Governo. Mercoledì la manovra alle Camere. Frenata su reddito e pensioni

Mercoledì la manovra alle Camere. Frenata su reddito e pensioni

Gli eventuali risparmi di spesa per l’introduzione del reddito di cittadinanza e di ‘quota 100’ sulle pensioni potranno essere usati anche per contenere il deficit pubblico sotto il 2,4% programmato. Nell’ultima bozza della legge di Bilancio, il cui testo dovrebbe approdare domani alle Camere, il governo fa un (piccolo) gesto distensivo verso la richiesta europea di modificare la manovra. Per i due ‘ must’ dell’esecutivo gialloverde viene confermata l’istituzione di specifici Fondi, anche se le disposizioni attuative vengono demandate ad «appositi interventi normativi». Il testo del ddl conferma per il ‘Reddito’ 9 miliardi annui dal 2019 e per le pensioni 6,7 miliardi il primo anno e 7 dal 2010. Il ministero dell’Economia potrà effettuare variazioni compensative tra l’uno e l’altro fondo e in caso di risorse non spese anche apportare le «occorrenti variazioni di bilancio».

In sostanza si dà attuazione alla rassicurazione, già espressa dal premier Giuseppe Conte, che il deficit al 2,4% del Pil nel 2019 dov’essere inteso come tetto massimo mentre il livello effettivo potrebbe anche rimanere al di sotto di quella soglia. Nel caso della previdenza i meccanismi di accesso a quota 100 (quattro finestre di uscita per i privati, due per gli statali e divieto di cumulo con il lavoro), oltre al disincentivo economico legato alla più breve carriera contributiva, potrebbero ridurre la platea interessata all’uscita anticipata.

Mentre per il reddito potrebbe essere soprattutto la tempistica di avvio della ‘macchina’ a limitare inizialmente la spesa. Un colpo di freno legato ora anche alla definizione dei ddl attuativi che potranno essere varati entro la fine di gennaio. Il testo della legge di bilancio, varato dal Cdm il 15 ottobre, è chiuso e in queste ore è al vaglio della Ragioneria. Tra le novità c’è un aumento dei fondi destinati al pubblico impiego, che nel triennio saranno pari a 4,2 miliardi (1,1 nel 2019). Risorse, destinate ai soli enti centrali della Pa, per il rinnovo del contratto che scade a dicembre.

Entrano nel mirino la Regioni che non taglieranno i vitalizi (sulla falsariga di quanto fatto dalla Camera) entro sei mesi dall’entrata in vigore della manovra: subiranno nel 2019 una riduzione del 30% dei trasferimenti statali (esclusi sanità, sociale e trasporto pubblico). E a proposito di salute, l’accesso delle Regioni ai maggiori finanziamenti del Fondo sanitario rispetto al 2018 (114,4 miliardi nel 2019, altri 2 miliardi nel 2020 e 1,5 nel 2021) viene vincolato all’approvazione di un nuovo Patto che dovrà contemplare diverse misure di «programmazione e miglioramento della qualità delle cure» anche con l’obiettivo di rivedere il superticket. Si allenta intanto la ‘stretta’ sulle società partecipate: non ci sarà l’obbligo di procedere all’alienazione se la società partecipata ha «prodotto un risultato medio in utile nel triennio precedente».

«Buona scuola» nel mirino: viene ridotta l’alternanza scuola-lavoro – da 400 a 150 ore per i tecnici e a 180 per i professionali, da 200 a 90 per i licei. Cambiano anche le norme sul reclutamento degli insegnanti e salta anche la nomina diretta dei docenti da parte dei presidi su base territoriale.

Mentre arriva un nuovo bonus contributivo di un anno (tetto a 8mila euro) per chi assume laureati under 30o dottori di ricerca under 34. Il fondo per i risparmiatori danneggiati dai fallimenti delle banche torna agli 1,5 miliardi promessi, su base triennale (525 milioni l’anno fino al 2021). Potranno accedervi gli azionisti di banche poste in liquidazione coatta o in risoluzione che hanno subito un ‘danno ingiusto’. Il risarcimento sarà pari al 30% della perdita, nel limite massimo di 100mila euro. Oltre alle già annunciate assunzioni straordinarie nelle forze dell’ordine (6.150 unità in 5 anni), la manovra prevede anche 1.000 nuovi ingressi in tre anni negli ispettorati del lavoro.

Infine arriva la Flat tax per le ripetizioni private: i professori potranno versare un’imposta sostitutiva del 15% per le lezioni, invece delle più pesanti aliquote dell’Irpef. Un tentativo di far emergere un’attività oggi in larga parte sommersa. Confermata, infine, la sterilizzazione totale degli aumenti Iva e delle accise per il 2019. Per il biennio successivo il taglio è solo parziale.

avvenire

XVII festival internazionale di musica e arte sacra

Con l’autunno torna a Roma nelle basiliche papali l’appuntamento con la grande musica sacra organizzato dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra. Oltre seicento musicisti provenienti da tutto il mondo fra professori d’orchestra, direttori  e cantanti impegnati in sei concerti gratuiti animano la diciassettesima edizione di un festival che non ha uguali per qualità dei musicisti e bellezza e unicità dei luoghi in cui i concerti si svolgono, le basiliche della cattolicità, San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura.

Un appuntamento che si rinnova dal 2002 grazie al contributo di benefattori, sostenitori e sponsor e all’entusiasmo e le capacità organizzative del fondatore e presidente della Fondazione Hans Albert Courtial. Quest’anno la manifestazione è dedicata a papa Paolo VI, proclamato santo il 14 ottobre a quarant’anni dalla morte. Il papa ieratico, intellettuale e profetico, che ha regnato in un periodo difficile, di forti  cambiamenti per la società e la chiesa, gli anni del terrorismo e del Concilio Vaticano II. Un papa cui si devono decisioni importanti per la chiesa come il riavvicinamento nel ‘64 con Athenagoras, patriarca di Costantinopoli. E Paolo VI, il rappresentante del più piccolo paese del mondo,  parla all’ONU nel ‘65. Papa Montini svolge un ruolo importantissimo nel ricucire i rapporti della Chiesa con l’arte contemporanea. Memorabile il suo invito agli artisti in Cappella Sistina nel ’64 “…Rifacciamo la pace? Quest’oggi? Vogliamo ritornare amici?”. A lui si deve anche la creazione  nel’73 della collezione  di arte religiosa e moderna dei Musei Vaticani.

“Paolo VI ha cambiato anche la mia vita”, confessa il dottor Courtial. Aveva vent’anni, ero venuto a Roma da Bad Godesberg col suo parroco che ne aveva 75, alloggiavano in una pensione di piazza Cavour. Con in tasca due biglietti per il baciamano al papa prendono l’autobus per il Vaticano, ma fanno tardi anche per la pioggia. Gli svizzeri alla fine li fanno entrare mandandoli negli ultimi posti. Quando il papa entra con la sedia gestatoria per farsi vedere il giovane Courtial  grida “Viva il papa” e Paolo VI si ferma e li benedice due volte. Un ricordo umanissimo di un papa che poteva sembrare distaccato, ma che “ha fatto cantare la storia”, dice Courtial.

I sei concerti nelle quattro basiliche romane dal 31 ottobre al 14 novembre (gratuiti con possibilità di prenotare il posto online) spaziano dalla musica contemporanea alla musica classica, con complessi orchestrali e vocali di primissimo ordine, come il Coro Statale della Cappella San Pietroburgo che vanta una storia di oltre 500 anni, per la prima volta al Festival, e i Wiener Philarmoniker, orchestra in residence fin dalle origini, che quest’anno si presenta in una formazione ridotta, in versione da camera.

Il concerto inaugurale il 31 ottobre alle 21 a San Paolo fuori le Mura presenta in prima assoluta  due formazioni giovani, per la prima volta ospiti della manifestazione, che vengono da paesi diversi di tradizione religiosa protestante, il complesso strumentale TrondheimSolistene norvegese e dal Minnesota il Together in Hope Choir  che raccoglie sessanta voci provenienti dai più importanti cori degli Stati Uniti.  Norvegese  anche Kim Andrè Arnesen autore dei due pezzi in programma, il mottetto “So That The World May Believe” in prima esecuzione assoluta dedicato a Papa Francesco, “Holy Spirit Mass” composto nel ’17  per i 500 anni della Riforma protestante e i 50 anni del dialogo cattolico-luterano.

Sabato 10 novembre si entra nel vivo alla Basilica di San Pietro. Dapprima con la Santa Messa celebrata dal cardinale Angelo Comastri, arricchita dagli antichi “canti orasho” testimonianza musicale delle prime comunità cristiane in Giappone e dagli interventi musicali del “Coro Statale della Cappella San Pietroburgo”, quindi a seguire alle ore 16 da una elevazione spirituale affidata alla “Messe solennelle de Sainte-Cècile” di Charles Gounot eseguita a Parigi per la prima volta nel 1855, lodata da Camille Saint-Säens che parlò di semplicità “grandeur”, luce purissima. A interpretarla i complessi giapponesi, per il sesto anno al Festival, “Illuminart Philarmonic Orchestra e Illuminart Chorus diretti da Tomomi Nishimoto.

Gli stessi musicisti giapponesi sono impegnati il giorno dopo, domenica, a San Paolo fuori le Mura con la “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi, composta come è noto nel 1874 in occasione del primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni. Voci soliste Misaki Takahashi (soprano), Takako Nogami (mezzosoprano) e Takashi Masu (baritono). Il concerto è dedicato a don Luca Pellegrini, recentemente scomparso, fine cultore della musica e per oltre dieci anni addetto stampa del Festival (“luxpell” per gli amici).

Il 12 novembre alle ore 21 a Santa Maria Maggiore un concerto sicuramente molto atteso, “Musica corale-sprituale dalla Russia” di uno dei cori più celebri di tutta la Federazione Russa, il Coro Statale della Cappella di San Pietroburgo, una formazione le cui origini risalgono al 1479, diretto da oltre quarant’anni da Vladislav Chernushenko.

A seguire, in crescendo, da non perdere, martedì 13 novembre a San Paolo fuori le Mura con i Wiener Philarmoker  la “Sinfonia n.4 in Sol maggiore” di Gustav Mahler  composta nel 1900 quando il musicista dirigeva la compagine viennese. E’ in versione da camera, non ci sarà alcun direttore d’orchestra,  soprano Mojca Erdmann, capace di spaziare dal barocco al contemporaneo, secondo il New York Times. “Mahler ha un rapporto molto speciale con la nostra orchestra – ricorda il primo violino e section leader dei Wiener – Fu proprio lui nel 1902 a condurre i Wiener nella sua “Quarta Sinfonia” in un concerto in abbonamento nel Musikverein di Vienna”. La “Quarta Sinfonia” è una delle opere più eseguite dai Wiener, è stata diretta nel 1920 anche da Richard Strauss. Fra i primi grandi interpreti Bruno Walter che colse in essa il “tono raro e commovente” e “l’anelito struggente di superare l’esistenza umana” .

Il 14 novembre, a chiusura, a San Giovanni in Laterano, la “Sinfonia n.9 in re minore per soli, coro e orchestra op. 125” di Ludwig van Beethoven. Soojin Moon Sebastian soprano, Quilin Zhang contralto, Paulo Ferreira tenore, German Olvera baritono, quattro giovani voci e i Wiener Singverein, una formazione corale fra le più celebri al mondo. Alla bacchetta Justus Franz che torna al Festival con la Philharmonie der Nationen, l’orchestra fondata dal maestro, formata da musicisti di ogni parte del mondo, di diverso credo politico e religioso. Un messaggio universale perfettamente in linea col capolavoro  beethoveniano.

La Fondazione che organizza il festival nasce nel 200 e si occupa di promuovere la musica sacra ma anche di sostenere finanziariamente imponenti progetti di restauro (“Ars artem salva”) illustrati alla presentazione in conferenza stampa da Pietro Zander, l’archeologo responsabile della necropoli vaticana e per conto della Fabbrica di San Pietro della conservazione e del restauro dei beni artistici della basilica. Dove “i lavori non finiscono mai”, dice. Dopo il restauro della facciata della Basilica per il Giubileo del 2000 e del colonnato, la Fondazione tra il 2006 e il 2016, solo per citare i più importanti interventi, ha contribuito al grandioso restauro dei prospetti esterni della Basilica progettati da Michelangelo, prospetto sud, ovest e nord, qualcosa come 35mila metri quadrati di travertino. Senza dimenticare i tetti dove è stata restaurata la Fontana della Burbera. A 35 metri di altezza è stato trovato un albero di fico e il nido di un falco pellegrino. Uccelli che non ci sono più come i piccioni scacciati dai gabbiani. Negli ultimo due anni si è provveduto al restauro delle due cupolette delle cappelle Gregoriana (più antica della cupola di San Pietro)  e Clementina. Il primo terminato, l’altro ancora in corso. Ed ora ci aspetta  il “cupolone”. Fino al 2020 la Fondazione sarà impegnata nel restauro del tamburo della grande cupola della Basilica di San Pietro e nel restauro del mobilio in noce con tessere in bosso  del XV -XVI secolo della Sagrestia della Basilica di San Paolo fuori le mura. Una imponente opera in legno costruita in loco, aggredita da polvere, muffe, insetti, che ha subito danni strutturali e distacchi.

Ai concerti e agli interventi a favore dei monumenti si aggiungono iniziative che riguardano specificamente la musica. Come il grande progetto dedicato a Anton Bruckner con i Wiener Philharmoniker. Ricorrendo nel 2024 i 200 anni dalla nascita del maestro, i Wiener da quest’anno al 2024 presenteranno l’intero ciclo delle sinfonie di Bruckner scegliendo una vota all’anno una delle più importanti cattedrali europee .  Alla Stiftkirche St. Florian in Austria   hanno   eseguito la Sinfonia n. 1.  A seguire  Londra, Barcellona, Praga, Stoccolma, Pisa, Milano.

Programma completo su www.festivalmusiceartesacra.net

in qaeditoria.it

“Gaudete et exsultate”: ripensare la santità

Parlare oggi di santità è rischioso. Vi è la reale possibilità che nessuno ti stia veramente ad ascoltare. Nella comprensione di ciò che, per lo più, la santità rappresenta sembra permanere una certa dose di ambiguità. Nel comune sentire il relativo concetto si direbbe attraversato da stereotipi e pregiudizi che impediscono di vederne la vera profondità teologica. Per lo più la santità viene identificata con fenomeni straordinari, con vite di persone eccezionali non imitabili, con eventi miracolosi, con agiografie edulcorate, con canonizzazioni frettolose, con la negazione del corpo, del mondo e della storia.

Eppure papa Francesco, trascorsi cinque anni esatti dall’inizio del suo pontificato,[1] ha voluto regalarci una terza esortazione apostolica dedicata alla «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo». Il titolo – Gaudete et exsultate – richiama l’invito alla gioia e alla felicità già presente nelle prime due esortazioni (Evangelii gaudium e Amoris laetitia).

Il documento, che si compone di cinque capitoli di facile lettura, non vuol essere un «trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni che potrebbero arricchire questo importante tema» (n. 2). L’«umile obiettivo» di Francesco è quello di «far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (n. 2). Sua speranza è che le pagine della Gaudete et exsultate «siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità» (n. 177).

Universale vocazione alla santità

Oggetto di riflessione dell’esortazione è il legame tra vita cristiana e universale chiamata alla santità (n. 10) contenuto al paragrafo n. 11 della Lumen gentium: «tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a quella perfezione di santità di cui è perfetto il Padre celeste».[2]

Quella di Gaudete et exsultate è la «santità della porta accanto», cioè di coloro «che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (n. 7); è la santità vivibile, sperimentabile e percepibile da ogni credente che non si accontenti «di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (n. 1).

La santità non è riservata a coloro che «hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (n. 14).

Conseguentemente, tutti dobbiamo lasciarci stimolare dai segni di santità presenti nei più umili membri di quel popolo che – come insegna Lumen gentium n. 12 – «partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità» (n. 8).

Peraltro «non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita, il suo intero cammino di santificazione, quella figura che riflette qualcosa di Gesù Cristo e che emerge quando si riesce a comporre il senso della totalità della sua persona» (n. 22).

Per dire che cosa sia la santità disponiamo di molte teorie e di abbondanti spiegazioni e distinzioni (n. 63). Sostanzialmente, però, la santità non è altro che la carità pienamente vissuta. La sua misura è data dalla statura che Cristo raggiunge in ogni persona battezzata, e da come ogni credente modella, con la forza dello Spirito Santo, tutta la sua vita sulla vita di Cristo (n. 21).

La santità, che non è l’imitazione di modelli astratti o ideali, è vivere in unione con Cristo i misteri della sua vita e implica «di riprodurre nella propria esistenza diversi aspetti della vita terrena di Gesù» come «la vita nascosta, la vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e altre manifestazioni del suo donarsi per amore» (n. 20).

Nella prospettiva cristiana la santità mostra una straordinaria forza umanizzatrice e una robusta offerta di senso e di speranza. Essa non toglie né forze, né vita, né gioia. Al contrario, «ci libera dalle schiavitù e ci porta a riconoscere la dignità» nostra e altrui (n. 32). «Ogni cristiano, nella misura in cui si santifica, diventa più fecondo per il mondo» (n. 33). La santità non ci rende meno umani, perché essa è l’incontro della nostra debolezza con la forza della grazia (n. 34).

La santità è il volto più bello della Chiesa cattolica. Ma lo Spirito soffia anche fuori di essa: ad esempio, suscitando nell’esperienza umana universale segni della sua presenza in grado di aiutare gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori;[3] oppure alimentando in tutte le Chiese cristiane[4] un patrimonio comune costituito da testimonianze eroiche fino allo spargimento del sangue che parla con una voce più alta di tutti i fattori di divisione[5] (n. 9).

I nemici della santità

Ci sono due «falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità» (n. 35), nonostante la profonda differenza tra il contesto storico odierno secolarizzato e quello dei primi secoli cristiani.

Lo gnosticismo è una deriva ideologica e intellettualistica del cristianesimo, trasformato «in un’enciclopedia di astrazioni», per cui solo chi è capace di comprendere la profondità di una dottrina sarebbe da considerare un vero credente. «Grazie a Dio, lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare» (n. 37). L’esperienza cristiana non può essere trasformata «in un insieme di elucubrazioni mentali che finiscono per allontanarci dalla freschezza del Vangelo» (n. 46). «Una cosa è un sano e umile uso della ragione per riflettere sull’insegnamento teologico e morale del Vangelo; altra cosa è pretendere di ridurre l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto» (n. 39).

Per questo non è possibile considerare la nostra comprensione della dottrina come «un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi», e «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione». Le sue domande ci aiutano a porci domande, i suoi interrogativi ci aiutano a porci interrogativi (n. 44).

L’altro grande nemico della santità è il pelagianesimo, cioè quell’atteggiamento che sottolinea in maniera esclusiva lo sforzo personale, come se la santità fosse frutto della volontà e non della grazia. Esso «si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale» (n. 57).

Ne risulta un cristianesimo soffocante, sommerso da norme e precetti, privo della sua «affascinante semplicità» e del suo «sapore» (n. 58). Al riguardo, Tommaso d’Aquino[6] ci ricorda che «i precetti aggiunti al Vangelo da parte della Chiesa devono esigersi con moderazione per non rendere gravosa la vita ai fedeli». Così facendo, si rischia di trasformare la nostra religione in una schiavitù (n. 59). «La Chiesa ha insegnato numerose volte che non siamo giustificati dalle nostre opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa» (n. 52).

Santità è vivere le Beatitudini e la misericordia

Come si fa – si chiede Francesco – per arrivare ad essere un buon cristiano? «La risposta è semplice»: prendere a riferimento, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. «In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita» (n. 63), grazie alla potenza dello Spirito Santo che «ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio» (n. 65).

Commentando le otto beatitudini nella versione del Vangelo di Matteo (5,3-12), Francesco esplicita nei termini che seguono il concetto di santità.

Santità è:

  • essere poveri nel cuore per permettere al Signore di entrarvi con la sua costante novità e per condividere la vita dei più bisognosi (nn. 67-70);
  • reagire con umile mitezza ai torti subiti, alle inimicizie, alle liti, alle critiche impietose, ai comportamenti arroganti e discriminatori (nn. 71-74);
  • saper piangere con chi è nel pianto,[7] senza fuggire dalle situazioni dolorose, considerando carne della propria carne chi è nella sofferenza e nell’angoscia (nn. 75-76);
  • aver fame e sete di giustizia, realizzandola nella propria vita, contribuendo ad assicurarla ai poveri, ai deboli e agli indifesi e rifiutandosi di salire sul carro del vincitore di turno (nn. 77-79);
  • relazionarci e agire con tutti con misericordia mediante il dono e il perdono (nn. 80-82);
  • mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore (nn. 83-86);
  • seminare pace attorno a noi, prevenendo incomprensioni, componendo contrasti e facendo prevalere l’unità sui conflitti (nn. 87-89);
  • accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi o sia per noi motivo di commiserazione o dileggio (nn. 90-94).

Inoltre, la santità gradita agli occhi di Dio è rinvenibile nel testo di Matteo 25,35-36 che Francesco definisce come «la grande regola di comportamento del giudizio finale» (n. 109): «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Alla luce di questa «pagina di cristologia» che, lungi dall’essere «un semplice invito alla carità», «proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo» e ci invita a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti, «essere santi non significa lustrarsi gli occhi in una presunta estasi» (n. 96), ma conformarsi al criterio della misericordia, «cuore pulsante del Vangelo», da accettare e da accogliere «sine glossa, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse» che finiscono col privarlo della sua forza dirompente (n. 97).

«Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio, un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano?» (n. 98). A tal fine non bastano «alcune buone azioni», ma è necessario, anche attraverso l’impegno sociale (n. 101), cercare e realizzare cambiamenti sociali ed economici giusti che prevengano e contrastino ogni forma di esclusione (n. 99). Non è proponibile «un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente» (n. 101).

In conclusione, «la forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale. Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato, e se è anche oggetto di riflessione, ciò ha valore solo quando ci aiuta a vivere il Vangelo nella vita quotidiana» (n. 109).

Le caratteristiche della santità

Papa Francesco è convinto che oggi la santità vada vissuta e testimoniata alla luce di cinque caratteristiche o espressioni spirituali «indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui il Signore ci chiama» (n. 110).

In un mondo aggressivo e volubile come il nostro, la prima caratteristica della santità ha i tratti della sopportazione delle contrarietà e delle vicissitudini della vita. La santità è fatta di pazienza e di costanza nel bene (n. 112 e n. 121), vince il male con il bene (n. 113), impedisce il radicamento delle inclinazioni aggressive ed egocentriche (n. 114), non tollera la diffamazione e la calunnia, rispetta l’immagine e il buon nome altrui (n. 115). Oltre ad essere fatta di mitezza e di comprensione degli errori e dei difetti altrui, essa evita anche la violenza verbale che distrugge e maltratta (n. 116), non guarda il prossimo dall’alto al basso, non assume il ruolo di giudice spietato, non considera gli altri indegni e non pretende continuamente di dare lezioni (n. 117). La santità sopporta le umiliazioni e richiede il coraggio di reclamare giustizia per i deboli e di difenderli davanti ai potenti (n. 119).

La seconda caratteristica è la gioia e il senso dell’umorismo. La santità non ha nulla a che fare con «uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia» (n.122). «Il malumore non è un segno di santità» (n. 126). Se il libro di Qoelet (11,10) ci ricorda che la malinconia va cacciata dal nostro cuore e la prima lettera a Timoteo (6,17) ci incoraggia a godere di tutto ciò che riceviamo dal Signore (n. 126), il libro del Siracide (14,11.19) ci invita a trattarci bene e a non privarci dei giorni felici (n. 127). «Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (n. 122). È capace di gioire del bene altrui (n. 128). Insomma, il Signore «ci vuole positivi, grati e non troppo complicati» (n. 127).

La terza caratteristica è la parresia, cioè l’audacia, l’entusiasmo e il fervore apostolico (n. 129). La santità mai si ferma su una «comoda riva» (n. 130) e mai pretende di camminare soltanto entro confini sicuri (n. 133). Non si lascia paralizzare dalla paura e dal calcolo (n. 133), né tantomeno dalla tentazione di fuggire in luoghi sicuri che possono avere molti nomi: «individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme» (n. 134).

Il santo, uscendo dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante, spiazza e sorprende (n. 138). Egli sa che «Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita. Dio non ha paura! Non ha paura! Va sempre al di là dei nostri schemi e non teme le periferie. Egli stesso si è fatto periferia (cf. Fil 2,6-8; Gv 1,14). Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì» (n. 135).

La quarta caratteristica è il cammino comunitario, perchè è molto difficile contrastare il male se si è isolati (n. 140). A volte la Chiesa «ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri», preparandosi insieme persino al martirio, come nel caso dei beati monaci trappisti di Tibhirine in Algeria (n. 141).

Un altro istruttivo esempio di santificazione come cammino fatto «a due a due» è quello di «molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento per la santificazione dell’altro (n. 141).

La vita comunitaria è in grado di preservare dalla «tendenza all’individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri» (n.146).

La quinta caratteristica è la preghiera costante e la lettura orante della parola di Dio. «La santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio… Non credo nella santità senza preghiera» (n.147).

Il silenzio orante non va inteso come un’evasione che nega il mondo attorno a noi (n. 152). «La preghiera, proprio perché si nutre del dono di Dio che si riversa nella nostra vita, dovrebbe essere sempre ricca di memoria»: memoria delle opere compiute da Dio a favore del suo popolo, memoria della sua Parola rivelata, memoria della vita nostra e altrui, memoria di ciò che il Signore ha fatto nella sua Chiesa (n. 153).

«La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli» (n. 104).

Quanto alla parola di Dio, più dolce del miele (cf. Sal 119,103), spada a doppio taglio (Eb 4,12), lampada per i nostri passi e luce sul nostro cammino (cf. Sal 119,105), Francesco ci ricorda che «la devozione alla parola di Dio non è solo una delle tante devozioni, una cosa bella ma facoltativa. Appartiene al cuore e all’identità stessa della vita cristiana. La Parola ha in sé la forza per trasformare la vita» (n. 156).

Santità di lotta e discernimento

La vita cristiana è un combattimento permanente (n. 158). Si richiedono forza, coraggio, vigilanza per non lasciarsi andare allo stordimento, al torpore e alla tiepidezza (n. 164) o a tante sottili forme di autoreferenzialità (n. 165)

Nella battaglia spirituale che il cristiano è chiamato a condurre è di grande aiuto il dono del discernimento. Infatti, «senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento» (n. 167).

Il discernimento, non «richiede capacità speciali né è riservato ai più intelligenti e istruiti» (n. 170), «è necessario non solo in momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere» (n. 169).

«Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti. Ma occorre chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e che scacci quella paura che ci porta a vietargli l’ingresso in alcuni aspetti della nostra vita. Colui che chiede tutto dà anche tutto, e non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Questo ci fa vedere che il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, un’introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli» (n. 175).

Santità è vivere in pienezza la vita cristiana

In conclusione, un’efficace sintesi del contenuto dell’esortazione apostolica Gaudete et exsultatemi sembra rinvenibile nelle parole pronunciate da Francesco in occasione della recita del Regina coeli del 29 aprile 2018.

«Quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla risurrezione del Signore. È quanto hanno fatto i santi, coloro che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana e la testimonianza della carità, perché sono stati veri tralci della vite del Signore. Ma per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti o religiosi… Tutti noi, tutti, siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova».[8] Tutti noi siamo chiamati ad essere santi; dobbiamo essere santi con questa ricchezza che noi riceviamo dal Signore risorto. Ogni attività – il lavoro e il riposo, la vita familiare e sociale, l’esercizio delle responsabilità politiche, culturali ed economiche – ogni attività, sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Gesù e con atteggiamento di amore e di servizio, è occasione per vivere in pienezza il battesimo e la santità evangelica».


[1] L’esortazione apostolica è stata presentata il 9 aprile, ma firmata il 19 marzo, solennità di san Giuseppe, dell’anno 2018, sesto del servizio petrino di Francesco.

[2] Nel Commentario alla Lumen gentium, curato da Serena Noceti e Roberto Repole, EDB, Bologna 2015, Dario Vitali scrive: «Il legame tra vita cristiana e universale vocazione alla santità non sembra aver lasciato traccia nella coscienza del popolo di Dio, ma nemmeno nella riflessione teologica che, su questo punto, registra un silenzio assordante» (pag. 175). È possibile che sia anche a motivo di questo silenzio che papa Francesco ha deciso di offrire alla Chiesa un documento magisteriale interamente dedicato alla «santità nel popolo di Dio paziente» (n. 7)? Un’ennesima e chiara dimostrazione della volontà di Francesco di “ritornare” al concilio vaticano II?

[3] Cf. Novo millenio ineunte n. 56 di Giovanni Paolo II.

[4]  Cf. Tertio millenio adveniente n. 37 di Giovanni Paolo II.

[5] Cf. Omelia di Giovanni Paolo II del 7 maggio 2000 in occasione della Commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del secolo XX.

[6] Cf Summa Theologiae, I-II, q. 107, art. 4.

[7] Francesco era vescovo di Roma da appena venti giorni, quando parlò della «grazia delle lacrime» come di «una bella grazia» perché, a volte, «nella nostra vita gli occhiali per vedere Gesù» sono proprio le lacrime (meditazione del 2 aprile 2013). In occasione della visita all’isola di Lampedusa dopo l’ennesima tragedia dei migranti inghiottiti dal mare, memorabile resta la domanda di Francesco, ripetuta cinque volte, chi di noi ha pianto ? «Domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo» (omelia dell’8 luglio 2013). Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudiumviene stigmatizzata la cultura del benessere e la globalizzazione dell’indifferenza che ci rendono «in­capaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri», così che «non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (EG n. 54). «Piangere per l’ingiustizia, piangere per il degrado, piangere per l’oppressione. Sono le lacrime che possono aprire la strada alla trasformazione; sono le lacrime che possono ammorbidire il cuore, sono le lacrime che possono purificare lo sguardo e aiutare a vedere la spirale di peccato in cui molte volte si sta immersi. Sono le lacrime che riescono a sensibilizzare lo sguardo e l’atteggiamento indurito e specialmente addormentato davanti alla sofferenza degli altri. Sono le lacrime che possono generare una rottura capace di aprirci alla conversione» (omelia del 17 febbraio 2016). Ai giovani radunati nel campo sportivo di Manila rivolse questo invito: «Siate coraggiosi: non abbiate paura di piangere» (discorso del 18 gennaio 2015).

 [8] Gaudete et exsultate, n. 14.

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I “beati” dell’Apocalisse

I “beati” dell’Apocalisse

L’Antico Testamento ebraico contiene 45 beatitudini o macarismi (< gr. makarismoi), i testi greci deuterocanonici altre 17 e il Nuovo Testamento ben 44. L’esegeta, docente a Matera – e a Gerusalemme, come professore invitato per il corso sull’Apocalisse –, ha conseguito il dottorato sul tema delle beatitudini nell’ultimo libro della Bibbia. Qui “distilla” i risultati della sua ricerca.

L’Apocalisse non è un libro del genere catastrofico, ma apocalittico nel significato di rivelativo. Esso rivela profeticamente che Gesù, Agnello immolato ma vivo, nel mistero pasquale ha vinto il male e accompagna la Chiesa che cammina nella storia in un percorso di testimonianza e di purificazione, ma allo stesso tempo scende dal cielo come dono di Dio all’Agnello-Sposo.

Satana insidia ancora la Chiesa, ma è già stato sconfitto nella guerra, sebbene vinca ancora qualche battaglia. Un libro di incoraggiamento nella tribolazione, di resistenza al male, ma anche di ammonimento contro il pericolo che i cristiani corrono di adattarsi al pensiero mondano-demoniaco, opposto a quello evangelico. Un testo controcorrente, modernissimo.

Piazzolla esamina brevemente i sette macarismi presenti in Apocalisse.

Ap 1,3 e 22,7 sono due beatitudini collegate all’ambito del messaggio evangelico che va ascoltato e custodito, prima di essere messo in pratica. Il discepolo dell’Agnello è invitato a vigilare per il tempo della venuta di Cristo, che è sempre imminente e improvvisa.

Ap 14,13 e 20,6 sono invece due macarismi collegati alla testimonianza. I discepoli dell’Agnello che muoiono a causa della testimonianza data a Gesù vengono rassicurati del fatto che riposeranno dalle loro fatiche e che saranno seguiti dalle loro opere. Non vedranno la “seconda morte”, cioè l’irrigidimento cadaverico definitivo di una vita che termina nel nulla. Dopo aver partecipato alla “prima risurrezione”, cioè alla vita nuova immessa nella Chiesa dall’Agnello col suo mistero pasquale partecipato nel battesimo, avranno accesso alla vita della Gerusalemme celeste.

In vita e in morte essi sono costituiti sacerdoti che offrono la vita e intercedono per i santi che vivono ancora sulla terra e regneranno per “mille anni” con Cristo. Regneranno, cioè, non per un tempo cronologico misurabile (e decodificato nella storia dell’interpretazione scorrettamente in senso letterale dai “millenaristi”), un “tempo” che corrisponde alla vita qualificata dalla presenza impregnante della vittoria pasquale di Cristo che appartiene al mondo e al tempo di Dio (“mille”).

Altre tre beatitudini (Ap 16,15; 19,7-9; 22,14) sono infine collegate alla tematica della “veste”. Questo simbolo antropologico rimanda all’identità profonda della persona. L’Apocalisse invita i discepoli dell’Agnello a essere vigilanti, a custodire integra la propria identità cristiana per non dover camminare vergognosamente mettendo in mostra le proprie nudità.

La Chiesa è la fidanzata-sposa che cammina nella storia preparandosi e abbellendo la propria identità in vista delle nozze definitive con l’Agnello Sposo. Nello stesso tempo – leggendo la realtà su due piani diversi e complementari – la Chiesa scende dal cielo come dono del Padre al Re dei re, al Signore dei signori, Cristo Gesù.

Il Veggente di Patmos sente acclamare in cielo l’arrivo del tempo previsto per le nozze della Chiesa. Essa “ha preparato se stessa” (19,7; non “pronta”, CEI 2008), a lei fu donato un vestito di lino splendente del mondo di Dio e puro (byssinon lampron katharon), a differenza della veste di lino pregiato sì ma non puro della tunica impura e ingannatrice della prostituta Babele, comunità umana massificata, edonistica e consumistica chiusa a Dio e ai valori del vangelo. Lei è vestita sì dibyssinon, ma non “puro/katharon” (diversamente dalla traduzione fuorviante di CEI 2008).

La Chiesa cammina nel mondo operando in sinergia con l’Agnello: «La veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,8c). Il Veggente di Patmos vede la santa Gerusalemme nuova mentre scende dal cielo, da Dio, preparata come sposa e abbellita per il suo sposo. Due participi perfetti passivi certamente “divini” e non qualità proprie della Chiesa (non gli aggettivi qualificativi“pronta” e “adorna”, dunque, come tradotto da CEI 2008).

L’umanità è incammino verso il suo esito definito glorioso, la vita nella comunione con Dio e fra gli uomini tutti. L’esito non è individualistico, ma comunitario. Quelli che hanno lavato le loro vesti, che hanno purificato la loro identità rendendola “bianca” del mondo di Dio e della risurrezione attraverso la partecipazione al mistero pasquale, avranno diritto all’albero della vita genesiaco (Ap 22,14), che si rivela essere la vita di Dio e dell’Agnello. Attraverso le porte della città nuova – realtà comunitaria e comunionale –, essi entreranno nella città dove Dio e l’Agnello sono l’unica luce e il riposo definitivo.

Le beatitudini dell’Apocalisse aprono uno squarcio di speranza certa e di incoraggiamento offerto da Dio e dall’Agnello nel cammino testimoniale-martiriale della Chiesa, chiedendo nello stesso tempo alla Chiesa di custodire attivamente il vangelo e di metterlo in pratica nelle circostanze quotidiane della sua vita nel mondo degli uomini.

Il volumetto contiene riflessioni ricche, sintetiche e chiare, con rarissime note a piè di pagina, che nel corso dell’esposizione chiariscono molti dei simboli presenti nell’Apocalisse, facendo evitare il rischio di una sua falsa interpretazione. A metà pagina 39 userei il termine “marchio/charagma” e non “sigillo/sphragis”, per non indurre in confusione il lettore. A pagina 56 (riga -8) si legga “quinta beatitudine” e non “sesta beatitudine”.

Francesco Piazzolla, Le beatitudini dell’Apocalisse. Un cammino per la Chiesa, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2018, pp. 128, € 14,00, ISBN 9788892214392.

settimananews

Papa Francesco chiede scusa ai giovani che la Chiesa non ha saputo ascoltare. Poi sintetizza il Sinodo: basta dottrinalismo che allontana chi non è dei nostri. Non maestri di tutti ma testimoni dell’amore che salva

“La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale”. Lo ha affermato Papa Francesco nell’omelia della messa conclusiva del Sinodo sui giovani, celebrata in San Pietro con 250 vescovi di tutto il mondo. “Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie. Come Chiesa di Gesù desideriamo metterci in vostro ascolto con amore, certi di due cose: che la vostra vita è preziosa per Dio, perché Dio è giovane e ama i giovani; e che la vostra vita è preziosa anche per noi, anzi necessaria per andare avanti”, ha esordito il Papa.

“Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo chiamati – ha scandito Francesco rivolto ai vescovi che ieri hanno votato a larga maggioranza il documento conclusivo, facendo passare però per pochi voti il passaggio sull’accoglienza pastorale agli omosessuali – a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità: stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli. Prossimità: ecco il segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario. Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte”. “Chiediamoci – ha esortato il Papa – se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che ‘non sono dei nostri’ e che Dio ardentemente cerca. C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani”. “Lavarsi le mani – ha spiegato – è quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani”, come Gesù che “si è sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì, dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è fatto mio prossimo: tutto comincia da lì. E quando per amore suo anche noi ci facciamo prossimi diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva”.

“Non è cristiano – ha osservato Francesco – aspettare che i fratelli in ricerca bussino alle nostre porte; dovremo andare da loro, non portando noi stessi, ma Gesù. Egli ci manda, come quei discepoli, a incoraggiare e rialzare nel suo nome. Ci manda a dire ad ognuno: ‘Dio ti chiede di lasciarti amare da Lui’. Quante volte, invece di questo liberante messaggio di salvezza, abbiamo portato noi stessi, le nostre ‘ricette’, le nostre ‘etichette’ nella Chiesa! Quante volte, anziché fare nostre le parole del Signore, abbiamo spacciato per parola sua le nostre idee! Quante volte la gente sente più il peso delle nostre istituzioni che la presenza amica di Gesù!”.

“Allora – ha lamentato il Papa – passiamo per una ONG, per una organizzazione parastatale, non per la comunità dei salvati che vivono la gioia del Signore”.” Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare”, ha suggerito, ricordando che “il cammino di fede nel Vangelo termina in modo bello e sorprendente, con Gesù che dice: ‘Va’, la tua fede ti ha salvato’”, al cieco nato Bartimeo che non gli ha chiesto altro che essere amato finalmente, dopo essere stato abbandonato da tutti fin dalla nascita. “Non ha fatto professioni di fede, non ha compiuto alcuna opera; ha solo chiesto pietà. Sentirsi bisognosi di salvezza è l’inizio della fede. È la via diretta per incontrare Gesù. La fede che ha salvato Bartimeo non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel cercarlo, nel volerlo incontrare. La fede è questione di incontro, non di teoria”, ha sintetizzato Bergoglio. “Nell’incontro – ha assicurato il Pontefice – Gesù passa, nell’incontro palpita il cuore della Chiesa. Allora non le nostre prediche, ma la testimonianza della nostra vita sarà efficace”. “A tutti voi che avete partecipato a questo ‘camminare insieme’, dico grazie – ha poi concluso – per la vostra testimonianza. Abbiamo lavorato in comunione e con franchezza, col desiderio di servire Dio e il suo popolo. Il Signore benedica i nostri passi, perché possiamo ascoltare i giovani, farci prossimi e testimoniare loro la gioia della nostra vita: Gesù”.

farodiroma.it

Primo incontro Gruppi Catechismo 2018/2019, Santa Messa e mandato ai catechisti Domenica 28 Ottobre 2018

I gruppi di catechesi dalla seconda elementare alla terza media si ritroveranno oggi alle ore 10 in Santo Stefano a Reggio Emilia per il primo incontro del nuovo Anno Pastorale. Insieme alle famiglie parteciperanno alla Messa in Cattedrale alle ore 11,15.con il mandato ai catechisti.  A conclusione festa nel cortile del Vescovado, o in caso di pioggia nei locali della Mensa vescovile.

Programma Celebrazioni UP 1°, 2 e 4 Novembre 2018

UNITÀ PASTORALE «SANTI CRISANTO E DARIA»

REGGIO EMILIA

«Credo la comunione dei Santi Credo la vita eterna»

Mercoledì 31 ottobre 2018, Vigilia di Tutti i Santi
ore 18.00 Rosario e e ore 18.30 Primi Vespri in Santa Teresa
ore 18.30 Messa festiva in San Prospero
ore 19.00 Messa festiva in Santo Stefano
Giovedì 1° novembre – SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI
ore 09.00 Messa in San Prospero
ore 10.00 Messa in Santa Teresa – Messa in Santo Stefano
ore 11.15 Messa in Cattedrale
ore 12.00 Messa in San Prospero
ore 15.00 Messa al Cimitero monumentale (presiede A. Caprioli)
ore 17.00 Rosario per i defunti e, alle 18, Messa in Cattedrale
Venerdì 2 novembre 2018

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI
ore 7.40 Lodi e ore 8.00 Messa nella Cripta della Cattedrale
ore 9.00 Messa in Santa Teresa
ore 10.30 Messa in Cripta
ore 15.00 Messa al Cimitero di Coviolo (presiede M. Camisasca)
ore 18.00 Rosario per i defunti e, alle 19, Messa in Santo Stefano
ore 18.30 Messa in San Prospero
* * *

Domenica 4 novembre, ore 9.45 in Duomo, il Vicario generale
presiede Messa per i caduti nel centenario fine Prima Guerra

In vista delle celebrazioni tradizionali e molto care alle nostre famiglie
del 1° e 2 novembre, accompagniamo il calendario sopra redatto per la
nostra Unità Pastorale — dove sono evidenziate le celebrazioni nei due
Cimiteri cittadini principali, presiedute dai nostri Pastori — con le
parole dell’allora teologo e parroco dell’Unità Pastorale di Bagnolo,
mons. Daniele Gianotti, vescovo di Crema:
«Preghiamo, oltre che nelle nostre Chiese, anche nei cimiteri,
ossia nei luoghi nei quali i nostri defunti “riposano” – questo è il
significato originale della parola “cimitero” – in attesa della
risurrezione. Questi luoghi ci invitano a sostare senza paura di
fronte al mistero della morte e della fragilità della nostra vita,
che è stata illuminata dalla morte e risurrezione di Gesù Cristo:
a partire da essa si dischiude la speranza della risurrezione e
della vita eterna che Dio vuole per ciascuno di noi, e verso la
quale sono incamminati coloro che non sono più in questa vita.
Siamo pregati di prendere visione degli orari delle varie
celebrazioni previste in quei giorni, e naturalmente di
parteciparvi nella misura del possibile».

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) Foglietto, Letture e Salmo

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Grado della Celebrazione: DOMENICA Colore liturgico: Verde

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Scarica le Letture del Lezionario >
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L’evangelista Marco che ascoltiamo quest’anno ci presenta le azioni e le parole di Gesù durante il suo viaggio a Gerusalemme. Viaggio sicuramente topografico, ma anche e soprattutto simbolico. Questa strada che Gesù percorre con entusiasmo – “Gesù li precedeva” – e dove i discepoli lo seguono con diffidenza o inquietudine – “essi erano spaventati, e coloro che seguivano erano anche timorosi” (Mc 10,32) – qui arriva al termine. Ecco il contesto della lettura sulla quale meditiamo oggi.
Al termine del cammino, oggi incontriamo un cieco. Un cieco, che, in più, è un mendicante. In lui c’è oscurità, tenebre, e assenza. E attorno a lui c’è soltanto il rigetto: “Molti lo sgridavano per farlo tacere”. Gesù chiama il cieco, ascolta la sua preghiera, e la esaudisce. Anche oggi, qui, tra coloro che il Signore ha riunito, “ci sono il cieco e lo zoppo” (prima lettura) – quello che noi siamo -; ed è per questo che le azioni di Gesù, che ci vengono raccontate, devono renderci più pieni di speranza.
È nel momento in cui termina il viaggio di Gesù a Gerusalemme (e dove termina il ciclo liturgico), che un mendicante cieco celebra Gesù e lo riconosce come “Figlio di Davide”, o Messia; e questo mendicante riacquista la vista e “segue Gesù per la strada”. È un simbolo, un invito. Chiediamo al Signore che ci accordi la luce della fede e ci dia vigore, affinché lo seguiamo come il cieco di Gerico, fino a che non avremo raggiunto la Gerusalemme definitiva.