è indubbiamente quello non superficiale, ma tale da mirare alla persona: «quando aiutate gli altri, li guardate negli occhi?», si chiede. Questo è uno sguardo che impegna il volto; in cuore e il volto, infatti, sono posti, nell’uomo, in un forte collegamento spirituale fra di loro. Il cuore è nascosto e il volto è visibile ed esposto, ed è proprio per queste due qualità opposte che il loro legame risulta necessario e intrigante. Intanto, soprattutto l’occhio e il cuore si richiamano a vicenda: sono reciproci e interdipendenti.

L’importanza dello sguardo cordiale

Nella Scrittura troviamo un singolare legame tra cuore e volto (occhio): è il filo chiarissimo della semplicità e quello della bellezza. Il cuore dà lucentezza e trasparenza allo sguardo: lo rende sottile, acuto, penetrante, bello; probabilmente, acuisce la vista, rischiara l’orizzonte, illumina e fa vedere bello ciò e chi è guardato.

Rovesciando i termini di queste considerazioni, appare ancora più decisiva la forza purificatrice, rischiaratrice, abbellitrice del cuore nel guardare dell’uomo: è il cuore che si fa volto e occhio; è il cuore che trasferisce la sua bellezza sul volto e sull’occhio: si ricordi che il volto per i neoebraici e per il nostro don Italo Mancini è l’uomo intero.

Il vero dialogo nasce dall’essere guardati e dal riguardare evidentemente con l’implicazione del cuore: «Quando gli occhi e la mente sono guidati e animati dal cuore, allora lo sguardo si fa luminoso e penetrante come una lama di coltello e focalizza l’obiettivo in modo perfetto con contorni nitidi e colori genuini, senza pericolo di alterazione alcuna».

pastorale dello sguardoÈ rimasta celebre la raccomandazione che la volpe fa al piccolo principe per ricompensarlo dell’amicizia: «“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe per ricordarselo. […] “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare”».

Il volto come lo specchio del cuore; anzi il cuore fa il volto, poiché lo forma: «Il cuore dell’uomo modella il suo volto, in bene e in male» (Sir 13,25). Sul volto si mostra la bellezza dell’anima e anche il suo contrario. La bellezza nasce dal cuore dell’uomo: un’interpretazione affatto dubitativa è che la bellezza nasce dall’intimo desiderio dell’uomo, ossia dal cuore come simbolo dell’interiorità dal quale ogni desiderio nasce e si esprime, perciò anche quello della bellezza. Questo significa che la bellezza nasce e rinasce, si rinnova continuamente.

Una proposta: uno sguardo nuovo sull’uomo contemporaneo

L’uomo contemporaneo è quello che è, come il mondo, in cui egli vive il suo “mistero”, è anch’esso quello che è. Serve uno sguardo prospettico. Dopo tutto quello che s’è detto sulle caratteristiche dell’uomo contemporaneo, sulle sue carenze, sui suoi abbandoni, sui suoi smarrimenti, forse è il caso di fare una considerazione sul come vedere e interpretare il difficile corredo del nostro tempo. Per esprimere tale urgenza, si potrebbe usare il titolo di un libro d’un famoso critico d’arte, John Berger, che recita proprio così: È questione di sguardi (Il Saggiatore, Milano 2009): si aggiunge solo “anche” per dire subito che, nei discorsi che sono stati affrontati sul tempo e sull’uomo d’oggi non c’entra solo lo sguardo.

Tuttavia, per guardare l’uomo contemporaneo che abita un tempo singolare e complesso, occorre adottare uno sguardo prospettico, ossia l’arte di disporre lo sguardo in modo nuovo, aggiungendo alle due dimensioni piatte (l’orizzontale e la verticale) una terza, quella della “profondità”. Quest’aggiunta ha costituito la rivoluzione che è avvenuta nella pittura da oltre cinque secoli. «L’avvento della prospettiva – scrive – è penetrare la terra, contemplarla come l’essere umano la vede, decide di abitarla meritevolmente, ma in armonia, poeticamente, con lo sguardo degli altri mortali».

L’applicazione della prospettiva allo sguardo è uno dei perspicaci pensieri con cui Barbara Spinelli introduce il piccolo libro di un monaco italiano che si pone il problema di adottare uno «sguardo cristiano» per guardare l’uomo contemporaneo e che, fra l’altro afferma: «Non si tratta di studiarlo, l’uomo di oggi, come da incuriosita sapienza antropologica. Si tratta di chiedersi: che sguardo posso, debbo avere, su quelle che chiamiamo malattie del secolo…».

Lo sguardo prospettico non è uno sguardo truccato con cui, mediante posizioni artefatte, si vede l’uomo contemporaneo solo dai lati belli, sorpassando difetti e deformità. Lo sguardo prospettico non evita né il discernimento severo né l’eventuale necessaria riprovazione: è uno sguardo veritiero e affidabile.

Guardare l’uomo del nostro tempo con occhi cristiano-mariani

pastorale dello sguardoCon l’affermazione già fatta, che è anche questione di sguardi, sono sottintese due negazioni: che non basta descrivere chi sia e come sia malridotto l’uomo contemporaneo e che la prima cosa da fare non è giudicare e condannare l’uomo contemporaneo, ma, prima, inoltrarci a dire sullo “sguardo cristiano” da volgere su di lui; fra l’altro, va avvertito che noi rischiamo di estraniarci da lui se dimentichiamo che quell’uomo è ciascuno di noi e che il post-moderno, in cui egli vive, è il nostro tempo e che perciò de re nostra agitur.

1) Non aver paura («Non sgomentatevi…»). È in riferimento al proprio tempo che non bisogna aver paura, ma essere oggettivi, critici, prudenti, pacati, benevoli, miti. La paura non vinta non fa indovinare la giusta distanza, la giusta visione, le giuste parole, il giusto giudizio e, perciò, crea aggressività: il proprio tempo non va aggredito mai… Giustificate il vostro sperare dice san Pietro nella sua Prima Lettera («… pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza…»: 3,15-16): si tratta di ricercare incessantemente i motivi per credere e sperare e mostrarli testimonialmente, ricordando che l’evangelo è sempre più grande dei discepoli che lo accolgono e lo diffondono.

2) Praticare la mitezza («con dolcezza e rispetto…»): si richiede pertanto l’attenzione all’altro, il rispetto, la benevolenza. «Il cuore del cristianesimo è scoprire la misericordia di Dio, viverla e riviverla. Ecco un altro esempio dell’atteggiamento cristiano dinanzi all’uomo contemporaneo: comunicare speranza, incoraggiare a vivere».

settimananews

Sinodalità: dal consultivo al deliberativo?


La forte spinta alla sinodalità della Chiesa di papa Francesco si è espressa nella costituzione apostolica Episcopalis communio, del 15 settembre 2018, e nel discorso per i 50 anni del sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015 ). Il card. Francesco Coccopalmerio, presidente emerito del Pontificio consiglio per i testi legislativi, motiva la possibilità di riconoscere alle assemblee e ai consigli ecclesiali un potere deliberativo e non solo consultivo. Uscendo dallo schema civilistico, pastore e fedeli sarebbero da considerarsi non come due soggetti separati, ma come un unico «soggetto comunionale deliberante» chiamato a uno «specifico deliberativo ecclesiale».

«I fedeli hanno il dovere e il diritto non soltanto di dare consigli ai pastori, bensì anche di esprimere una volontà con loro, nel senso non solo di consigliare, bensì anche di deliberare». Per la Commissione teologica internazionale «la distinzione tra voto deliberativo e voto consultivo non deve portare a una sottovalutazione dei pareri e dei voti espressi nelle diverse assemblee sinodali e nei diversi consigli. L’espressione votum tantum consultivum… risulta inadeguata se la si comprende secondo la mens del diritto civile nelle sue diverse espressioni» (cf. La sinodalità della vita e della missione della Chiesa). Per il card. Coccopalmerio la norma giuridica può avvicinarsi di più alla natura teologica delle assemblee ecclesiali riconoscendo ad esse, nel rispetto del ruolo del ministero, un potere di deliberazione.

Il processo sinodale tedesco in avvio (Il cammino sinodale della Chiesa tedesca, Settimananews) e il possibile sinodo italiano potrebbero avere strumenti mai prima riconosciuti ad assemblee di questo tipo (ndr.).

– Card. Coccopalmerio, in questi ultimi tempi, nella coscienza della Chiesa cattolica si è decisamente riscoperto, e perciò fortemente imposto, il principio dottrinale e pastorale della così detta sinodalità. Ed è a tutti noto come tale principio sia nel cuore e quindi nelle scelte di papa Francesco. Su questo argomento vorrei porle una serie di domande. In primo luogo, potrebbe dirci cosa precisamente si intende per sinodalità?

Dobbiamo limitarci a una risposta immediata e quindi elementare, però chiara. Sinodalità – come sappiamo – è un termine greco ed è composto da “sin” (che significa “con”, “insieme”) e “odós” (che significa “strada”). Da ciò consegue che sinodalità significa strada insieme, cammino congiunto, attività congiunta, di più persone.

Sinodalità, nel nostro caso, significa, in modo specifico, attività congiunta dei fedeli con i loro pastori, e ciò nel preciso senso che i fedeli con i loro pastori svolgono un’attività congiunta per la guida di una comunità ecclesiale e quindi per il suo bene. Ed è ben giustificato questo affermarsi della sinodalità e della sua speciale importanza.

Ne va dell’essenza della Chiesa

– Ci spiega meglio il perché della speciale importanza della sinodalità?

Possiamo concentrare l’attenzione su un aspetto che ritengo determinante e affermare che la sinodalità è il riflesso, sul piano dell’agire, della comunione ecclesiale sul piano dell’essere. In altre parole: come c’è una comunione ecclesiale nell’essere, così c’è una comunione ecclesiale nell’agire.

La comunione ecclesiale nell’essere significa che la comunità ecclesiale è composta dal pastore con i suoi fedeli, o meglio, dai fedeli con il loro pastore; la comunione ecclesiale nell’agire significa, del tutto logicamente, che l’attività della comunità ecclesiale deve essere svolta dal pastore con i suoi fedeli o, meglio, dai fedeli con il loro pastore.

Il modo di composizione della comunità ecclesiale determina il modo di svolgimento delle attività della comunità ecclesiale. E, pertanto, modo di composizione e modo di svolgimento delle attività sono due facce della stessa medaglia e cioè della comunità ecclesiale.

– Dunque, la non accettazione del principio della sinodalità potrebbe essere segno della non accettazione della corretta composizione della comunità ecclesiale?

Dobbiamo dire di sì. Chi in realtà negasse – forse non concettualmente quanto piuttosto con il comportamento – la sinodalità e la sua importanza e cioè – mi permetto di ripeterlo – negasse che i fedeli con il loro pastore svolgono un’attività congiunta per la guida di una comunità ecclesiale, chi pertanto affermasse che solo il pastore è attivo mentre i fedeli rimangono inattivi, chi dunque pensasse così, arriverebbe in definitiva all’assurdo – e, ovviamente, al ridicolo – di pensare che la comunità ecclesiale sia in realtà composta solo dal pastore e non anche dai fedeli.

Come, dunque, sarebbe assurdo, e anche ridicolo, affermare che la comunità ecclesiale possa essere composta solo dal pastore senza i fedeli, così sarebbe assurdo, e anche ridicolo, affermare che l’attività della comunità ecclesiale possa essere svolta solo dal pastore senza i fedeli.

Sinodalità nel Codice di diritto canonico

– Lei è uno studioso, un esperto di diritto canonico. E allora la domanda appropriata: come il diritto canonico tratta il tema della sinodalità? dove precisamente trovarlo nel Codice di diritto canonico?

È evidente che il diritto canonico tratta della sinodalità e il Codice di diritto canonico ne parla in numerosi luoghi. Il luogo fondamentale è il can. 212, §3, che così ci istruisce: «In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio, di cui godono, essi (i fedeli) hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa…». Questo testo è una riscrizione quasi alla lettera di Lumen gentium 37,1.

È ora determinante che ci poniamo questa domanda: qual è il motivo per cui i fedeli hanno il dovere e il diritto di dare consigli ai loro pastori? O, più precisamente, da dove viene ai fedeli l’attribuzione di consigliare i pastori?

E la risposta è chiara: il motivo per cui i fedeli hanno il dovere e il diritto di dare consigli ai loro pastori è semplicemente, ma essenzialmente, perché sono fedeli, cioè hanno ricevuto i sacramenti del battesimo e della confermazione; l’attribuzione di consigliare i pastori è causata nei fedeli dai sacramenti del battesimo e della confermazione ed è, pertanto, un’attribuzione sacramentale.

Gli altri luoghi in cui il Codice parla della sinodalità sono quelli in cui indica le strutture nelle quali i fedeli attuano concretamente l’attribuzione di consigliare i pastori e cioè i consigli ecclesiali, che sono differenti e a livelli diversi.

Oltre al caso, assolutamente peculiare, del Concilio ecumenico (cann. 336-341), possiamo vedere, in modo particolare: il sinodo dei Vescovi (cann. 342-348), i concili particolari (cann. 439-446), il sinodo diocesano (cann. 460-468) il consiglio presbiterale (cann. 495-502), il consiglio pastorale diocesano (cann. 511-514), il consiglio pastorale parrocchiale (can. 536). In tutte queste strutture viene attuata la sinodalità, perché ai vari livelli, i vari fedeli con i vari pastori svolgono un’attività congiunta per la guida delle comunità ecclesiali e quindi per il loro bene.

Ora notiamo con attenzione che relativamente alle strutture ecclesiali che ho appena elencate, il Codice si preoccupa di precisare che «hanno voto solo consultivo»: così per il sinodo diocesano (can. 466), così per il consiglio presbiterale (can. 500, § 2), per il consiglio pastorale diocesano (can. 514, § 1), così anche, con altre espressioni, per il sinodo dei vescovi (cann. 342-343) o, infine, per vari membri dei concili particolari (cann. 443, § § 3-5; 444, § 2).

Consigliare: un’attribuzione sacramentale

– Fa una certa impressione quanto lei afferma e cioè che l’attribuzione, e perciò il dovere e il diritto di consigliare i pastori, è causata nei fedeli dai sacramenti del battesimo e della confermazione ed è, pertanto, un’attribuzione sacramentale.

È vero. Può fare impressione, per il semplice motivo che non siamo abituati a pensare così. E infatti riteniamo spontaneamente che i sacramenti del battesimo e della confermazione conferiscano doni o attribuzioni di carattere – diciamo così – piuttosto spirituale – pastorale, come quella di ricevere gli altri sacramenti o quella di partecipare alla celebrazione della messa, ma l’attribuzione di consiliare i pastori sembra qualcosa di estraneo alla causalità propria dei sacramenti. Però posso ribadire che quanto ho affermato è chiaramente attestato dal Vaticano II e dal Codice: sono i fedeli in quanto fedeli, in quanto, cioè, hanno ricevuto il battesimo e la confermazione, che hanno l’attribuzione di consiliare i pastori.

– Se il compito di consigliare ha origine nei sacramenti, dovremmo acquistarne maggiore coscienza sia nella riflessione dottrinale, sia nella attuazione pastorale.

Sono d’accordo. Bisognerebbe, innanzitutto, essere convinti che l’attribuzione di consigliare i pastori è di tutti i fedeli e non solo di alcuni perché tutti sono battezzati e di solito cresimati. Notiamo al riguardo che anche il can. 212 §3 dovrebbe essere più deciso, meno timido. Ci sarebbe, quindi, da sviluppare una pastorale che tenga presenti queste due principali finalità: far acquisire a tutti i fedeli una coscienza piena del loro compito di consigliare i pastori e promuovere in tutti, il più possibile, quelle doti di scienza, competenza e prestigio di cui parlano i testi, in modo tale che tutti i fedeli siano in grado di attuare la loro attribuzione sacramentale. Si tratta, insomma, di non tradire i sacramenti del battesimo e della confermazione relativamente al compito di consigliare, ritenendolo veramente grave, in quanto, appunto, attribuzione sacramentale.

Ricordo che una volta, dicendo in una conferenza queste cose, un parroco mi ha chiesto, anche con una punta di ironia forse non voluta: «Ma, insomma, tu ci dici di promuovere una pastorale dei fedeli per attuare il dovere di consigliare così come dobbiamo promuovere la pastorale per attuare il dovere di partecipare alla messa domenicale?». Vedendo che giudicava rettamente, gli ho risposto spontaneamente, usando le parole di Gesù: «Non sei lontano dal regno di Dio».

Consultivo: in che senso?

– A questo punto, dobbiamo ritornare a quanto lei diceva della qualifica data dal Codice di «voto solo consultivo» ai consigli ecclesiali nei quali i fedeli attuano la attribuzione di consigliare i pastori. A riguardo della precisazione «voto consultivo», sentiamo necessaria una spiegazione adeguata.

La risposta è complessa e dev’essere articolata. Devo fare una premessa tecnica, della quale mi scuso, ma che è necessaria per capire il seguito.

Nella struttura del consultivo, o dell’attività consultiva, o del voto consultivo, sono in attività, e quindi in relazione, due soggetti, uno chiamato consulente e l’altro chiamato deliberante. Il soggetto consulente è quello che dà consigli al soggetto deliberante e pertanto suggerisce cosa si dovrebbe fare. Il soggetto deliberante è quello che riceve i consigli del soggetto consulente e poi assume una deliberazione, compie, cioè, un atto di volontà e pertanto decide cosa si deve fare. Nel caso particolare del consultivo ecclesiale, il soggetto consulente sono i fedeli, il soggetto deliberante sono i pastori, in modo particolare il vescovo e il parroco.

Ciò premesso, dobbiamo precisare che l’attività di consultazione può essere scomposta in tre momenti successivi: il primo è la richiesta di consigli da parte del pastore ai fedeli; il secondo è l’offerta dei consigli da parte dei fedeli al pastore; il terzo è l’accettazione o la non accettazione da parte del pastore dei consigli offerti dai fedeli. Come vedremo, è necessario considerare distintamente i tre momenti, altrimenti non è possibile comprendere esattamente la struttura del consultivo.

Dopo la premessa tecnica, vengo ora alla spiegazione del «voto solo consultivo». Il legislatore canonico, quando afferma che tali consigli ecclesiali hanno voto consultivo, o solo consultivo, intende velocemente riferirsi solo al terzo momento del completo iter di consultazione e cioè all’accettazione dei consigli, e pertanto dice così: il pastore ha la libertà di accettare o di non accettare i consigli offerti dai fedeli. Libertà ulteriormente sottolineata dall’aggiunta dell’avverbio «solo»: voto solo consultivo. Aggiunta che evidenzia una preoccupazione, anche un po’ patetica, di tutelare la libertà del pastore deliberante.

L’obbligo dell’ascolto

– Lei non è d’accordo?

Sono necessarie due precisazioni, senza le quali tutto l’argomento può facilmente essere equivocato. La prima precisazione si riferisce al primo dei due momenti che ho sopra indicati del completo iter di consultazione e cioè alla richiesta di consigli ai fedeli. Ci domandiamo a tale riguardo: il pastore ha la libertà di chiedere consigli ai fedeli oppure ha l’obbligo di chiedere tali consigli? La seconda precisazione si riferisce invece al terzo momento. Per cui ci chiediamo: se il pastore ha la libertà di accettare o di non accettare i consigli offerti dai fedeli, per quale motivo avrebbe la libertà di non accettarli?

– Aspettiamo dunque le due precisazioni.

La prima è presto data: il pastore non ha la libertà, ma ha l’obbligo di chiedere consigli ai fedeli. Ciò affermiamo, con piena sicurezza, se consideriamo quanto detto poco sopra citando il can. 212, § 3. Se i fedeli hanno il compito, anche grave in quanto conferito dai sacramenti, di offrire consigli ai pastori, ciò presuppone logicamente che i fedeli siano chiamati, almeno periodicamente, a dare consigli. Se infatti i fedeli rimanessero sempre inattivi, che senso avrebbe affermare che hanno il diritto e soprattutto hanno il dovere di dare consigli ai pastori? Dunque, i fedeli devono agire, devono consigliare.

Mi si permetta ancora il paragone con l’eucaristia. Se i fedeli hanno l’attribuzione, certamente sacramentale, di partecipare alla celebrazione della messa e di ricevere la comunione eucaristica, hanno anche l’obbligo di andare a messa la domenica e di comunicarsi con una certa frequenza. E i pastori hanno l’obbligo di fare in modo che i fedeli si comportino coerentemente al loro dovere. Perché tali principi non dovrebbero valere, almeno in modo analogico, anche per l’attribuzione sacramentale di dare consigli ai pastori?

Se le cose stanno così, è evidente che i pastori non sono liberi di chiedere o di non chiedere consigli ai fedeli, ma hanno l’obbligo di chiederli. Quindi, in questo senso, avere voto consultivo, se significa libertà di accogliere o di non accogliere i consigli offerti dai fedeli, non significa nel contempo libertà di chiederli o di non chiederli.

Rifiuto possibile ma per un motivo adeguato

– E la seconda precisazione?

Come premesso poco sopra, se il pastore ha la libertà di accettare o di non accettare i consigli offerti dai fedeli, è decisivo chiederci per quale motivo avrebbe la libertà di non accettarli. Il pastore, in effetti, potrebbe ragionare in questo modo: Cari fedeli, mi avete offerto i vostri consigli, però io, che mi reputo più intelligente, più preparato, più esperto in questo particolare problema, ritengo che il mio pensiero sia più valido dei consigli che mi avete offerti. Per questo motivo non li accetto.

Sono convinto che tale motivo sia non adeguato e perciò non sufficiente. Ritengo infatti che il motivo adeguato e perciò sufficiente sia un altro e cioè il seguente: Cari fedeli, mi avete offerto i vostri consigli, però io, che ho il compito istituzionale di interpretare il pensiero del Signore, ritengo che i vostri consigli non siano concordi con il suo pensiero e il suo consiglio; in altre parole, se il Signore potesse esprimere il suo parere, questo sarebbe diverso, sarebbe non concorde con quello da voi espresso. Per questo motivo non accetto i vostri consigli, perché in coscienza, cioè davanti al Signore, non posso accettarli.

– Il pastore, a questo punto, può assumere una deliberazione secondo quello che egli ritiene il pensiero del Signore e può assumere tale deliberazione agendo da solo, senza i fedeli?

È una conclusione che non accetto senza precisazioni, perché bisogna distinguere almeno due casi. E, in effetti, nel caso in cui si tratti di questioni che non sono di speciale gravità e importanza per il cammino della comunità ecclesiale e richiedono una soluzione urgente, il pastore – per quanto con rammarico – potrebbe decidere da solo. Ma, al contrario, nel caso in cui si tratti di questioni che sono di speciale gravità e perciò di particolare importanza per il cammino della comunità ecclesiale, il pastore non dovrebbe, anzi non deve, procedere da solo, senza i fedeli. Dovrebbe, anzi deve, ragionare in questo modo: Cari fedeli, mi avete offerto i vostri consigli, che io, in coscienza, davanti al Signore, non ritengo siano concordi con il suo pensiero così che, purtroppo, non posso accettarli. Dobbiamo quindi fermarci e continuare a discernere insieme, finché saremo arrivati a trovare un parere condiviso.

Credo risulti abbastanza intuibile che tale attesa sia esigita dal principio della sinodalità: senza parere condiviso, e quindi azione congiunta, non c’è sinodalità.

Pastore e fedeli: due soggetti tra loro separati nel momento della deliberazione?

– Arrivati a questo punto, cioè a un parere condiviso, il pastore accetta i consigli dei fedeli e quindi assume una deliberazione seguendo i consigli stessi. E, pertanto, l’iter della consultazione si è concluso e il principio della sinodalità ha trovato soddisfacente attuazione. È corretta questa constatazione?

Sì e no, perché rimane una certa insoddisfazione, che rimarrà sempre finché rimarremo nello schema del consultivo. Mi spiego. È evidente che il consultivo in genere, e nello stesso modo il consultivo ecclesiale, presuppone – come detto – la distinzione tra due soggetti, tra quello che offre consigli e quello che assume la deliberazione, quindi tra i fedeli e il pastore.

Tale situazione suscita purtroppo una grossa insoddisfazione, teoretica e relazionale, che voglio precisare. Diciamo subito che i due soggetti sono, senza dubbio, tra loro assolutamente collaboranti, però, nel medesimo tempo, tra loro anche separati, e anzi subordinati, il primo al secondo, i fedeli al pastore. Infatti, il fedele consulente risulta come colui che compie un’attività iniziale e quindi solo preparatoria (quella di offrire consigli), mentre il pastore deliberante come colui che svolge un ruolo conclusivo e determinante (quello di assumere la deliberazione). In questo senso, il pastore deliberante appare, in definitiva, come colui che riveste la figura di vero protagonista dell’intera vicenda del consultivo ecclesiale. La descritta condizione di fedeli e pastore non è, forse, un non buon esempio di vera ed efficace sinodalità?

Ma c’è di più, e di più problematico. E, in effetti, se diciamo che solo il pastore assume la deliberazione, assistiamo a una netta separazione tra pastore e fedeli, proprio nel momento più importante del processo di discernimento pastorale, quello, appunto, della deliberazione: solo il pastore è attivo, mentre i fedeli sono inattivi, sono – diremmo – come scomparsi. Ora, c’è da chiedersi se la netta separazione tra pastore attivo e fedeli inattivi, quasi inesistenti, permetta di parlare ancora di vera ed efficace sinodalità: dove sono finiti quel cammino congiunto o quella attività congiunta, quella comunione ecclesiale nell’agire di fedeli e pastore, di cui stiamo parlando? Perché questa congiunzione dovrebbe interrompersi nettamente, dovrebbe come spezzarsi, proprio nel momento culminante che consiste nell’assumere la deliberazione?

Mi permetto un paragone, un po’ ironico: un pastore che, lodevolmente, chiede consigli ai fedeli e che, amorevolmente, accetta i loro consigli, ma che, poi, esclude completamente i fedeli e assume da solo la deliberazione, potrebbe in qualche misura essere assimilato a un parroco che, lodevolmente, suona a distesa le campane e invita i fedeli alla messa, che li accoglie amorevolmente in chiesa e li fa gentilmente accomodare, ma che poi si separa da loro dicendo semplicemente così: Cari fedeli, aspettate qui in chiesa. Io vado in cripta a celebrare la messa da solo. Poi ci salutiamo quando torno. Oppure potrebbe dire: Cari fedeli, state lì tranquilli e dite le vostre preghiere. Io vado all’altare a celebrare la messa da solo però la celebro in silenzio così non vi disturbo.

Dobbiamo riconoscere che la predetta concezione del consultivo ecclesiale con i fedeli che consigliano e il pastore che delibera, mentre risulta, da una parte, assolutamente corretta e legittima, lascia sussistere, dall’altra, una grossa insoddisfazione, teoretica e relazionale, particolarmente per quanto concerne una vera ed efficace sinodalità. Per tale motivo, poniamo la domanda: non sarebbe possibile progredire nella nostra riflessione per arrivare a una concezione più soddisfacente?

Oltre il limite del consultivo

– Siamo curiosi di conoscere il seguito.

Se – come detto – suscita grossa insoddisfazione la concezione del consultivo ecclesiale, a motivo della quale ci sono due soggetti, i fedeli che offrono consigli e il pastore che assume la deliberazione, ci resta una sola scelta: abolire la distinzione tra i due soggetti, abolire la distinzione tra le due attività e ipotizzare un unico soggetto e quindi un’unica attività.

Se vogliamo, in primo luogo, abolire la distinzione tra i due soggetti (fedeli e pastore) e quindi ipotizzare un unico soggetto, dobbiamo, come ovvio, pensare a un soggetto composto dai fedeli e dal pastore. Facciamo, però, molta attenzione, perché, a questo punto, si va a rischio di equivocare. Per evitare ciò, decisamente affermiamo che il pastore ha, nell’unico soggetto, a motivo del sacramento dell’ordine, una posizione superiore, dal punto di vista gerarchico, a quella degli altri fedeli, ha, cioè, la posizione di capo. Il soggetto composto di fedeli e pastore in posizione di capo può comodamente essere denominato «soggetto comunionale».

Se vogliamo, in secondo luogo, abolire la distinzione tra le due attività (dare consigli e assumere una deliberazione) e quindi ipotizzare un’unica attività, dobbiamo, come ovvio, pensare all’attività di assumere la deliberazione. Se il soggetto comunionale ha come attività quella di assumere una deliberazione, ciò significa che tale soggetto deve essere considerato un «soggetto comunionale deliberante».

Soggetto comunionale deliberante

– E questo cosa comporta?

Comporta, senza dubbio, che ogni componente il soggetto compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, così che dalla maggioranza dei voti si forma una volontà unitaria, che è la volontà del soggetto e quindi la deliberazione dello stesso. Poiché, però, il pastore ha una posizione superiore, dal punto di vista gerarchico, a quella degli altri fedeli, ha, cioè, la posizione di capo, il voto del pastore ha, di conseguenza, un valore superiore al voto degli altri fedeli, così che la deliberazione del soggetto consiste nella maggioranza dei voti a cui deve aggiungersi il voto concorde del pastore, che – come ovvio – deve essere libero.

Messo ciò ben in chiaro, è ora importante rendersi ben conto che passa una bella differenza tra consultivo e deliberativo per i fedeli, tra limitarsi, cioè, a dare consigli al pastore e compiere, invece, un atto di volontà con il pastore. E ciò affermiamo proprio per un’attuazione più adeguata del principio della sinodalità.

– Immediata però si presenta un’obiezione: poiché lei ha affermato che ogni fedele componente il soggetto comunionale compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, siamo passati dal consultivo al deliberativo. Ora, tale passaggio deve ritenersi indebito, almeno relativamente ai soggetti che l’attuale ordinamento canonico prevede come aventi voto solo consultivo.

Questa obiezione è intuibile e certamente fondata. Però posso tentare una risposta ugualmente ragionevole. Mi rendo perfettamente conto che sono passato – e l’ho fatto coscientemente – dal consultivo al deliberativo, non, però, in modo indebito, perché il deliberativo da me individuato è un deliberativo speciale e ciò per il semplice motivo che non è più il deliberativo civilistico ma è ormai il deliberativo ecclesiale, che si colloca nell’apposita struttura del «soggetto comunionale deliberante».

Orbene, nel «deliberativo ecclesiale» di un «soggetto comunionale deliberante» ogni membro, ogni fedele, compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, si forma così la maggioranza dei voti, ma, a questo punto, perché ci sia in realtà la deliberazione del soggetto comunionale, non è sufficiente che ci sia la maggioranza dei voti (tale sarebbe il deliberativo civilistico), bensì risulta essenziale che a tale maggioranza si aggiunga, in modo – ripetiamo – libero, il voto concorde del pastore (tale è il deliberativo ecclesiale).

E a me pare, tutto sommato, che la predetta concezione sia ragionevole e quindi approvabile. Infatti, da una parte, nulla toglie alla posizione del pastore, il cui voto resta determinante, mentre, dall’altra, sottolinea al massimo che la deliberazione deriva da tutti i membri della comunità, cioè precisamente deriva dal soggetto comunionale deliberante. Soprattutto non si verifica, proprio nel momento culminante del processo di discernimento pastorale in cui si assume una deliberazione, una netta separazione tra pastore e fedeli, per l’ovvio motivo che solo il pastore assume la deliberazione, mentre i fedeli restano esclusi da tale atto, il che appare insufficiente ad attuare una soddisfacente sinodalità. Invece si verifica, proprio – ripeto – nel momento culminante, una piena unità tra pastore e fedeli, e ciò appare adeguato ad attuare una soddisfacente sinodalità.

Dall’altra, con il soggetto comunionale deliberante si dà un’interpretazione ampia – e credo più soddisfacente – all’abilitazione conferita ai fedeli dai sacramenti del battesimo e della confermazione.

Deliberativo ecclesiale

– In che senso interpretazione ampia?

Cerco di spiegarmi in poche battute. E, in effetti, ci possiamo porre una domanda interessante, e anche inquietante: l’abilitazione che ai fedeli conferiscono i sacramenti del battesimo e della confermazione consiste solo nell’offrire consigli al pastore o anche nell’assumere la deliberazione con lui? questa seconda abilitazione non sembrerebbe esigita da una vera ed efficace sinodalità?

Per dare una risposta, ricordiamo che all’inizio della nostra conversazione, facendo l’esegesi delle parole di Lumen gentium 37,1 riportate nel can. 212, §3: «…(i fedeli) hanno il diritto e… il dovere di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa…», ho detto che i fedeli in quanto tali, cioè in quanto hanno ricevuto i sacramenti del battesimo e della confermazione, hanno il dovere e il diritto di dare consigli ai pastori. Quindi ho interpretato le parole del Concilio e del Codice «manifestare… il loro pensiero» nel senso di dare consigli. Questa esegesi è – diciamo – un’interpretazione stretta. Si potrebbe, però, dare anche un’interpretazione ampia, nel senso di affermare che i fedeli hanno il dovere e il diritto non soltanto di dare consigli ai pastori, bensì anche di esprimere una volontà con loro, nel senso, per tale motivo, non solo di consigliare, bensì anche di deliberare.

Consiglio pastorale parrocchiale «soggetto comunionale deliberante»

– La concezione da lei proposta dello «specifico deliberativo ecclesiale» e del «soggetto comunionale deliberante» ha come conseguenza di intendere in modo nuovo i vari consigli ecclesiali dei quali abbiamo parlato?

Direi, umilmente, di sì. Diamo, per esempio, uno sguardo al consiglio pastorale parrocchiale. Mi pare che quanto fin qui detto ci consenta di offrire un concetto abbastanza soddisfacente di consiglio pastorale parrocchiale. La costituzione di tale consiglio è indicata dal can. 536, § 1: «… il consiglio pastorale, che è presieduto dal parroco e nel quale i fedeli, insieme con coloro che partecipano alla cura pastorale nella parrocchia in forza del proprio ufficio…». A motivo di questa determinazione, il consiglio pastorale parrocchiale è composto da certi fedeli e dal parroco in qualità di presidente e quindi in posizione gerarchicamente superiore. È, dunque, un soggetto comunionale.

A questo punto possiamo pensare il consiglio pastorale parrocchiale non solo come soggetto comunionale, ma anche come soggetto comunionale deliberante e per tale motivo possiamo pensare i fedeli non più come coloro che danno consigli al parroco e possiamo pensare il parroco non più come colui che da solo assume la deliberazione, ma possiamo d’ora in poi pensare i fedeli e il parroco come coloro che insieme sono attivi per arrivare ad assumere una deliberazione. Resta sempre ben inteso che la deliberazione del soggetto comunionale consiglio pastorale parrocchiale consiste nella maggioranza dei voti espressi dai fedeli del consiglio a cui deve aggiungersi – in modo, ovviamente, libero – il voto concorde del parroco.

Per spiegare più chiaramente quanto appena detto o forse per renderlo più facilmente accettabile, ci viene ancora in aiuto quella che credo una forte analogia con la celebrazione eucaristica. E, in effetti, l’assemblea liturgica è da intendersi a modo di soggetto comunionale, composto dai fedeli presenti e dal sacerdote in qualità di presidente e quindi in posizione gerarchicamente superiore. La santa messa è celebrata non solo dal sacerdote, bensì dal sacerdote e dai fedeli, i quali agiscono congiuntamente, appunto – come detto – formando un soggetto comunionale, restando però ben inteso che per la validità della santa messa è sempre necessaria la presenza-presidenza del sacerdote.
settimananews

Bangladesh: in corso colloqui fra delegazione governo Myanmar e leader rohingya su rimpatri

Agenzia Nova

Una delegazione di alto livello del governo del Myanmar ha iniziato i colloqui con i leader rohingya nel campo profughi di Kutupalong, in Bangladesh, per garantire il rimpatrio dei membri della comunità. Lo ha detto ai media locali il commissario per i rifugiati del Bangladesh Mohammad Abul Kalam, precisando che i colloqui sono iniziati ieri e proseguono oggi. “Entrambe le parti sono sembrate positive sulla questione”, ha commentato Abul Kalam, precisando che i delegati hanno discusso con i leader per diverse ore.