Viaggio nella storia del premio. Il Nobel per la pace: la «fabbrica» della speranza

Il «Giardino dei Nobel» al Centro del Nobel per la pace di Oslo, in Norvegia (Pescali)

Il «Giardino dei Nobel» al Centro del Nobel per la pace di Oslo, in Norvegia (Pescali)

Il 10 dicembre 1901, nello Storting, il parlamento norvegese, il fondatore e presidente della Società francese per l’arbitrato tra le nazioni Frédéric Passy e il fondatore del Comitato Internazionale della Croce Rossa Jean Henry Dunant furono insigniti del primo premio Nobel per la pace, voluto da Alfred Nobel per premiare la «persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace». Da allora altre 96 personalità o istituti hanno ricevuto l’ambito premio che, dal 1990, viene consegnato nella sala del comune diOslo, e che per il 2018 sarà assegnato tra pochi giorni (tra l’altro in un anno particolare, considerato che il premio per letteratura non verrà assegnato, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, a causa dello scandalo per le molestie sessuali che ha coinvolto Jean-Claude Arnault, marito di una giurata). Nel suo testamento, redatto a Parigi il 27 novembre 1895, Alfred Nobel non specificò il motivo per cui aveva scelto la Norvegia anziché la Svezia come sede per la selezione e la consegna del premio. Si sono fatte diverse congetture: la Norvegia al tempo faceva ancora parte dell’Unione Svedese e lo Storting, che gestiva in una sorta di autonomia gli affari nazionali, aveva recentemente approvato una risoluzione per appoggiare il movimento di pace internazionale e forse questo fu uno dei motivi che indusse il magnate a optare per Oslo piuttosto che Stoccolma.

Il premio per la pace essendo, tra i sei istituiti da Nobel, quello meno tecnico è, per forza di cose, anche il più controverso e soggetto a contestazioni. «La prima grande svolta» mi spiega Niccolò Sattin, coordinatore delle Pubbliche Relazioni del Nobel Peace Center di Oslo, «la si ebbe nel 1936, dopo che il comitato preposto alla scelta del laureato, assegnò il premio al pacifista e antinazista tedesco Carl von Ossietzky, allora detenuto nel campo di concentramento di Esterwegen. Hitler si infuriò così tanto che vietò ai cittadini tedeschi di accettare ogni altra onorificenza data dall’istituzione». Da allora i cinque membri del Comitato per il Nobel Norvegese preposti a scegliere e assegnare il premio Nobel non devono ricoprire alcuna carica governativa e, dal 1977, neppure parlamentare, sebbene vengano scelti dallo Storting stesso. Oggi il comitato è formato dal filosofo e scrittore Henrik Syse, dall’antieuropeista Anne Enger, dall’analista e giornalista Asle Toje, dal discusso segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland e dall’avvocatessa Berit Reiss-Andersen, presidente del comitato e membro della DLA Piper, lo studio legale che ha co-finanziato la campagna elettorale di Obama nel 2012.

Sono queste cinque figure che accolgono, entro il 31 gennaio, la lista dei nominativi proposti alla candidatura, i cui bandi vengono aperti a chiunque da settembre dell’anno precedente. Durante il primo incontro ciascun membro del comitato può aggiungere altri candidati. Tutti i nominativi proposti rimangono segreti per 50 anni. Entro la fine di aprile il Comitato per il Nobel Norvegese, assieme ad esperti internazionali, esamina ciascuna proposta sino a raggiungere una lista di 20-30 candidati da cui, all’inizio di ottobre verrà annunciato il vincitore (o i vincitori, sino ad un massimo di tre) che verrà premiato il 10 dicembre con un premio di 870.000 euro. Quest’anno sono giunte 331 candidature (216 individuali e 115 organizzazioni). «Sino al 1960 tutti i premi sono stati assegnati a personalità del mondo occidentale» spiega Niccolò; «Il primo Nobel per la pace assegnato ad un africano fu dato a Albert John Lutuli, presidente dell’African National Congress. È stata questa la svolta che ha portato il Premio Nobel a divenire un premio veramente di portata mondiale». Il prestigio che accompagna il premio ha reso sempre più difficile il lavoro dei cinque componenti del comitato che si trova quasi ogni anno a dover scartare decine di curriculum che potrebbero soddisfare le richieste fatte dal fondatore. Il comitato, ad esempio, non assegnò mai il Nobel a Gandhi, «la più grande omissione nei nostri 106 anni di storia» ebbe a dire nel 2006 Geir Lundestad, allora direttore dell’Istituto Nobel Norvegese.

Ma non sono tanto le candidature scartate a sollevare polemiche, quanto la scelta finale, spesso dettata da ragioni chiaramente politiche. Il premio dato ‘sulla fiducia’ ad Obama nel 2009, ad esempio, è stato uno dei più contestati e, alla fine, l’ennesima dimostrazione di quanto fragile sia l’obiettività e la lungimiranza del comitato per il Nobel. Così come quello dato nel 1989 al Dalai Lama, un chiaro monito inviato a Pechino contro la repressione di Tienanmen o quello, altrettanto contestato, concesso nel 1973 a Henry Kissinger e a le Duc Tho, rifiutato da quest’ultimo in polemica per le continue violazioni del trattato compiute dal governo Sud Vietnam con l’appoggio statunitense. L’attribuzione del premio a Arafat, Peres e Rabin nel 1994 portò alle clamorose dimissioni dal Comitato per il Nobel di Kåre Kristiansen in protesta con il conferimento della laurea a Arafat, considerato da Kristiansen un terrorista.

Non mancano premi Nobel contraddittori, come quello assegnato nel 2017 all’ICAN (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari) preceduto, nel 2005, da quello conferito all’IAEA, l’Agenzia internazionale per l’energia nucleare. Un’altra grave limitazione è che il Premio Nobel per la Pace, una volta concesso, non può più essere revocato; la valutazione fatta dal comitato si limita sino al conferimento del premio. Non c’è nessuna clausola che obblighi il laureato a continuare il processo etico e morale che lo ha reso degno della fiducia. Le 400.000 firme che, nel settembre 2017 hanno chiesto al Comitato del Nobel di revocare il premio conferito nel 1991 ad Aung San Suu Kyi per la sua responsabilità delle violenze nei confronti dei rohingya e dei kachin in Myanmar, rimarranno quindi lettera morta.

Per contro, il comitato ha dato anche importanti segnali di solidarietà a nascenti movimenti di protesta o a singole personalità del mondo della cultura. Nel 1996 il vescovo di Dili, Carlos Felice Ximenes Belo e il rappresentante del Fretilin José Ramos-Horta ebbero l’ambito riconoscimento che aiutò il movimento nazionalista est timorese a raggiungere l’indipendenza, mentre nel 2010 fu lo scrittore Liu Xiaobo, co-autore della Carta 08, ad essere premiato suscitando, ancora una volta, le vivaci proteste del governo cinese che arrivò a minacciare di rompere le relazioni diplomatiche con la Norvegia. Importante, e anche uno dei pochi premi che han trovato ampio consenso internazionale, la scelta caduta nel 2014, sulla diciassettenne Malala Yousafzai, la più giovane laureata della storia del Nobel, e Kailash Satyarthi «per la loro battaglia contro lo sfruttamento dei bambini e il loro diritto di avere un’istruzione». Ed è forse questo il principale compito del premio Nobel per lapace: dare una speranza concreta al futuro di chi ha perso la fiducia nel proprio domani.

da Avvenire

Il caso. Olanda, multa a chi parla al cellulare in bicicletta

Olanda, multa a chi parla al cellulare in bicicletta

Arriva in Olanda il divieto di utilizzare il cellulare alla guida della bicicletta. La legge, che entrerà in vigore il prossimo luglio, estende l’attuale divieto dei veicoli anche alle due ruote, molto diffuse nei Paesi Bassi.
Secondo il ministro dei trasporti olandese, Cora van Nieuwenhuizen, la legge si era necessaria perché l’avvento dei social media e del traffico dati illimitato ha cambiato il modo in cui le persone utilizzano gli smartphone e il tempo trascorso.

I ciclisti erano stati esclusi dal divieto iniziale a causa della loro bassa velocità, ha spiegato al Guardian Van Niewenhuizen. “Ma in effetti, usare un telefono è pericoloso tanto quanto in una macchina” ha aggiunto. “Il fatto è che ogni volta che sei in viaggio devi prestare la massima attenzione e non fare assolutamente nulla al telefono”.

da Avvenire

XXVI Domenica Tempo ordinario – Anno B. Il Vangelo. Se tutto il Vangelo sta in un bicchiere d’acqua.

XXVI Domenica
Tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile». […]

Maestro, quell’uomo guariva e liberava, ma non era dei nostri, non era in regola, e noi glielo abbiamo impedito. Come se dicessero: i malati non sono un problema nostro, si arrangino, prima le regole. I miracoli, la salute, la libertà, il dolore dell’uomo possono attendere.
Non era, non sono dei nostri. Tutti lo ripetono: gli apostoli di allora, i partiti, le chiese, le nazioni, i sovranisti. Separano. Invece noi vogliamo seguire Gesù, l’uomo senza barriere, il cui progetto si riassume in una sola parola “comunione con tutto ciò che vive”: non glielo impedite, perché chi non è contro di noi è per noi. Chiunque aiuta il mondo a fiorire è dei nostri. Chiunque trasmette libertà è mio discepolo. Si può essere uomini che incarnano sogni di Vangelo senza essere cristiani, perché il regno di Dio è più vasto e più profondo di tutte le nostre istituzioni messe insieme.
È bello vedere che per Gesù la prova ultima della bontà della fede sta nella sua capacità di trasmettere e custodire umanità, gioia, pienezza di vita. Questo ci pone tutti, serenamente e gioiosamente, accanto a tanti uomini e donne, diversamente credenti o non credenti, che però hanno a cuore la vita e si appassionano per essa, e sono capaci di fare miracoli per far nascere un sorriso sul volto di qualcuno. Stare accanto a loro, sognando la vita insieme (Evangelii gaudium).
Gesù invita i suoi a passare dalla contrapposizione ideologica alla proposta gioiosa, disarmata, fidente del Vangelo. A imparare a godere del bene del mondo, da chiunque sia fatto; a gustare le buone notizie, bellezza e giustizia, da dovunque vengano. A sentire come dato a noi il sorso di vita regalato a qualcuno: chiunque vi darà un bicchiere d’acqua non perderà la sua ricompensa. Chiunque, e non ci sono clausole, appartenenze, condizioni. La vera distinzione non è tra chi va in chiesa e chi non ci va, ma tra chi si ferma accanto all’uomo bastonato dai briganti, si china, versa olio e vino, e chi invece tira dritto.
Un bicchiere d’acqua, il quasi niente, una cosa così povera che tutti hanno in casa.
Gesù semplifica la vita: tutto il Vangelo in un bicchiere d’acqua. Di fronte all’invasività del male, Gesù conforta: al male contrapponi il tuo bicchiere d’acqua; e poi fidati: il peggio non prevarrà.
Se il tuo occhio, se la tua mano ti scandalizzano, tagliali… metafore incisive per dire la serietà con cui si deve aver cura di non sbagliare la vita e per riproporre il sogno di un mondo dove le mani sanno solo donare e i piedi andare incontro al fratello, un mondo dove fioriscono occhi più luminosi del giorno, dove tutti sono dei nostri, tutti amici della vita, e, proprio per questo, tutti secondo il cuore di Dio.
(Letture: Numeri 11,25-29; Salmo 18; Giacomo 5,1-6; Marco 9,38-43.45.47-48)

da Avvenire

 

Insegnare, passione e compassione che non finiscono mai (e da riconoscere)

da Avvenire

Gentile direttore,

sono una insegnante in pensione dal 1999 e dal 2001, come volontaria, mi occupo di alfabetizzazione presso la Casa circondariale di Vercelli. Da qualche anno porto “Avvenire” ai miei “ragazzi” (che sono tutti detenuti) e particolarmente il supplemento “Popotus”, molto gradito proprio perché è semplice, specialmente per i bambini, e i miei ragazzi sono ancora bambini. Alcuni non sono mai andati a scuola, altri non conoscono neanche l’italiano, visto che l’80 per cento dei miei ragazzi è straniero. Mercoledì è il giorno che dedico loro. Lo faccio tutto l’anno, perché non esistono le vacanze estive e i miei ragazzi hanno un turnover vivacissimo: mi pare di tornare alle pluriclassi di lontana memoria… Io insegno italiano, la lingua musicale più bella del mondo. L’unico materiale didattico è una lavagna con i pennarelli cancellabili (lavagna acquistata dalla mia associazione di volontariato, l’Avulss) che uso e faccio usare dai ragazzi. Loro vengono a scuola a mani nude, il carcere non fornisce nulla! È dunque naturale che io acquisti i quaderni, le penne, matite… e le caramelle! Cerco di fare tutto con passione e per compassione, e con i miei ragazzi (che hanno tra i 25 e i 35 anni) sto bene. Vi sono molto riconoscente per il lavoro che fate con “Avvenire” e auguro a lei, direttore, e a tutta la Redazione pace e bene.

maestra Pinuccia (Giuseppina Giara) Vercelli

Dedico la sua lettera, cara maestra Pinuccia, a tutti quelli che sanno e non dimenticano quanto prezioso e speciale sia il mestiere degli insegnanti e che si rendono conto di come una simile “vocazione” non finisca mai. Ma la dedico anche a tutti quelli che senso, bellezza ed essenzialità di questo lavoro non li capiscono e non li valorizzano come meritano. Ce ne sono, purtroppo: tra quelli che alzano le mani o anche solo la voce con gli insegnanti dei figli, ma anche e soprattutto tra quanti fanno le leggi e governano e in questi decenni hanno mortificato o lasciato mortificare il ruolo e il servizio reso da professori e maestri. Una scelta doppiamente autolesionista verso le nuove generazioni di italiani e verso le generazioni di nuovi italiani, coloro cioè che sono arrivati a vivere tra noi da altri Paesi e da altre culture e che in troppi casi, negli ultimi anni, sono stati lasciati ai margini e spinti nelle mani di malviventi (sino a diventarlo, in non pochi casi, più o meno gravemente, essi stessi) da norme sbagliate e propagande cattive invece di essere rispettati e messi alla prova come persone e perciò tenuti nel cono di luce della legge e della trasmissione della nostra cultura, dei nostri valori, delle consuetudini sociali della nostra gente. Legge, lingua e cultura, lavoro utile e reciproco rispetto: questa è la via dell’accoglienza e della sana inclusione. Il suo “lavoro dopo il lavoro di una vita” è una generosa dimostrazione di dedizione a una giusta causa. Ed è la dimostrazione che molto spesso, così tanto spesso da sembrare una regola non scritta, per un insegnante andare in pensione significa semplicemente continuare, in condizioni diverse, a istruire e a educare al buono, al bello e al vero. Avviene – come nel suo caso – in carcere, e avviene in case famiglia, in parrocchia, in oratorio, in scuole popolari, in centri di accoglienza per profughi e immigrati, in case di cura… L’ho imparato sin da bambino vivendo accanto a mia madre, maestra come lei, e a mio padre, un pedagogista che è stato professore di filosofia e preside, e condividendo le esperienze di amiche e amici che del “fare scuola” hanno fatto una vera e propria missione, vissuta – voglio usare le sue parole, gentile maestra – «con passione e per compassione». Cioè mettendoci se stessi, sino in fondo, e mettendosi nei panni degli altri con tutta l’anima e con apertura di testa e di cuore. Grazie per quel che fa e per l’affetto e l’apprezzamento che riserva al nostro lavoro qui ad “Avvenire” e nel nostro straordinario inserto, il giornale d’attualità per bambini “Popotus”. Ricambio con gioia il suo augurio francescano, così caro e familiare anche per me: pace e bene.

Incontro. Francesco: la pastorale si apra anche alle coppie di conviventi

Il Papa con coppie di sposi in piazza San Pietro (Osservatore Romano)Avvenire

Il Papa con coppie di sposi in piazza San Pietro (Osservatore Romano)

Per il matrimonio serve un catecumenato permanente, cioè un accompagnamento senza interruzione, ben strutturato, che riguardi la preparazione, la celebrazione e i tempi successivi. Ad occuparsene dovranno essere i sacerdoti e, in misura diversa, l’intera comunità.

Ma non bisogna dimenticare che gli ambiti della pastorale familiare sono sempre più vasti e non possono non comprendere, incontrare ed accogliere, «assumendo lo stile proprio del Vangelo», anche quei giovani – e meno giovani – «che scelgono di convivere senza sposarsi».

L’ha spiegato oggi Francesco a San Giovanni in Laterano dove ha rivolto un discorso (QUI IL TESTO COMPLETO) ai parroci, ai diaconi permanenti, agli sposi e agli operatori di pastorale familiare che hanno preso parte al corso di formazione promosso dalla diocesi di Roma e dalla Rota Romana su “matrimonio e famiglia”. Il Papa, dopo aver ricordato di aver sviluppato con ampiezza il tema nell’Amoris laetitia, ha auspicato un rinnovamento dei percorsi di preparazione al matrimonio, rallegrandosi con quelle comunità che, dopo la pubblicazione dell’Esortazione postsinodale, hanno rinnovato la loro proposta.

«È importante – ha detto – offrire ai fidanzati la possibilità di partecipare a seminari e ritiri di preghiera, che coinvolgano come animatori, oltre ai sacerdoti, anche coppie sposate di consolidata esperienza familiare ed esperti di discipline psicologiche». Importante perché oggi troppi giovani, di fronte alle prime difficoltà, evidenziano fragilità «da ricercare non solo in una immaturità nascosta e remota esplosa improvvisamente, ma soprattutto nella debolezza della fede cristiana e nel mancato accompagnamento ecclesiale».

Un vuoto pastorale che determina in alcuni giovani una tardiva presa di consapevolezza tanto che, «quando si rendono conto di non aver compreso pienamente quello che andavano ad iniziare», scoprono paure e inadeguatezze che determinano la crisi della relazione. Per questo Francesco ha ribadito con forza la necessità «di un catecumenato permanente per il sacramento del matrimonio che riguarda la sua preparazione, la celebrazione e i primi tempi successivi». Con un cammino condiviso tra «sacerdoti, operatori pastorali e sposi cristiani».

Un impegno pastorale considerevole che dovrà essere assunto come impegno stabile e strutturale da parte delle comunità. Il Papa ha anche spiegato quali dovranno essere i contenuti di questa preparazione continua (va ripresa la catechesi dell’iniziazione cristiana perché «il più delle volte il messaggio cristiano è tutto da scoprire») e quali dovranno essere le modalità dei percorsi (sincero atteggiamento di accoglienza, linguaggio adeguato, presentazione chiara dei contenuti).

Ma dopo i primi anni di matrimonio, di fronte a giovani che «sperimentano seri problemi nella loro relazione», occorre offrire «indicazioni adeguate per intraprendere il processo di nullità» grazie alla normativa del nuovo processo matrimoniale che richiede di «essere applicato concretamente e indistintamente» per la salvezza delle anime.

Otto promesse di felicità

La felicità inattesa

settimananews

Dopo aver insegnato alle folle della Galilea e dei dintorni che accorrevano a lui e dopo aver guarito molti malati (Mt 4,25), Gesù sale sul monte e proclama il Discorso della montagna (Mt 5–7). Egli è ben più di Mosè: è il plenipotenziario della volontà di Dio.

Grande portale del suo discorso è il proclama delle beatitudini. Otto promesse (ampliate da una nona) di felicità inattesa, divina, paradossale, sovrumana. Facendo venire il Regno, Gesù inaugura la vicinanza insuperabile di Dio agli uomini e la creazione di un mondo nuovo.

Le beatitudini sono la promessa motivata che coloro che accolgono la proposta di Gesù, la sua persona, potranno vivere fin d’ora una vita nuova, una pienezza di umanità che avrà il suo compimento nel Regno definitivo.

Le beatitudini sono il ritratto di Gesù, che le ha vissute per primo, e il ritratto anche del Padre che lo ha mandato. Sono una promessa e insieme un compito, che è possibile realizzare con lo Spirito di Gesù, il quale, come Risorto, rimane in mezzo alla sua comunità. Viverne una, significa viverle tutte. Esse sono interdipendenti e offrono una strada per tutti i gusti spirituali.

Philippe appartiene come presbitero dal 1985 alla Comunità delle beatitudini, dopo studi ed esperienze di carattere scientifico (laurea in matematica) e una permanenza in Israele che gli ha permesso di imparare le lingue e di gustare la Terra del Santo. L’uomo giusto per commentare le beatitudini… La sua è una riflessione sapienziale, frutto di una lunga esperienza di direzione spirituale e di predicazione, connotata dalla spiritualità carmelitana.

La prima beatitudine, che promette il regno ai poveri di spirito è lungamente commentata dall’autore, pp. 21-64), in quanto dà il tono e comprende in nuce anche le altre.

I caposaldi del pensiero di Philippe sono la certezza che Dio ama gli uomini di un amore fedele in Gesù e cerca la loro felicità, “inattesa” dalle loro prospettive. Se, nella preghiera, nella fede e nell’accoglienza della parola di Dio l’uomo si apre nella preghiera alla volontà di Dio, potrà trovare la pace e la serenità anche nelle prove. Le ferite e i peccati ci saranno sempre, ma la fiducia e l’abbandono a Dio fanno accogliere tutto da lui, donando pace e umanità piena.

Le beatitudini donano e chiamano personalmente e comunitariamente ad un cammino di lavorio su di sé che porti ad una conversione profonda di convincimenti e di atteggiamenti, in modo che la mitezza vinca la durezza, la rigidità e la paura; l’apertura a Dio farà superare l’egoismo e la chiusura in se stessi. La sete e la fame della giustizia di Dio si saziano nell’uomo nell’accoglienza del suo amore salvifico misconosciuto e portano a superare la violenza della difesa a oltranza delle proprie opinioni e paure.

Le lacrime di pianto da cui i discepoli di Gesù saranno consolati sono quelle dovute al proprio peccato, al rifiuto di Dio nel mondo degli uomini, quelle dovute alla sofferenze e alle ingiustizie umane. Il dono delle lacrime è il più grande dei doni nella vita spirituale per il mondo orientale.

Il coraggio del perdono e della grandezza di cuore svelenisce la rabbia presente nei cuori e nelle relazioni umane. Spezza il circolo vizioso della moltiplicazione della vendetta e della violenza. Gesù dona e chiama alla purezza del cuore, alla sua unità anche nelle prove, alla sua “unificazione” (cf. Sal 86,11: «rendi unito il mio cuore», tr. lett.).

Philippe vede alla radice delle beatitudini – come dono e compito – la fede nell’amore di Dio per gli uomini, la preghiera, l’accoglienza serena del reale, l’accompagnamento spirituale, il non spaventarsi delle proprie fragilità e dei propri peccati, con la massima fiducia nell’amore del “buon Dio”.

Vari brani di santa Teresa di Lisieux impreziosiscono il testo di questo grande maestro di vita spirituale, che anche con questo libro offrirà molto aiuto e pace a tanti cuori che cercano la vita evangelica e la serenità incrollabile che la fede e l’amore per Gesù portano con sé. Il tono pacato, interpellante, equilibrato e sereno rende la lettura consolante, pur rimanendo esigente nel contenuto.

Il cuore deve identificare il suo desiderio fondamentale, scegliere e unificare ogni cosa attorno ad esso. Philippe suggerisce che l’unico desiderio unificante deve essere quello della santità, e io «non voglio essere una santa a metà» (Teresa di Lisieux, Manoscritto A, 10, v. 91)

Jacques Philippe, La felicità inattesa. Meditazione sulle beatitudini(Itinerari. Collana di spiritualità. Dottrina Esperienze Testimonianze s.n.), EDB, Bologna 2018 (or. franc. Burtin 2017), pp. 176, €14,50.9788810513682

Memoria del beato Paolo VI

Ci sono diversi motivi per valorizzare questa quarta memoria liturgica del beato Paolo VI (fissata nel ricordo della sua nascita terrena nel 1897 a Concesio di Brescia): siamo nell’anno 40° della sua nascita al cielo e, com’è noto, sarà canonizzato la domenica 14 ottobre in Piazza San Pietro, insieme ad Oscar Romero e ad altri Beati. Manca meno di un mese ed è opportuno cominciare a scaldare… il cuore e la mente, per poter accogliere questo dono di rinnovamento spirituale per tutta la Chiesa!

Inoltre, esattamente tra una settimana, il mercoledì 3 ottobre inizierà il Sinodo dei Vescovi sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale (una novità la data, di solito si iniziava di domenica!). I Sinodi sono stati istituiti da Paolo VI il 15 settembre 1965. E il 15 settembre scorso, Papa Francesco ha promulgato la Costituzione apostolica sui Sinodi, perché diventino sempre più “segno e strumento” di comunione episcopale e di ascolto del Popolo di Dio.

Nel 2014, dopo la beatificazione di Montini-Paolo VI, la Congregazione del Culto ha stabilito che il 26 settembre si possa celebrare come memoria facoltativa (per un beato non si può fare memoria obbligatoria!) nella Diocesi di Brescia, dove è nato, e nella Diocesi di Roma, dove è stato Vescovo e pastore della Chiesa universale per 15 anni (la Diocesi di Milano, dove Montini è stato arcivescovo dal 1955 al 1963, ha ottenuto di poter celebrare Paolo VI il 30 maggio, memoria del giorno della sua prima Messa, in previsione di renderla memoria obbligatoria dopo la canonizzazione, cosa che non si potrà fare nel Calendario romano perché il 26 settembre c’è già la memoria facoltativa peraltro secolare dei Santi fratelli e martiri Cosma e Damiano; ma non dobbiamo stupirci, anche per i Santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, sono state stabilite solo memorie facoltative!). La Congregazione inoltre ha pubblicato solo la Colletta, come si fa per i beati, indicando che le altre orazioni si prendono dal Comune dei Pastori.

Come Ufficio Liturgico, oltre ai testi della Messa (dal Comune dei Pastori, appunto), si mettono a disposizione i testi della Liturgia delle Ore pensati appositamente per la memoria di questo grande Papa. Si trova anche un Rosario meditato con un’omelia di Paolo VI ai giovani nella Messa delle Palme.

LODI

MEMORIA LITURGICA

ROSARIO

VESPRI

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