Dio guarisce per renderci liberi. Commento al Vangelo Domenica 9 Settembre

XXIII Domenica
Tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

In questo racconto Gesù appare innanzitutto come il “passatore” di frontiere: cammina con i suoi attraversando la Galilea, passando alle città fenice di Tiro e Sidone, fino alla Decapoli pagana. Il cammino di Gesù, l’uomo senza confini, è come una sutura che cuce insieme i lembi di una ferita, alla ricerca di quella dimensione dell’umano che ci accomuna tutti e che viene prima di ogni divisione culturale, religiosa, razziale.

Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, una vita dimezzata, ma che viene “portato”, da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene, fino a quel maestro straniero, ma per il quale ogni terra straniera è patria.
E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più. Appartiene proprio alla pedagogia dell’attenzione la successione delle parole e dei gesti. Lo prende, per mano probabilmente, e lo porta via con sé, in disparte, lontano dalla folla, e così gli esprime un’attenzione speciale; non è più uno dei tanti emarginati anonimi, ora è il preferito, e il maestro è tutto per lui, e iniziano a comunicare così, con l’attenzione, occhi negli occhi, senza parole. E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati.
Gesù pose le dita negli orecchi del sordo: il tocco delle dita, le mani che parlano senza parole. Gesù entra in un rapporto corporeo, non etereo o distaccato, ma come un medico capace e umano, si rivolge alle parti deboli, tocca quelle sofferenti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti dò qualcosa di mio, qualcosa di vitale, che sta nella bocca dell’uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito. Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore e «i sensi sono divine tastiere» (D.M. Turoldo). La salvezza passa attraverso i corpi, non è ad essi estranea, né li rifugge come luogo del male, anzi sono «scorciatoie divine» (J.P. Sonnet),
Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore; emettendo un sospiro che non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo di dolore, ma è il respiro della speranza calmo e umile, è il sospiro del prigioniero (Salmo 102,21), è la nostalgia per la libertà (Salmo 55,18). Prigioniero insieme con quell’uomo impedito, Gesù sospira: Apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole, come si apre il cielo dopo la tempesta.
Apriti agli altri e a Dio, e che le tue ferite di prima diventino feritoie, attraverso le quali entra ed esce la vita. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno.
Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l’uomo vivente» (Sant’Ireneo) l’uomo tornato a pienezza di vita.
(Letture: Isaia 35,4-7; Salmo 145; Giacomo 2,1-5; Marco 7,31-37)

Avvenire

Agrigento. Il giudice Rosario Livatino più vicino agli altari

Annunciata per il 3 ottobre la chiusura della fase diocesana della causa di beatificazione. Montenegro: la fede ha dato forma al suo servizio. Ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990

Da Avvenire

Il giudice Rosario Livatino ucciso il 21 settembre 1990

Il giudice Rosario Livatino ucciso il 21 settembre 1990

Il prossimo 3 ottobre, giorno in cui avrebbe compiuto, se fosse stato ancora in vita, sessantasei anni, si terrà, a porte aperte, l’ultima sessione della fase diocesana del processo di beatificazione del giudice Rosario Angelo Livatino. A darne l’annuncio, nel corso di una conferenza stampa, l’arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro, assieme al giudice delegato che ha condotto tutto il processo a nome dell’arcivescovo, don Lillo Maria Argento ed il postulatore della causa di canonizzazione, don Giuseppe Livatino.

La conferenza stampa ad Agrigento per la causa di beatificazione

La conferenza stampa ad Agrigento per la causa di beatificazione

«Rosario Livatino – ha ricordato il cardinale Montenegro nel suo intervento iniziale – è la figura di un professionista colto ed estremamente consapevole. Credente convinto e praticante. La sua fede ha dato forma al suo servizio professionale. Stando alla sentenza – ha proseguito Montenegro – Livatino è stato ucciso perché perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».

La fase diocesana era iniziata nel 2011

La fase diocesana del processo di beatificazione del giudice Rosario Angelo Livatino ha avuto inizio il 21 settembre 2011, giorno del ventunesimo anniversario del suo omicidio, ad opera di un commando che prima crivellò di colpi la vettura su cui viaggiava il giudice e poi lo inseguì per il colpo di grazia. Una prima seduta, anch’essa pubblica, in cui molti pensavano di conoscere già la figura del giudice del tribunale di Agrigento ma che, invece, come ha ribadito il postulatore, don Giuseppe Livatino nel corso della conferenza stampa, è emersa davvero solo con la escussione dei testi di questo processo. «Il ritratto che viene fuori dall’ascolto dei testimoni e dalla lettura delle sue agende – ha detto il postulatore – è un ritratto quasi a tutto tondo. Non amava parlare di sé Rosario, ma non amava neanche far parlare di sé quindi, per noi, il lavoro è stato abbastanza complesso. Molti dei testimoni poi avevano già lasciato la magistratura ed altri, purtroppo non erano in condizione di poter dare il loro contributo. Però, nel corso del processo, è emersa la figura di Rosario. Quella di un magistrato integerrimo, cultore determinato del segreto istruttorio, che aveva molto rispetto per l’umanità e la dignità non solo di chi collaborava con lui ma anche nei confronti degli imputati».
Dal racconto del postulatore viene fuori la figura di un uomo a tutto tondo con le paure di un giovane dei suoi tempi che riesce a vincerle attraverso la sua profonda fede. «In tutta la sua vita – ha proseguito don Livatino – Rosario non conosce mai la parola “rinuncia” o “sacrificio” ma sempre quella di “scelta”. Compiuta la scelta questa doveva essere finalizzata al fare il bene degli altri».

Tra i testimoni anche uno dei suoi killer

L'auto del giudice Livatino crivellata di colpi (foto Ansa)

L’auto del giudice Livatino crivellata di colpi (foto Ansa)

Questo il tratto distintivo, che emerge dalle carte processuali della vita e della dimensione umana di Rosario Livatino: fare il bene degli altri. Quattromila pagine, quarantacinque testimoni, sono questi i numeri delprocesso che ha visto tra i suoi protagonisti anche uno dei killer di Livatino. Gaetano Puzzangaro, uno dei cinque uomini del commando che, in una calda mattinata di settembre, quasi per gioco e per il “prestigio” che ne sarebbe derivato, uccisero brutalmente e senza alcuna pietà il magistrato, ha dato la sua testimonianza nel processo di canonizzazione dell’uomo che lui stesso ha ucciso.

Il corpo del giudice Livatino coperto da un lenzuolo nel luogo dell'omicidio (foto Ansa)

Il corpo del giudice Livatino coperto da un lenzuolo nel luogo dell’omicidio (foto Ansa)

«La figura del giudice Livatino – ha detto il giudice delegato, don Lillo Maria Argento – è quella di una persona bella ma complessa, in un certo qual modo osteggiata, forse per lo stesso ruolo di giudice che svolgeva. Ha seguito fino in fondo la giustizia, l’ha seguita con amore alla luce del Vangelo».
«Ho la gioia nel cuore – ha detto in conclusione l’arcivescovo di Agrigento Montenegro dando appuntamento ai presenti al prossimo 3 ottobre – perché il cammino che si è fatto oggi, sta portando i suoi frutti»

Nell’AT… il Dio dei monti

Mentre è in corso un consiglio militare degli Aramei per decidere la strategia di conquista del regno di Samaria, i consiglieri se ne escono con questa considerazione: «Il loro Dio è un Dio dei monti; per questo ci sono stati superiori; se combatteremo contro di loro in pianura, certamente saremo superiori a loro» (1 Re 20,23). Essi pensano che il Dio d’Israele sia una divinità montana. Così come esistono dei marini o astrali non fa meraviglia, per dei pagani, che il Dio israelitico eserciti la sua influenza sui monti, e che nei suoi domini il suo popolo risulti invincibile. L’idea del Dio montanaro c’è anche in passaggio profetico: «Dio viene da Teman, il Santo dal monte Paran. La sua maestà ricopre i cieli, delle sue lodi è piena la terra». (Ab 3,3).
Il Signore d’Israele riempie delle sue lodi la terra intera perché egli è il Dio di tutta la terra (Gs 3,11.13; Sal 47,8 ecc.). Paran si trova nella penisola del Sinai. È dunque un nome che si associa a quelli classici per il monte della rivelazione: Oreb e Sinai. L’etimo del primo nome è dalla radice arab, che significa “essere secco”. Rugiada e forza di fertilità di quel monte è Dio stesso. Dopo il passaggio del mare la vita d’Israele parte dal “monte della voce”. Gli accenti delle labbra divine, se ascoltati faranno della massa di schiavi usciti dall’Egitto la realizzazione di questo progetto: «Se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli». (Es 19,5).

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