Il progetto. Impariamo a guidare “verde”: ecco l’Ecopatente

Impariamo a guidare “verde”: ecco l'Ecopatente

Forte della partecipazione di 81mila ragazzi in otto anni, è partita la nona edizione di Ecopatente, un percorso formativo gratuito che punta a insegnare ai giovani e ai “neopatentandi” una guida sicura e rispettosa dell’ambiente, che quindi permetta loro di condurre l’auto con attenzione ai consumi, a tutto vantaggio del proprio budget. Si tratta di conoscenze che all’atto pratico permettono di gestire il veicolo in modo che produca meno emissioni inquinanti possibili, fattore che assume maggior rilievo se si considerano gli attuali problemi sulla qualità dell’aria, particolarmente sentiti in Lombardia, regione che ha dato il patrocinio all’iniziativa.

Non è quindi un caso se gli organizzatori della NeWays abbiano scelto proprio Palazzo Pirelli, sede della Giunta lombarda, per presentare l’edizione 2018-19 che interesserà 500 scuole superiori e 500 autoscuole del Paese. Si tratta di realtà aderenti a Confarca (Confederazione Autoscuole Riunite e Consulenti Automobilistici) eUnasca (Unione Nazionale Autoscuole e Studi di Consulenza automobilistica): il 44,6% al Nord del Paese, il 26,4%, il 16,7% al Centro al Sud e il 12,3% nelle Isole, con Brescia che è la provincia in prima posizione per adesione, davanti a Torino, Bari e Foggia. Tra le novità di quest’anno da segnalare l’introduzione di nuove tematiche di approfondimento: dispositivi elettronici di sicurezza, conoscenza e corretta manutenzione degli pneumatici e “Guida accompagnata”, che permette anche ai diciassettenni in possesso della patente A1 di condurre l’auto con accanto una persona esperta.

Alla presentazione del progetto nazionale, che permette agli studenti di acquisire crediti formativi, c’era con gli organizzatori e con alcuni rappresentanti di settore, anche Raffaele Cattaneo, assessore lombardo all’Ambiente e al Clima che ha sottolineato la coincidenza degli intenti di Ecopatente con la politica regionale che «privilegia ai divieti un sistema di incentivi che aiuti i cittadini a fare scelte sempre più sostenibili a favore dell’ambiente. La riduzione delle emissioni provocate dal traffico – ha detto – è uno degli obiettivi primari di Regione Lombardia per favorire il miglioramento dell’aria che respiriamo. E’ importante – ha concluso Cattaneo – mettere al centro la consapevolezza che una mobilità più sostenibile parte anche dall’educazione dei più giovani».

Per Citroen Italia è intervenuto Luciano Ciabatti, direttore marketing: «Condividiamo il principio – ha detto – di sensibilizzare i futuri automobilisti su tematiche estremamente attuali e importanti quali la sostenibilità ambientale e la sicurezza, argomenti che ci sono molto a cuore, come evidenzia il fatto che tutti i nostri modelli sono omologati secondo il protocollo WLTP, più severo e più vicino alle condizioni reali di utilizzo del cliente».

Un plauso a Ecopatente è arrivato, poi, dai rappresentanti delle Autoscuole. Claudio Martini, segretario nazionale delle aderenti a Confarca ha evidenziato: «Insieme al corso tradizionale di preparazione al conseguimento della patente, a tantissimi giovani sono state impartite delle lezioni di mobilità ecosostenibile, basate su principi come la sicurezza stradale, la tutela dell’ambiente e il risparmio energetico quando si è alla guida di un veicolo. Questo è uno dei nostri obiettivi principali e che contraddistinguono i titolari delle nostre autoscuole. Per questo abbiamo rinnovato la partecipazione ad Ecopatente, progetto che riteniamo fondamentale per la diffusione di un corretto stile di guida».

Cesare Galbiati, componente della segreteria nazionale di Unasca settore autoscuole, ha ribadito: «Una guida consapevole è una guida sicura ed ecologica. Questo tema resta sempre significativo nel mondo della mobilità. Non si tratta solo di caratteristiche tecniche dei motori: un conducente lucido e responsabile avrà uno stile di guida più attento, meno sottoposto a stress e quindi più ecologico. Non solo, significa anche una guida più sicura. Ben vengano, quindi, le iniziative come questa nona edizione di Ecopatente, che vanno nella direzione della riduzione dell’impatto ambientale dei veicoli e della sicurezza stradale. Le autoscuole, che sono gli istituti di formazione dei conducenti, sono il luogo ideale per creare questa consapevolezza nei patentandi. Il progetto Ecopatente li trasformerà in ecopatentati. Ecco perché UNASCA sposa dal 2011 il percorso formativo Ecopatente e tutte le iniziative che vanno in questa direzione».

da Avvenire

«Temptation Island». Gli amori finti dei vip

In Temptation island si è sempre avvertito qualcosa di falso. Non tutto, ovviamente. Un briciolo di verità in un reality non si nega a nessuno. Ma in Temptation island vip (il lunedì su Canale 5) è tutto ancora più falso. Certo alle dive, vere o presunte, va dato spazio. Ma Valeria Marini, la più vip di tutti, se n’approfitta. È lei che si è presa subito la scena e gli autori sono stati al gioco, tenendo conto che è tutto registrato e poi montato. La prima novità di questa versione, a distanza di poche settimane da quella con gli sconosciuti, è appunto la presenza di volti noti anche se poi, guardandoli in faccia, ti accorgi che i veri famosi sono un paio. Altri sono lì perché hanno lo stesso cognome del padre, altri ancora perché arrivano diretti da Uomini e donne e quindi dal giro di Maria De Filippi che è anche l’ideatrice e la produttrice delle varie Temptation. La seconda novità è la conduzione di Simona Ventura che, guarda caso, trova tra i concorrenti l’ex marito Stefano Bettarini con l’attuale fidanzata che ha la metà esatta dei suoi anni tanto che potrebbe esserne il padre. Dando spazio ai vip è infatti salita anche l’età media delle coppie alcune delle quali hanno divorzi alle spalle e figli a casa. All’inizio del reality erano non sposate e senza prole. Ma “the show must go on”, lo spettacolo deve andare avanti, anche nelle situazioni. La speranza è che ai figli a casa venga risparmiato di vedere come si riducono i loro genitori in cattività in mezzo a ragazze prosperose e a uomini con i pettorali da culturista. Eh sì, perché la formula è la stessa. Sei coppie di fidanzati vengono portate in un relais dove vivono separate per una ventina di giorni. Gli uomini soggiornano con giovani donne single. Altrettanto fanno le sei donne con uomini ugualmente single, almeno si dice. In realtà sono lì per lavorare e avere un’occasione in tv. A parte questo, ogni tanto ai dodici protagonisti viene fatto vedere come si sono comportati i loro partner di fronte alle “tentazioni”. Al suono di “Spia il tuo amore, ma ascolta il tuo cuore”, quello che viene fuori è immaginabile e ha poco a che fare con l’amore, quello vero, che per essere provato non ha bisogno di essere gettato in pasto a telespettatori vogliosi di farsi gli affari degli altri. Unica consolazione: ascolti inferiori al previsto.

Avvenire

Calcio. Padroni e presidenti: il vero totem del pallone

Padroni e presidenti: il vero totem del pallone

Porto sicuro, interesse, immagine. Potere. Se si vuole di romanticismo, passione, anche. I perché di una insistenza, di una volontà di esserci ancora e sempre che esprime il club dei nomi grossi di un calcio italiano agganciato ancora al secolo passato, agli anni che iniziano con il numero uno. Starne fuori, missione impossibile: ecco dunque che, siano istituzionali o private, le poltrone senza un proprietario sono calamite irresistibili per i naviganti navigati, a cominciare da quella teoricamente più importante, da quella della presidenza della repubblica calcistica, la Federazione. La Figc in scadenza di commissariamento che avrebbe forse già avuto un destino scritto se una legge approvata a inizio anno sui mandati del Coni e delle federazioni sportive – che stabilisce l’incandidabilità dopo tre mandati – non impedisse la nuova ascesa di Giancarlo Abete, entrato nei palazzi di Via Allegri nel 1989, autoaffondatosi dopo sette anni di governo in occasione del fallimento azzurro al Mondiale brasiliano.

Lo volevano l’Associazione Calciatori di Tommasi, gli arbitri, lo volevano le sempiterne Lega Dilettanti e Lega Pro, eterni snodi del potere federale. Non lo voleva invece il presidente del Coni e fresco ex-commissario di Lega AGiovanni Malagò, che con l’appoggio del governo centrale (specie l’anima leghista), vuole il supermanager al vertice della piramide del pallone: Giuseppe Marotta, Re Mida di questi felici anni juventini. L’ a.d. della famiglia Elkann è saldamente alla guida, lui sì che è tutto meno che alla ricerca di un centro di gravità permanente. Certo, la sfida potrebbe essere affascinante per uno cresciuto nel calcio, che nel 1981 – aveva 24 anni – aveva già costruito il Varese di Fascetti, il “casino organizzato” che andò a un passo dalla Serie A.

L’eventuale sì di Marotta alla Figc sarebbe sicuramente studiato e pilotato con la proprietà bianconera, che con il presidente Andrea Agnelli a capo dell’Eca (l’associazione europea dei club) e il suo fresco ex capo della dirigenza alla guida del calcio italiano si ritroverebbe in una posizione raggiunta solo anni addietro dal Milan. Anno 2002 e seguenti, Adriano Galliani presidente della Lega Calcio e Silvio Berlusconi presidente del Consiglio, uno strapotere “corollato” da quello del campo, con la squadra guidata da Ancelotti capace di vincere in Italia e in Europa. Galliani e Berlusconi, inscindibili, usciti insieme dal palcoscenico nell’aprile 2017 e insieme già pronti a rientrare da una porta a sorpresa, ma non troppo, piccola, ma vicina a casa e al cuore. Il Monza e a Monza sognano, l’accordo del duo che ha fatto la storia rossonera (e del calcio italiano) con il proprietario Nicola Colombo – figlio di Felice, presidente del Milan della Stella – è cosa fatta: il presidente biancorosso ha confermato ieri di voler cedere il 95% del club a Berlusconi.

La macchina del tempo può tornare in fondo agli anni ’70, quando il dirigente (e in seguito vicepresidente) Galliani, geometra e imprenditore, cercava di portare la piccola società del giardino di casa nell’Olimpo apparentemente irraggiungibile della Serie A. Una volontà ribadita, nuovamente, anche pochi giorni fa, alla faccia delle leggi del tempo e – forse – di dinamiche del calcio che sono completamente cambiate anche per due come loro, che di questo cambiamento sono alla radice. Qualcuno ha ironizzato, il Milan non ha portato avanti il progetto della “squadra B” e ora ecco il Monza dell’eterno presidentissimo; battuta, illazione, fondo di verità, chissà. Quello che è certo e che due club li posseggono sul serio Claudio Lotito e Aurelio De Laurentiis, e la Salernitana di Lotito vive in Serie B, alle porte del campionato in cui gioca la Lazio. E nel caso? E se i granata della Campania trovassero il guizzo buono, l’anno perfetto? Come non detto, niente A, a meno che l’iperattivo imprenditore romano decida di venderla seduta stante.

Un problema non da poco che tuttavia sognano – ma solo in questi giorni non facili – anche i tanti tifosi del Bari, stella di un campionato ufficialmente dilettantistico, la Serie D in scena al San Nicola che ha ospitato una finale di Coppa Campioni, il Mondiale, bizzeffe di Juventus, Milan, Inter. Di Napoli che passa da rivale di campanile a fratello maggiore, a punto di riferimento. De Laurentiis pensa in grande, a una rincorsa in tempi brevi che passa dai pro e contro di una piazza troppo grande, troppo importante per essere poi mantenuta come una sorta di succursale in caso – probabile – di rapida risalita.

E il bello è che prima del magnate del cinema, la porta dei biancorossi pugliesi era stata socchiusa da un altro imprenditore, importante, facoltoso, appassionato. Ma anch’egli uomo di un calcio fa: Massimo Moratti. Ci ha pensato, la voglia lo ha sfiorato, lo ha confessato al Giornale pochi giorni or sono, in tempo utile è riaffiorata la razionalità sommersa, nei lunghi anni interisti, dalle ragioni del cuore. Quelle che i nuovi ricchi italiani, se ne esistono, hanno silenziato sul nascere. Cercansi dirigenti nuovi, volti diversi: e nel frattempo, forse Zamparini sta vendendo il Palermo. A 77 anni, e due società dopo, attenzione a un altro totem del pallone che non si sgonfia mai.

Avvenire

Cinema. Con «Sette miracoli» il Vangelo diventa realtà virtuale

Con «Sette miracoli» il Vangelo diventa realtà virtuale

Vi è mai capitato di immaginare cosa avreste provato se vi foste trovati vicino a Gesù durante la moltiplicazione dei pani e dei pesci o seduti ad un tavolo alle nozze di Cana o, ancora, nel sepolcro mentre Lazzaro veniva resuscitato? Ad offrire questa possibilità sarà, il prossimo Natale, 7 Miracles, il film girato in realtà virtuale che, per la prima volta, permetterà allo spettatore di immergersi a trecentosessanta gradi nel Vangelo di San Giovanni. O, meglio, nei sette miracoli di Gesù raccontati dall’apostolo evangelista.

Frutto di una coproduzione italo-americana, 7 Miracles è il primo prodotto realizzato in Italia da Vive Studios, il braccio creativo di HTC Vive (la principale piattaforma di realtà virtuale immersiva al mondo), in collaborazione con Enzo Sisti che, in passato, ha curato la produzione esecutiva de La Passione di Cristo di Mel Gibson. A dirigere7 Miracles sono il brasiliano Rodrigo Cerqueira e l’italiano Marco Spagnoli e il cast è internazionale: ad interpretare Gesù è l’attore serbo Dejan Bucin, san Giovanni ha il volto dell’italiano Lorenzo Balducci così come sono italiani Sara Lazzaro (Marta), Emiliano Coltorti (il cieco), Serena Iansiti (l’adultera) e Niccolò Cancellieri (Pietro). Giuda è il britannico Ben Starr.

Non è la prima volta che viene tentato un esperimento del genere: già due anni fa alla Mostra del Cinema di Venezia fu presentato un lungo trailer di Jesus VR – The story of Christ, che raccontava la vita, la Passione e la morte di Gesù in realtà virtuale. Quel film, però, non è mai uscito e, per questa nuova avventura si è preferito concentrarsi su una sola parte della vita di Gesù. Cioè i sette miracoli che danno il titolo al film, ripercorsi come in un flashback da un san Giovanni molto anziano: «Non ci interessava raccontare una storia, quella di Gesù, che tutti conoscono – spiega Marco Spagnoli che ha anche collaborato alla sceneggiatura – . È un film spirituale, non un film che vuole catechizzare anche se, naturalmente, siamo stati estremamente fedeli al testo limitandoci solo a qualche piccola aggiunta per esigenze narrative. Modificare il Vangelo sarebbe stato blasfemo. L’idea è stata quella di sfruttare la realtà virtuale per far immergere lo spettatore nel Vangelo e dargli la possibilità di seguire Gesù. In questo modo potrà provare la stessa sorpresa degli Apostoli davanti ai miracoli. Oggi è facile dire: “Come facevano certe persone a non credergli?”. Questo film ci porta dentro quella realtà e ci aiuta a comprenderla meglio. Per questo non abbiamo voluto, mi si passi il termine, “distrarre” lo spettatore con la nascita, la Passione o la morte. Grazie alla realtà virtuale – aggiunge Spagnoli – lo spettatore potrà anche scegliere “dove andare”. Potrà seguire Gesù, stargli accanto quando è circondato dalla folla che aspetta di mangiare, ma può anche decidere di seguire uno dei Dodici. Non c’è un punto di vista definito ma c’è quello scelto da chi guarda il film. Tra l’altro sono stati volutamente scelti attori molto alti, il protagonista misura più di un metro e novanta, proprio per aiutare lo spettatore a sentirsi circondato da Gesù e dagli Apostoli».

Curiosamente gli attori non indossano gli abiti dell’epoca ma costumi i cui colori richiamano l’arte rinascimentale: «Il film è stato girato in Italia. Abbiamo voluto restituire l’italianità con costumi ispirati alla rappresentazione pittorica degli artisti del Rinascimento italiano». Le riprese sono durate due setti- mane e si sono svolte tra gli studi romani di Cinecittà e Matera, quest’ultima già location di film come La Passione di Cristo e Ben Hur. Decisamente più lungo il tempo della postproduzione per la quale sono stati necessari nove mesi. Il costo dell’operazione è stato di tre milioni di dollari. A proposito di costi va detto che, per sfruttare al meglio la tecnologia e l’altissima definizione con cui è stato girato, sarà necessario dotarsi dell’apposito visore necessario a “vivere” la realtà virtuale. In occasione della distribuzione mondiale su HTC Vive e su altre piattaforme commerciali VR, i produttori stanno pensando di metterne in commercio un modello a basso costo così che chiunque possa acquistarlo senza difficoltà anche perché il pubblico potenziale è di ben tre miliardi di persone.

Tornando alla storia, 7 Miracles inizia, come abbiamo detto, con san Giovanni ormai vecchio che, all’interno di una grotta, ricorda e racconta i miracoli descritti nel suo Vangelo; e finisce con la cena di Betania quando Gesù è a casa di Lazzaro, Maria cosparge i piedi di Gesù con profumo di nardo e Giuda, tesoriere (disonesto) degli Apostoli, discute con Gesù sostenendo che quel profumo si sarebbe piuttosto potuto vendere e dare il ricavato ai poveri. Grazie alle sue caratteristiche assolutamente innovative, 7 Miracles parteciperà alla 26° edizione del Raindance Film Festival che sta per svolgersi a Londra: «Ci hanno detto che, a dispetto dell’iniziale scetticismo, sono rimasti colpiti dalla novità del punto di vista che offre il film, dalla possibilità di condividere con gli Apostoli la loro esperienza» conclude Spagnoli mentre il produttore Enzo Sisti dice: «Speriamo che questo progetto, storico per il cinema del nostro Paese e mondiale, possa portare speranza e pace in tutto il mondo per il potente messaggio dell’undicesimo comandamento: “Amatevi gli uni gli altri”».

avvenire

Il Vangelo. Accogliere Dio in un bambino, il segreto della Vergine Maria

XXV Domenica
Tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Gesù mette i dodici, e noi con loro, sotto il giudizio di quel limpidissimo e stravolgente pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti.
Offre di se stesso tre definizioni, una più contromano dell’altra: ultimo, servitore, bambino.
Chi è il più grande? Di questo avevano discusso lungo la via. Ed ecco il modo magistrale di Gesù di gestire le relazioni: non rimprovera i suoi, non li giudica, non li accusa, pensa invece ad una strategia per educarli ancora. E lo fa con un gesto inedito: un abbraccio a un bambino. Il Vangelo in un abbraccio, che apre una intera rivelazione: Dio è così, più che onni-potente, onni-abbracciante (K. Jaspers).
Gesù mette al centro non se stesso, ma il più inerme e disarmato, il più indifeso e senza diritti, il più debole, il più amato, un bambino. Se non diventerete come bambini… Gesù ci disarma e sguinzaglia il nostro lato giocoso, fanciullesco. Arrendersi all’infanzia è arrendersi al cuore e al sorriso, accettare di lasciare la propria mano in quella dell’altro, abbandonarsi senza riserve (C. Cayol). Proporre il bambino come modello del credente è far entrare nella religione l’inedito. Cosa sa un bambino? La tenerezza degli abbracci, l’emozione delle corse, il vento sul viso… Non sa di filosofia né di leggi. Ma conosce come nessuno la fiducia, e si affida. Gesù ci propone un bambino come padre, nel nostro cammino di fede. «Il bambino è il padre dell’uomo» (Wordsworth). I bambini danno ordini al futuro.
E aggiunge: Chi lo accoglie, accoglie me! fa un passo avanti, enorme e stupefacente: indica il bambino come sua immagine. Dio come un bambino! Vertigine del pensiero. Il Re dei re, il Creatore, l’Eterno in un bambino? Se Dio è come un bambino significa che va protetto, accudito, nutrito, aiutato, accolto (E. Hillesum).
Accogliere, verbo che genera il mondo nuovo come Dio lo sogna. Il nostro mondo avrà un futuro buono quando l’accoglienza, tema bruciante oggi su tutti i confini d’Europa, sarà il nome nuovo della civiltà; quando accogliere o respingere i disperati, i piccoli, che sia alle frontiere o alla porta di casa mia, sarà considerato accogliere o respingere Dio stesso.
A chi è come loro appartiene il regno di Dio. I bambini non sono più buoni degli adulti, sono anche egocentrici, impulsivi e istintivi, a volte persino spietati, ma sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, incuriositi da ciò che porta ogni nuovo giorno, pronti al sorriso quando ancora non hanno smesso di asciugarsi le lacrime, perché si fidano totalmente. Del Padre e della Madre.
Il bambino porta la festa nel quotidiano, è pronto ad aprire la bocca in un sorriso quando ancora non ha smesso di asciugarsi le lacrime. Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino.
Accogliere Dio come un bambino: è un invito a farsi madri, madri di Dio. Il modello di fede allora sarà Maria, la Madre, che nella sua vita non ha fatto probabilmente nient’altro di speciale che questo: accogliere Dio in un bambino. E con questo ha fatto tutto.
(Letture: Sapienza 2,12.17-20; Salmo 53; Giacomo 3,16-4,3; Marco 9,30-37)

da Avvenire

Myanmar. La Corte penale internazionale indagherà sul «genocidio» dei Rohingya

Profughi Rohingya all'arrivo in Bangladesh dal confinante Myanmar (Ansa)

Profughi Rohingya all’arrivo in Bangladesh dal confinante Myanmar (Ansa)

L’esercito birmano, noto con il nome di Tadmadaw, deve «essere rinviato al giudizio di un tribunale internazionale» perché responsabile di utilizzare «inconcepibili livelli di violenza» contro la minoranza musulmana dei Rohingya nel tentativo di espellerla dal Myanmar che non ne riconosce la cittadinanza.
Una responsabilità sottolineata da almeno 10mila morti che, ha indicato lunedì Marzuki Darusman, presidente della Missione di indagine sul Myanmar davanti al Consiglio Onu per i Diritti umani, non può essere giustificato dalle contromisure contro gruppi insurrezionali di etnia Rohingya.

Le affermazioni di Darusman hanno preceduto la presentazione allo stesso Consiglio del Rapporto completo della missione durata 15 mesi: 440 pagine che indicano con chiarezza la volontà dei militari di “attuare il genocidio dei Rohingya” ma non solo, dato che, insieme al caso dello Stato occidentale di Rakhine, dove si situa la persecuzione dei Rohingya costretti alla fuga in 700mila verso il Bangladsh dall’agosto 2017, il Rapporto presenta anche quelli delle aree orientali abitate dalle minoranze Shan e Karen. Popolazioni assimilate da una persecuzione feroce che ha metodi comuni e un comune denominatore negli interessi delle forze armate.

Un elemento sottolineato da Christopher Sidoti, uno degli investigatori autori del Rapporto: «Non ci potrà essere alcuna transizione democratica in Myanmar fino a quando il Tadmadaw non allenterà il controllo sulla politica, sull’economia e sulla Costituzione».
La diffusione del rapporto Onu ha preceduto solo di poche ore l’annuncio del procuratore-capo della Corte di giustizia internazionale, Fatou Bensouda, dell’avvio dell’indagine preliminare sulla deportazione dei Rohingya in Bangladesh.
Unico capo di imputazione possibile, dato che il Myanmar non aderisce allo Statuto di Roma del 1998 che riconosce la giurisdizione della Corte internazionale in reati come genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

avvenire

Manovra. Pensione, si ritorna all’ipotesi dei 65 anni

Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, al lavoro sulla Nota di aggiornamento al Def e sulla Manovra 2019

Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, al lavoro sulla Nota di aggiornamento al Def e sulla Manovra 2019

C’è una base in fermento che inizia a mostrare i primi segni di insofferenza. Perché dopo aver dato ampio credito al M5s con il voto del 4 marzo, a distanza di sei mesi l’elettorato pretende che almeno qualche promessa venga mantenuta e si trasformi in fatti tangibili. «Sui social network siamo inondati di richieste di cittadini che aspettano risposte urgenti», confidano alcuni parlamentari, in particolare quelli eletti al Sud. La sollecitazione numero uno, ovviamente, riguarda l’avvio del reddito di cittadinanza.

È proprio il pressing partito dal territorio a spingere gli attuali capigruppo di Camera e Senato del Movimento, ovvero Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli, a salire a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio per ottenere adeguate garanzie sulla presenza nella manovra economica della misura che sta più a cuore ai 5 Stelle. Rassicurazioni che Giuseppe Conte ha fornito nel corso del confronto. «Il reddito di cittadinanza avrà un impatto significativo sul piano sociale, in modo da alleviare la condizione di tutti coloro che vivono in povertà assoluta», assicura il premier. Ma è evidente che non si fa ancora neanche un passo oltre gli annunci. Senza numeri precisi né coperture certe. Del resto, il livello di tensione con Giovanni Tria resta altissimo.

Anche se il rischio rottura non c’è. «Ognuno tira l’acqua al suo mulino, è il gioco delle parti. Tuttavia non si arriverà allo strappo», è la convinzione di sta assistendo da vicino al braccio di ferro tra il M5s e il Mef. Al ministro dell’Economia, comunque, si ribadisce in modo esplicito – e per il secondo giorno consecutivo – la necessità di trovare le risorse per cominciare a realizzare il programma di governo. Luigi Di Maio, in missione in Cina ma con la testa sulla legge di Bilancio, si raccomanda con i suoi fedelissimi a Roma affinché non cedano di un millimetro. Nel frattempo, il team di esperti economici di M5s e Lega continua a trattare sui contenuti della Finanziaria 2019. I due partiti chiedono la bellezza di quasi 10 miliardi a testa.

Oltre al cavallo di battaglia grillino, infatti, ci sono pure i desiderata del Carroccio da finanziare: dalle agevolazioni per i professionisti fi- no a una fiscalità meno opprimente per le imprese. L’ipotesi al vaglio è quella di dimezzare il pacchetto di interventi per ciascun partito da 10 a 5 miliardi. «La soluzione con il Tesoro si può trovare a metà strada», è il messaggio di apertura che filtra a sera da esponenti di punta del governo.

Nonostante l’indispensabile discesa dell’asticella delle ambizioni gialloverdi, resta il disperato bisogno di risorse fresche da trovare. In quest’ottica rientrano sia l’accelerazione su un provvedimento di pace fiscale – o condono mascherato, a seconda dei punti di vista – sia l’accordo politico raggiunto tra i due partiti di maggioranza sul taglio delle cosiddette pensioni d’oro (ora il limite di reddito è fissato a 4.500 euro).

La proposta di legge siglata M5s è stata infatti depositata ieri alla Camera e l’esame dovrebbe partire la prossima settimana. La stretta riguarderebbe anche i lavoratori delle organizzazioni sindacali come quelli degli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale: Quirinale, Parlamento, Governo, Corte costituzionale, Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Csm, Cnel.

La sforbiciata libererebbe altri ‘spiccioli’ utili a pagare gli interventi promessi. Ma anche così il gettito non sarebbe sufficiente. Si lavora affinché Tria abbandoni la ferma volontà di contenere il deficit del 2019 all’1,6% in rapporto al reddito nazionale in favore di un aumento dell’indebitamento netto che si possa spingere fino al 2,5%. In pratica, si punta a forzare la mano prima con il Tesoro e poi con Bruxelles. Di Maio dalla Cina ha proposto all’Europa uno scambio: più deficit quest’anno a fronte dell’impegno a rientrare nei parametri dal 2020. In cambio, invece, dal fronte leghista, si è disposti a qualche rinuncia ‘previdenziale’.

L’obiettivo annunciato da Salvini prevede quota 100 con 62 anni di età e 38 di contributi per tutti i lavoratori a partire dal prossimo anno. Allo studio, però, ci sono pure opzioni più soft. Come l’ipotesi di concentrarsi in una prima fase solo su alcune categorie più deboli, oppure quella di far salire l’età a 65. Per la Lega, però, l’aspetto decisivo è il bacino di destinatari del provvedimento. Si ragiona solo su una platea ampia, «di almeno 200mila persone».

Le misure della discordia

1 – La flat tax è un sistema di tassazione che applica una singola aliquota fiscale a tutti i livelli di reddito. In campagna elettorale si è molto parlato della misura, che in forma soft dovrebbe partire già in questa manovra, ma vanno superate le resistenze del Tesoro che non vuole forzare la mano sul deficit. La flat tax, seppur nella versione light rivolta alle partite Iva, costerebbe circa 2 miliardi ma la Lega vuole introdurre anche un’aliquota Ires agevolata del 15% su tutti gli utili reinvestiti in azienda per l’acquisto di macchinari e assunzioni.

2 – Ricontrattare al ribasso con le aziende farmaceutiche i prezzi dei super-farmaci acquistati dallo Stato, a partire da quelli per l’epatite C, utilizzare i risparmi che verranno dalle misure del tavolo per la farmaceutica e agire contro gli sprechi legati ai farmaci. La scure del ministero della Salute potrebbe abbattersi su queste tre voci con l’obiettivo di recuperare risorse per poter arrivare, nell’ambito della manovra, al taglio dei superticket in Sanità ed alla rimodulazione degli altri ticket.

3 – Per M5s è da sempre la misura-simbolo: non ci può essere manovra senza il reddito di cittadinanza. Il problema è che questa forma di sostegno alla povertà, ben più ampio del Rei (che verrebbe inglobato) avviato dal centrosinistra, costa molto, fino a 17 miliardi annui. Il solo aumento delle pensioni minime a 780 euro da solo costa circa 5 miliardi. Per questo, pur prevedendo un avvio graduale, il Movimento punta ad ottenere subito 10 miliardi. Ma la cifra è difficile da finanziare, tanto più che sembrano svanite nel nulla le coperture sbandierate nella passata legislatura.

4 – L’obiettivo della Lega è quello di una norma “più ampia possibile”, da far partire in tandem con la Flat tax. Un’operazione, in ogni caso una tantum, per la quale il sottosegretario Bitonci ha indicato un tetto per contribuente alto, a un milione di euro (con l’ipotesi di 3 aliquote: al 6, 15 e 25%), accompagnata anche da una “voluntary disclosure” sulle cassette di sicurezza. M5s non vuole però una “pace” che assomigli molto a un condono e, nelle ultime ore, sia Di Maio sia Salvini hanno frenato su quest’intervento, che entrerà in un dl fiscale collegato.

Avvenire

 

No alla guerra all’informazione. L’attacco in corso e i giusti richiami di Mattarella

C’è un nodo cruciale nella democrazia del Terzo millennio e si chiama comunicazione. A fine luglio Sergio Mattarella ricevendo i giornalisti li aveva invitati, al pari dei politici, a «governare il linguaggio», evitando la comoda scorciatoia di ‘incolpare l’untore’. La fake news ante litteram: «Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune», scriveva Manzoni nei ‘Promessi sposi’. L’insistenza con cui Mattarella difende la libertà di stampa «elemento portante e fondamentale della democrazia», a fronte di «insidie volte a fiaccarne la piena autonomia», è la spia di una preoccupazione che tocca anche il livello più alto delle istituzioni. Preoccupazione per il rischio che la sconfinata capacità della Rete nel veicolare contenuti vada a discapito della verità e del rispetto dovuto alle persone, specie le più fragili. «Il web è spazio di libertà e, per definizione, non merita censure», ha detto il capo dello Stato all’Isola d’Elba per l’inizio d’anno scolastico.

Ma anche per lui casi drammatici come la morte assurda di Igor Maj (il ragazzo indotto a togliersi la vita da una terrificante pratica diffusa online) impongono una riflessione ineludibile. La Rete non può trasformarsi «in un mondo parallelo e incontrollato in cui succede impunemente di tutto». Il tema della fragilità di tanti nel web interroga la scuola e la famiglia. Ma, sempre più, anche le istituzioni pubbliche. Quattordici capi di Stato europei ne hanno discusso la scorsa settimana a Riga, all’incontro annuale del cosiddetto ‘gruppo di Arraiolos’. Il tema era la cyber security:

«Sappiamo che le conseguenze di attacchi informatici possono essere disastrose, sui sistemi informatici pubblici, sulle banche, sui sistemi elettorali, sui sistemi sociali e sanitari», ha detto Mattarella. Denunciando la possibilità, evocata anche da altri capi di Stato, che l’attacco possa venire non solo da «grandi gruppi criminali», ma «anche Stati con atteggiamento ostile». Vale la pena di ricordare una torbida vicenda che il Quirinale ha potuto monitorare direttamente: gli oltre 300 profili falsi spuntati come funghi la notte del 27 maggio, a sostenere l’hashtag #Mattarelladimettiti e la proposta di impeachment.

C’era anche chi aveva ipotizzato che l’attacco potesse essere venuto dall’estero, i successivi approfondimenti avrebbero però portato a escluderlo. Ma il caso della centrale russa di San Pietroburgo che sarebbe intervenuta pesantemente nelle elezioni americane impone di tenere alta la guardia. Il tema non riguarda una sola istituzione (fosse pure la più importate) o un solo Stato. Il tema è più inquietante: la fragilità nel web espone a rischi la libera discussione democratica di un intero Paese e – in vista delle prossime Europee – di un intero Continente. Scenari da fantascienza che possono diventare realtà col sistema del contagio ‘virale’ via Internet, attraverso false informazioni pilotate.

Ma per difendersi dalle false notizie non c’è altra strada che incrementare quelle vere, proteggendo il ruolo della libera stampa. Che più è scomoda, più è libera. Si è a lungo parlato del record di tre mesi senza governo, dopo il voto del 4 marzo. Ma c’è stato un record nel record: tre mesi vissuti senza domande nelle conferenze stampa al Quirinale dei consultati dal Presidente: solo dichiarazioni e reti unificate o dirette Facebook. «C’è un’insofferenza crescente verso il potere di controllo dell’informazione e l’insostituibile ruolo di mediazione della stampa», denuncia Carlo Verna, presidente dell’Ordine dei giornalisti.

Un Ordine da riformare «fin dal nome, che si potrebbe chiamare ‘ordine del giornalismo’ – propone –, per sottolineare di più la sua funzione sociale». Che è poi la funzione di «tutelare la personalità altrui» con l’«obbligo inderogabile» del «rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede», citando l’articolo 2 della legge istitutiva dell’Ordine, scritta 65 anni fa da Aldo Moro e Guido Gonella. Un testo saggio e, quindi, da maneggiare con cura in caso di riforma.

da Avvenire